In Europa le politiche solidaristiche vanno via via nella direzione di uno smantellamento a favore del perseguimento di politiche di workfare. Tuttavia, quest’ultimo non ha creato più occupazione, al contrario ha mostrato di essere strumento inadeguato a far fronte alla dilagante crisi di povertà. Dunque, se il lavoro è manchevole o indignitoso come troppo spesso accade, è necessario muoversi in una direzione alternativa per dare risposta alle istanze di giustizia sociale invocate da milioni di persone a rischio povertà.
La crisi del welfare e l’avvento del workfare
La crisi del modello sociale che imperversa nei paesi europei è da rinvenirsi già dagli anni ‘80, momento storico in cui si materializza il fenomeno della disoccupazione di massa. A partire da detto periodo, le amministrazioni europee, sulla falsariga del Reaganismo e del Thatcherismo americano ed inglese, mettono a punto politiche di workfare volte a creare un maggior grado di occupazione. La centralità assunta dal modello di lavoro salariato post-fordista – che fino ad allora aveva rappresentato la forma ‘classica’ del rapporto tra capitale e lavoro – viene considerata ancora valida al fine di far fronte alla crisi economica ed occupazionale. In particolare, vengono introdotte politiche di flessibilità del lavoro, ridotti i diritti sociali e reindirizzate le risorse economiche dal welfare alle cosiddette “politiche attive del lavoro” Queste ultime, più nello specifico, si caratterizzano per prevedere doveri stringenti per i percettori di sussidi (le cosiddette condizionalità) e l’obbligo di accettazione di lavori a basso salario, destinati successivamente a dare vita alle figure del lavoratore precario e dei working poor. In ultima istanza, si è andati progressivamente nella direzione di uno smantellamento quasi totale del welfare.
Il ruolo del neoliberismo e della destra populista
Gli effetti distruttivi prodotti nei decenni dal neoliberismo in campo economico, sociale e politico hanno portato all’elaborazione, teorica e pratica, di proposte alternative al fine di affrontare la grande trasformazione del lavoro che si è verificata negli ultimi anni e dare risposta alle crescenti domande di protezione sociale da parte delle classi meno abbienti. Se quindi il modello neoliberista viene interpretato come un progetto per ridurre lo stato sociale, è necessario indagare nuove declinazioni di riforme socioeconomiche su vasta scala, capaci di rispondere all’insicurezza economica e all’aumento delle disuguaglianze, nonché a potenziare quel vincolo sociale ormai eccessivamente allentato dagli imperativi dell’individualismo e della società ridotta a mercato. Giacchè la razionalità neoliberale naturalizza le diseguaglianze e depotenzia i conflitti sociali, si configura come necessario pensare ad un nuovo paradigma che si basi su presupposti diversi da quelli adottati fin’ora. Al lato opposto del conservatorismo sociale di cui sopra, si avanzano ipotesi di istituzione di una misura di garanzia del reddito indipendente dal lavoro, il cosiddetto reddito di base, o reddito di cittadinanza, o ancora dividendo sociale.[1] L’ipotesi nasce dall’esigenza di affrontare la disoccupazione, la sotto-occupazione, la precarizzazione ed infine la valorizzazione dell’individuo al di fuori della sola sfera produttiva ascrivibile al mercato del lavoro. In altre parole, emerge la necessità di uno Stato che ambisca a costruire uguaglianza attraverso politiche sociali non raggiungibili ‘naturalmente’ attraverso il libero gioco degli interessi contemplato dalle logiche di mercato.
Da un lato abbiamo il reddito minimo garantito, una misura introdotta già in diversi paesi europei, Italia inclusa, che si propone di sostenere l’individuo nella fase transitoria che coincide con la ricerca di un’occupazione. Tuttavia, al netto di pochi esempi virtuosi rinvenibili in vari paesi europei, la misura del reddito minimo è caratterizzata sempre più frequentemente da obblighi sempre più stringenti ad accettare le offerte di impiego – troppo spesso inadeguate o indignitose – in cambio di sussidi sempre meno generosi. L’Italia stessa, con l’introduzione del reddito di cittadinanza, dimostra come ci sia una riluttanza generalizzata nel concedere forme di aiuto economico a coloro che non possono vantare un’occupazione stabile e adeguatamente retribuita. E’ ancora fortemente radicata nella cultura post-capitalista la feticizzazione del lavoro, concepito come unico e sacro mezzo per nobilitare gli individui e guadagnarsi il rispetto degli altri, come l’ethos che caratterizza il nostro tempo. Al contrario, l’individuo che non lavora, perché non può o non vuole, viene ascritto alla categoria di nullafacente, di colui che non si rimbocca le maniche e che di conseguenza è indegno di qualsivoglia tipologia di protezione sociale ed economica.[2] Ciò che si verifica, in ultima analisi, è un’adesione passiva ad un ordine – quello neoliberale – considerato come inesorabile e senza alternative, ed uno snaturamento dei pilastri fondanti del progetto europeo, che vedeva proprio lo stato sociale come sua ragione d’essere.
