La crisi dei rapporti tra Usa e UE post guerra fredda


Un attrito, tra Usa e Ue, sviluppatosi tra le sabbie mediorientali, a causa delle tre guerre che di lì a pochi anni avrebbero sconvolto gli equilibri del mediterraneo e, per estensione, del mondo.


 

Introduzione

Il periodo immediatamente pre e post-1991 fu di grande importanza per le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Il grande attore protagonista della guerra fredda insieme agli Usa, l’Unione Sovietica, stava crollando su sé stesso e il mondo si preparava ad entrare in un’“era” di unilateralismo a guida statunitense.
Gli Stati Uniti, vincitori della guerra fredda, avevano visto il trionfo del loro modello e un ritorno a quegli aneliti di esportazione del modello stesso nel resto del mondo, sotto l’egida de “i valori giusti” che si tradussero nelle due direttrici principali della politica estera statunitense; l’unilateralismo e l’egemonia. Nei primi anni dopo il 1991, però, in particolare nell’ Europa dell’Est e in quei paesi che facevano parte dell’ex blocco sovietico, l’esportazione del modello statunitense ebbe un’accezione prettamente economica e non supportata ideologicamente, la qual cosa si mostrerà durante le guerre jugoslave e l’allontanamento degli Usa dalla questione. Allontanamento che sarà il primo punto di frattura effettivo nei rapporti tra Usa e Ue e che vedrà coinvolte le grandi organizzazioni internazionali quali la Nato e l’Onu, ma anche le altre potenze dello scacchiere internazionale post-guerra fredda.

A cominciare dagli Stati Uniti, la superpotenza superstite che in quanto tale non poteva fare a meno di occuparsi del problema cui aveva del resto dedicato nei decenni precedenti un serio impegno nell’ottica del sistema bipolare della guerra fredda. E che ora si trovava di fronte a prospettive contrastanti […]. La preoccupazione del presidente Bush di non distogliere l’attenzione dalla questione incombente dell’Iraq e in genere del Medio Oriente; la disposizione degli americani a ritenere l’Europa dal momento che non aveva più bisogno della protezione degli Stati Uniti contro l’espansione sovietica, avrebbe potuto e dovuto farsi carico delle questioni che si ponevano al suo interno.[1]

Infatti, fu proprio il Medio Oriente a divenire il teatro di scontro nonché fulcro di tutte le dinamiche principali tra gli attori del nuovo scacchiere internazionale, ed è proprio in Medio Oriente che i rapporti tra Usa e Ue inizieranno a degenerare, a causa delle tre guerre che di lì a pochi anni avrebbero sconvolto gli equilibri del mediterraneo e, per estensione, del mondo.

La prima guerra del golfo. Esercizio egemonico

Il periodo che caratterizzò i mesi precedenti la prima guerra del golfo fu molto particolare, per la delicata e fragile questione internazionale sul bipolarismo oramai morente che poneva quel che restava dell’Unione Sovietica di Gorbačëv in una posizione di netto svantaggio al tavolo delle decisioni del consiglio di sicurezza dell’ONU e che vedeva gli Stati Uniti, guidati da Bush sr., intenti a non ostentare ancora una politica “vittoriosa”, embrione dell’unilateralismo egemonico già precedentemente accennato. “Durante i quattro anni (1989-1992) della presidenza di George Bush Sr., gli Stati Uniti si propongono con sostanziale successo di non seguire una politica unipolare: in un primo tempo portando avanti la parvenza di un sistema bipolare Usa-Urss che in realtà non c’è più”[2]
Il cardine fu la questione mediorientale sollevata dal leader iracheno Saddam Hussein, che avviò una campagna espansionistica ed aggressiva che culminò con l’invasione del piccolo stato del Kuwait. L’Iraq di Saddam, una nazione a guida laica da parte del partito baathista, si era rivelato precedentemente utile nel contrastare l’espansionismo dell’Iran nella regione, da sempre visto come il vero nemico, ignorando che l’Iraq fosse un attore altrettanto pericoloso, la qual cosa era già nota.

Le vicende degli anni Ottanta, con la guerra Iran-Iraq e, da parte di Saddam Hussein, l’uso più volte denunciato al Senato americano e alle Nazioni Unite di armi chimiche contro gli Iraniani e contro l’opposizione interna curda, non avevano trattenuto la presidenza Reagan dallo stabilire alle fine con l’Iraq rapporti tali da farlo considerare un partner effettivo degli Stati Uniti in Medio Oriente[3].