Sul versante politico, non appare affatto stupefacente la deriva post-fascista attraversata dai paesi europei, sempre più legittimata e che fa leva proprio su quelle incertezze esistenziali ed economiche prodotte dall’attuale paradigma produttivo. In altre parole, ciò che è il risultato di politiche sociali ed economiche degli scorsi decenni viene interpretato dalle destre populiste per capitalizzare il malcontento delle classi subalterne ed ottenere consensi per sopravvivere. Il malessere sociale, il risentimento, la paura e la rabbia generate da un modello ormai troppo distante dalla dimensione sociale, sono elementi fecondi per l’affermazione di una classe politica che si identifica come l’unica vera protettrice del popolo, comunque inteso, e che in fin dei conti si rivela essere solo un simulacro di protezione.
Ripensare alle politiche sociali con un reddito di base
Data la premessa economica e politica sopra indicate, è chiara l’importanza del tema di un reddito di base come strumento capace di redistribuire la ricchezza e come diritto alla libertà di scelta e all’autodeterminazione delle persone. Il reddito di base, nelle sue diverse declinazioni, dovrebbe essere indagato in relazione ai differenti fenomeni che caratterizzano la contemporaneità, quali la precarizzazione della vita, l’emergere di nuove povertà, l’avvento della robotica ed una nuova idea di partecipazione alla vita politico-sociale. In altre parole, un ripensamento complessivo dell’individuo e della sua partecipazione all’interno della società, nonché il suo rapporto con lo Stato.[3]
Una ricca serie di iniziative in materia di reddito minimo è riscontrabile in tutto il mondo ed in particolare in Europa. Ricordiamo la campagna ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) del 2013 e di quest’anno, che ha visto firmare oltre 300.000 cittadini europei in sostegno alla proposta di introduzione di un reddito di base.[4] Sono inoltre interessanti le proposte di progetti pilota di molti paesi europei riguardanti l’adozione di un reddito minimo con condizionalità meno stringenti, ad esempio le proposte dell’Olanda, Finlandia, e quella di alcuni comuni in Svizzera come Losanna, a dimostrazione del fatto che il dibattito sul reddito di base sia molto più esteso di quello che solitamente si pensa in merito all’argomento. Ciò dimostra che forse è giunto il momento di scollegare le politiche di protezione sociale dalla coercizione ad un lavoro che o viene drasticamente a mancare o assume forme del tutto diverse da quelle tradizionali tipiche del secolo scorso (si pensi alla robotizzazione della produzione).
Per concludere, è imprescindibile porre all’ordine del giorno questioni del tipo: come si può condurre una vita sensata anche se non si trova (o non si vuole trovare) un lavoro? E al di là della piena occupazione da sempre glorificata, come saranno possibili la democrazia e la libertà? Se il lavoro ha smesso di essere sempre e comunque lo strumento grazie al quale è possibile qualsivoglia forma di mobilitazione sociale, è necessario riconcepire il modello welfaristico dell’attuale sistema economico tardo capitalista. Bisognerebbe quindi riconoscere che il topos del lavoro che nobilita l’uomo non è valido sempre e per tutti, e che esistono modelli alternativi di stare in società più confacenti alle congiunture storiche contemporanee e alle esigenze degli individui moderni. L’ideologia liberista contiene in sé diversi assunti, che indirettamente riguardano la visione di ‘chi cura chi’: il primo è la responsabilità individuale, che impone che ogni individuo debba rispondere come singolo ai suoi bisogni, senza ricorrere all’aiuto della società; il secondo è la rappresentazione del mercato come luogo adeguato e sufficiente per la soddisfazione dei bisogni personali.[5]
Da questi assunti deriva la presunzione di a-socialità dell’uomo, che non necessiterebbe di nessuno al di fuori di sé stesso. Diversamente, ciò di cui il nostro tessuto sociale avrebbe bisogno è proprio un ripensamento dell’idea di cura, capace di svelare l’artificio dell’uomo solo e di muoversi in un’altra direzione, che faccia capo non più alla dogmatica accettazione del mercato (e delle sue esigenze) ma in primis al benessere della collettività, all’idea di reciprocità e di cura dell’altro. Il reddito di base ha il potenziale di assicurare che ciascuno riceva una parte adeguata e giusta del patrimonio che nessuno di noi ha contribuito a creare, che è incorporato nei nostri redditi in maniera fin troppo diseguale.
Note
[1] Per approfondimenti sul reddito di base, si veda Van Parijs, P., Vanderborght, Y., Basic Income: A Radical Proposal for a Free Society and a Sane Economy, Harvard University Press, 2017
[2] Taylor-Gooby, P., Why Do People Stigmatise the Poor at a Time of Rapidly Increasing Inequality, and What Can Be Done about It?, Political Quarterly 84(1): 31-42, 2013
[3] BIN Italia, Quaderni per il Reddito n. 04, Diritti sociali e reddito garantino per un’Europa 2.0, 2016
[4] Per ulteriori approfondimenti, consultare il Basic Income Network (BIN) Italia al sito www.bin-italia.org
[5] Serughetti, G., Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia, p.160, Laterza, 2021
Foto copertina: Reddito di base