La guerra iniziò il 17 gennaio 1991, e dal punto di vista militare e della durata non ebbe aspetti particolarmente rilevanti. La superiorità della coalizione internazionale era schiacciante; da una parte gli Usa si posero alla testa della coalizione musulmana moderata mentre dall’altra vi era la coalizione delle forze ONU. La prima guerra del golfo però non solo segnò definitivamente la fine del sistema bipolare internazionale ma conseguentemente a questo accelerò i processi di unificazione europea e di allontanamento attivo degli Usa dalle questioni europee già citato.
La mancanza di quella “grande minaccia” che era l’Unione Sovietica e la possibilità di allargare gli orizzonti dell’Ue a quei paesi che facevano parte dell’ex blocco socialista furono fattori concomitanti per quella crisi dei rapporti tra Usa e Ue di cui oggi vediamo le conseguenze più concrete. Ma il processo, durante gli anni della prima guerra del golfo, era appena iniziato e le divisioni interne agli stati dell’Europa occidentale, soprattutto di carattere storico-culturale, impedivano un processo di unificazione rapido e lineare.

Il fatto era che quasi tutti i paesi europei guardavano all’unificazione, ma le posizioni erano diverse a seconda della loro storia vicina e lontana e della loro posizione geografica. Libertà – democrazia – economia di mercato – “Europa” (intesa come simbolo di una meta ora raggiungibile) – “Occidente” (perché il legame tra Europa e Stati Uniti appariva inscindibile)[4]

Sicuramente la fine del bipolarismo ha posto in risalto la questione dell’unificazione europea, che come abbiamo visto era ancora lontana e negli anni della prima guerra del golfo non aveva intaccato il legame di forte unione con gli Stati Uniti, ma il seme di quelle che sarebbero diventate profonde fratture in questo rapporto era stato gettato. Gli Usa iniziarono a vedere l’Europa unita come un competitor strategico e non più come un fulgido alleato e baluardo contro l’ombra sovietica e i tragici avvenimenti dell’11 settembre del 2001 diedero una spinta definitiva a queste dinamiche.

As America became more interventionist and unilateralist, much of Europe remained committed to multilateralism and more hesitant about military interventions within Europe or outside. United States interests have shifted away from Europe toward the Middle East, Central Asia, and China, while Europe has focused primarily on the expanding EU and the broader Mediterranean region[5].

Afghanistan, l’intervento “riconciliante”

Vent’ anni dopo la rivoluzione in Iran che aveva portato il paese ad essere la prima Teocrazia mediorientale, emerse in Afghanistan un gruppo rivoluzionario di studenti religiosi, provenienti dalle scuole coraniche del Pakistan, comunemente noti come Talebani. Fomentati dall’ardore religioso e addestrati alla guerra soprattutto da ufficiali e generali formatisi durante l’occupazione Sovietica e poi emigrati in Pakistan, riuscirono a conquistare rapidamente il consenso di molti. L’utilizzo di tecniche di persuasione e corruzione degli avversari unite a tecniche militari di logorante guerriglia fecero sì che i Talebani riuscirono ad espandersi e in pochi anni a conquistare la capitale del paese, Kabul, nel 1996. Parallelamente a questo, dalle fila di quelli che erano i mujaheddin (gli “eroi” della resistenza antisovietica nel paese durante gli anni di occupazione) nacque un gruppo di estremisti islamici conosciuto come al-Quaed al Sullah, guidato da un teologo di nome Azzam, e che aveva lo scopo di liberare tutto l’Islam dalle dominazioni straniere. Azzam morì nel 1989 e venne presto succeduto da un giovane, di nome Osama bin Laden, proveniente da una ricca famiglia saudita che sarebbe diventato colui che avrebbe dato ad al Qaeda la sua definitiva direzione antioccidentale e soprattutto antiamericana.

L’Afghanistan poteva essere portato dai Talebani a partecipare a un nuovo “grande gioco” […] che da difensivo poteva diventare offensivo, come sembravano promettere tre eventi che si concentrarono nell’anno 1996: l’occupazione di Kabul da parte appunto dei Talebani, con tutto il significato che essa poteva avere per la loro posizione nell’Islam fondamentalista; il ritorno di Osama bin Laden, ora a capo della più importante organizzazione terroristica islamica (al-Qaeda); la svolta che lo stesso bin Laden diede, a tre mesi dal suo ritorno, alla jihad rivolgendo dall’Afghanistan la sua dichiarazione di guerra agli Stati Uniti [6].

La natura multiforme e articolata che bin Laden diede all’organizzazione fece sì che l’amministrazione Clinton, nonostante le minacce aperte del gruppo agli Stati Uniti, in particolare verso la presenza delle basi militari di questi ultimi in Arabia Saudita, non prendesse mai una posizione interventista aperta e di larga scala. Furono vagliate varie opzioni, soprattutto a seguito degli attacchi terroristici alle ambasciate statunitensi, avvenuti nel 1998, in Tanzania e Kenya. Il presidente autorizzò il lancio di missili Cruise contro i campi di addestramento in Afghanistan nella speranza di uccidere Bin Laden, ma senza successo e l’anno dopo venne proposto dalla CIA l’utilizzo di forze speciali dell’I.S.I. (Inter-Service Intelligence) Pakistano per eliminare lo 2sceicco del terrore”. Questi interventi di “precisione” si dimostrarono inefficaci e la minaccia di Bin Laden crebbe sempre di più fino a culminare in un evento catastrofico verificatosi pochi mesi dopo la fine dell’amministrazione del presidente Clinton.

 A otto mesi dall’inizio della dell’amministrazione di George W. Bush Jr., l’11 settembre 2001, l’attacco terroristico di al-Qaeda a New York e a Washington, offre ai neoconservatori l’occasione per assumere per qualche anno il ruolo attivo che non sono mai riusciti a conquistare nemmeno durante la “presidenza imperiale” di Ronald Reagan. George Bush Jr., infatti, dichiara subito la “guerra al terrore”[7]

In base alle parole del direttore della C.I.A. George Tenet (direttore nel periodo che va dal 1995 al 2004), l’agenzia riteneva che i segnali di un attacco diretto al suolo americano fossero evidenti. Al-Qaeda e bin Laden erano oramai punto fisso delle riunioni dello staff presidenziale ma il neoeletto presidente non riuscì a prendere una decisione incisiva fino all’11 settembre. Nonostante le intenzioni fossero più che mai quelle di catturare bin Laden e distruggere al-Qaeda, all’interno dell’amministrazione Bush Jr. vi era una certa riluttanza a gettarsi a capofitto in questa “guerra al terrore”. Il rischio che gli eventi si ripetessero come era stato per i Sovietici, impantanati per dieci anni in una guerra impossibile da vincere con mezzi tradizionali, come anche di trasformare la war on terror in un nuovo Vietnam erano alti. Che un intervento armato ci sarebbe stato, però, era oramai assodato ma restava da decidere se questo intervento dovesse essere mirato alla sola organizzazione e al suo capo o esteso anche al regime dei Talebani, che per anni aveva dato appoggio e rifugio a questi ultimi. A seguito del suggerimento del primo ministro britannico Tony Blair, ovvero di prendere una posizione decisa e dare un ultimatum al regime, fu il presidente in persona a prendere l’iniziativa durante il suo discorso al congresso il 20 settembre 2001: 

“Consegnate alle autorità degli Stati Uniti tutti i capi di al-Quaeda che nascondete […] Chiudete per sempre i campi di addestramento dei terroristi […] Dateci pieno accesso ai campi così che possiamo essere sicuri che non diventino più operativi […] Dovete agire subito consegnando i terroristi oppure condividerne il destino”[8]

Il giorno dopo il segretario della difesa Franks diede immediatamente inizio ai preparativi di quello che sarebbe diventato l’effettivo intervento armato “aperto” dell’America in Afghanistan, l’operazione “Enduring Freedom”. La politica estera che aveva caratterizzato le relazioni americane con la regione mediorientale sin dai tempi della guerra fredda, e persino durante la prima “Guerra del Golfo”, ovvero quella del conteinment, veniva ora pensata ed applicata nella sua accezione più aggressiva e interventista, il regime change.

In the immediate aftermath of 9/11, there was an outpouring of European sympathy, solidarity, and support for the United States. Citizens held candlelight vigils; states promised cooperation in the fight against terrorism; the French proclaimed “We are all Americans”; and for the first time, NATO invoked its self-defense clause.[9]

Parallelamente a ciò uno “spettro del passato” prendeva forma nelle menti a Washington, e in particolare da parte del sottosegretario alla difesa Wolfowitz, secondo il quale il regime di Saddam Hussein in Iraq poteva essere coinvolto nell’attacco dell’11 settembre. Al momento però era l’Afghanistan la principale preoccupazione di Bush, dopo l’11 settembre era stata promessa una forte ritorsione e il popolo americano attendeva con ansia la notizia della distruzione di al-Qaeda. Nonostante questa sembrasse un’impresa di ritorsione tutta americana, la dichiarazione di “guerra al terrore” ebbe una forte eco internazionale. Il presidente trovò appoggio in primis da parte di Blair, poi dalle Nazioni Unite, dalla Nato e anche dall’Unione Europea di cui riporteremo in seguito parte della risoluzione del 23 Ottobre 2001 e che ben dimostra la solidarietà Europea verso lo storico alleato d’oltreoceano.

[il Parlamento Europeo]:

1.  esprime profonda preoccupazione per la situazione internazionale che è venuta a crearsi a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e per l’intervento militare degli Stati Uniti in Afghanistan e ritiene che tale intervento sia legittimo ai sensi della risoluzione 1368 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;

2.  conferma la propria posizione circa la necessità di adottare un’impostazione globale e multilaterale alla lotta contro il terrorismo sotto l’egida delle Nazioni Unite, ribadendo in tale contesto il proprio assenso alle proposte formulate nelle conclusioni del vertice straordinario del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 settembre 2001;[10]

Persino la Russia di Putin diede consenso e appoggio all’azione americana (anche se con la richiesta di cessare la critica all’invasione della Cecenia) fornendo l’autorizzazione ad utilizzare basi aeree in alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica confinanti con l’Afghanistan. “Il 7 ottobre ebbe inizio l’intervento militare “aperto”. Nelle settimane seguenti la pur disunita Alleanza del Nord, con l’appoggio americano, inglese e russo, ebbe ragione sulla resistenza talebana, occupando Mazar-i-Sharif ed entrando il 13 novembre a Kabul”[11]
Il successo militare fu inequivocabile ma sorsero, subito dopo, degli interrogativi non da poco in seno alla coalizione e nella stessa amministrazione americana. Innanzitutto, l’operazione era riuscita sì a rovesciare i Talebani ma non ad eliminare bin Laden, quindi il desiderio di giustizia del popolo americano rimase insoddisfatto. In secondo luogo, guidare l’Afghanistan post-talebano verso una nuova forma di governo democratica e ricostruirne le istituzioni. Ma è proprio lo spettro del presunto coinvolgimento dell’Iraq di Saddam nei fatti del 9/11 che modificherà la direttrice principale della politica estera statunitense in una accezione molto più interventista e che incrinerà nuovamente i rapporti tra Usa e l’Onu, nonché l’Ue; “A new period of Euro-American harmonious collaboration and mutual understanding failed to evolve, however, for the Bush administration’s decision to attack Iraq aroused massive controversy”[12].

La Bush Revolution e la seconda guerra del golfo: l’inizio dell’antiamericanismo  

While European anti-Americanism was hardly a new phenomenon, it took on new forms in the wake of the Iraq War. Earlier anti-Americanism had been couched in anti-capitalist, anti-modern, and sometimes antidemocratic terms and reflected economic and cultural anxieties; after 2001 its emphasis was political, its target foreign policy.[13]

Sotto l’egida di quella che venne chiamata la Bush revolution nei primi anni duemila, la politica estera statunitense si poteva racchiudere lungo due direttrici: l’unilateralismo e l’egemonia. Il ruolo di nazione egemone era stato oramai largamente accettato e messo in pratica ma l’apice di quello che era l’unilateralismo lo si ebbe proprio nell’operazione in Afghanistan contro il regime dei Talebani e contro al-Qaeda e non si sarebbe fermato lì poiché, l’amministrazione Bush “consapevole di dover entrare in questa nuova fase […] impiega un anno e mezzo a farla convergere sulla guerra all’Iraq”[14].
Il presidente, durante il suo discorso nel 2002 sullo stato dell’Unione, denunciò apertamente tutti gli stati che fornivano aiuto alle organizzazioni terroristiche (stati “canaglia”) e che minacciavano l’America e i suoi alleati non solo con politiche aggressive ed espansionistiche ma anche con l’uso di armi di distruzione di massa, avviando quella che poteva sembrare una revisione della “dottrina Truman”, la quale fu applicata in funzione antisovietica. Emersero i nomi di tre stati che secondo il presidente facevano parte di quello che fu definito asse del male; Corea del nord, Iran e l’Iraq.
Dopo pochi mesi, però il target principale degli Stati Uniti diventerà proprio l’Iraq di Hussein che venne accusato di aver utilizzato armi chimiche contro le minoranze interne al paese che venivano perseguitate da oltre un decennio. L’Afghanistan, intanto, nonostante la vittoria schiacciante ottenuta dalla coalizione, era ancora un paese instabile dove guerriglie e schermaglie continue perpetuate dalle truppe rimaste del mullah Omar impedivano quella che doveva essere una pacificazione e una democratizzazione del paese che a quel punto venne vista come impossibile dall’amministrazione americana e destinata ad un fallimento. Fu in quel momento che l’attenzione dell’amministrazione Bush scivolò definitivamente sull’Iraq, spinto anche dal segretario di stato Powell.

When the Administration’s attention shifted to Iraq and the possibility that Saddam Hussein was manufacturing weapons of mass destruction (WMD), Powell pressed to have UN inspectors investigate. In February 2003, Powell presented intelligence to the UN that supported the claim that Iraq had weapons of mass destruction and could produce more. Subsequently, the Administration moved quickly toward preemptive military action against Iraq, despite Powell’s advice that war should not begin until a large coalition of allies and a long-term occupation plan were in place[15]

Nella seconda metà del 2002, la preparazione dell’invasione era già a buon punto e il presidente in varie riunioni tentava di decidere se coinvolgere anche le Nazioni Unite in questa nuova guerra contro l’Iraq.
Nei mesi successivi e con le dichiarazioni dell’amministrazione Bush in merito alla questione si crearono numerose spaccature nelle Nazioni Unite, all’interno della NATO e nella stessa Unione Europea. In particolare in una delle risoluzioni del Parlamento Europeo del 25 Marzo 2003, si evince l’avversione dell’Ue all’operazione militare contro l’Iraq e in particolare con la frase qui di seguito riportata: “è profondamente deluso per l’assenza di ulteriori tentativi di seguire la via della pace fino in fondo onde evitare questa guerra; deplora, in particolare, che il presidente esecutivo dell’UNMOVIC non sia stato autorizzato a proseguire le ispezioni, come da lui stesso richiesto”[16]. Il commento del vicepresidente sull’inefficacia dei controlli operati dalle Nazioni Unite, “per il suo contenuto e perché veniva dalla seconda carica degli Stati Uniti, […] provocò sul piano internazionale la prima presa di distanza di Francia e Germania da quella che sembrava confermarsi come la linea dominante della politica americana”[17]. L’escalation fu rapida, e ciò nonostante fosse stato intimato più volte il “disarmo” dell’Iraq e la destituzione di Hussein. Il silenzio di quest’ ultimo portò ad un ultimatum del presidente Bush, trasmesso in televisione, in cui si intimava ad Hussein di lasciare l’Iraq entro quarantott’ore. L’unilateralismo infine prese il sopravvento e venne lasciata libera scelta alle altre nazioni se partecipare o meno a questa nuova azione contro il “terrore”.

Se George Bush Jr. proclama una guerra al terrorismo in ambito globale e denuncia un nucleo di “stati canaglia” che sostengono i terroristi in diverse regioni del mondo, di fatto l’azione militare degli Stati Uniti si svolge in una sola regione, il Medio Oriente, oggetto del resto da più di mezzo secolo dell’espansione economica e poi anche strategica americana[18].

L’invasione dell’Iraq ha inizio il 19 marzo 2003. La larga coalizione che aveva supportato l’azione contro l’invasione del Kuwait era assente, fatta eccezione per il supporto offerto da quella che Powell definì la “coalizione dei volenterosi” (nella quale spiccarono quelle che erano le effettive divisioni all’interno dell’Unione Europea con l’assenza di Francia e Germania ma con il pieno appoggio fornito da Italia, Spagna e molti stati dell’Europa dell’est).

“Unable to get a UN mandate to attack, the United States recruited a Coalition of the Willing to which forty-nine countries around the globe signed on, but only six – Britain, Poland, Portugal, Australia, Spain, and Denmark – provided troops. France and Germany refused to cooperate.”[19].

Nonostante questo, la guerra, sul piano militare procedeva rapidamente a favore degli USA ma parallelamente doveva iniziare la ricerca delle armi di Saddam che avrebbero giustificato l’operazione agli occhi delle Nazioni Unite e doveva anche iniziare quell’operazione di nation building che avrebbe portato l’Iraq ad essere una nazione democratica a partire dalla Provisional Authority della coalizione:

Invasion of Iraq and Establishment of Coalition Provisional Authority (CPA), 2003.

A coalition of countries led by U.S. and British forces invaded Iraq on March 20, 2003 and seized Baghdad on April 9. On May 12, 2003, the United States established the Coalition Provisional Authority as the interim civil authority in Iraq, under the leadership of L. Paul Bremer III, a former U.S. diplomat. Bremer explained that his chief goals were to manage the post-war reconstruction program and to define a clear path for the resumption of Iraqi sovereignty, tasks that soon were complicated by the outbreak of an insurgency and violent civil unrest.

Transfer of Sovereignty, 2004.

The Coalition Provisional Authority transferred sovereignty to the new Interim Iraqi Government led by Prime Minister Ayad Allawi on June 28, 2004. After announcing the transfer of power to Allawi’s Government, Coalition Administrator L. Paul Bremer stated that the Coalition Provisional Authority ceased to exist; he left Iraq later that day.

U.S. Embassy in Baghdad Reopens; Diplomatic Relations Reestablished, 2004.

Upon the transfer of sovereignty to the Iraqi Interim Government, diplomatic relations were reestablished on June 28, 2004, when the United States reopened its Embassy within Baghdad’s “Green Zone.” Ambassador John Negroponte presented his credentials to the Iraqi Interim Government on June 29.[20]

Purtroppo, a Washington non si tenne debito conto che l’Iraq era una nazione giovanissima e letteralmente costruita dagli Inglesi dopo la Prima guerra mondiale, unendo tre diverse provincie di quello che era l’Impero Ottomano. Le divisioni etniche all’interno del paese erano fortissime e in un certo senso solo il regime laico del partito Baathista di Saddam riusciva a tenerle a bada. Dopo la vittoria militare arrivò il primo smacco all’operazione: “In 2004, some of the intelligence that Powell had brought before the UN in 2003 was found to be erroneous”[21]. Dunque, il regime iracheno non era in possesso di nessuna arma di distruzione di massa. Il principale perno dell’operazione americana si era basato su informazioni false e non verificate che avevano anzi ignorato i rapporti delle Nazioni Unite sulla stessa faccenda, presentati mesi prima, ma un altro colpo era in arrivo.

Sono gli anni nei quali al successo delle forze della coalizione sul campo fa seguito l’impegno dell’amministrazione Bush nella ricostruzione dell’Iraq: iniziata nella stessa primavera del 2003 come nation building ma poi ridotta al compito di proteggere l’esperimento di governo democratico avviato nel primo anno di occupazione dalle insidie che lo minacciavano. Ma sono anche gli anni del ritorno dei talebani in Afghanistan. E in una prospettiva storica più ampia sono gli anni in cui va concludendosi l’egemonia americana in Medio Oriente.[22]

Il processo di nation building che stava richiedendo una sempre maggiore e discutibile concentrazione da parte degli americani era in una fase di stallo e la missione americana rimasta sul suolo iracheno e che sarebbe dovuta rientrare in patria dovette rimanere sul territorio per mantenere la fragilissima tregua che il nuovo governo era riuscito ad ottenere tra tutti gli esponenti dei vari gruppi etnici e religiosi del paese.

Inizio della “crisi egemonica”: l’ “antieuropeismo dell’amministrazione Bush e il multilateralismo di Obama.

Before and after the Iraq War, American politicians and the media launched vitriolic attacks on Europeans and their ostensible anti Americanism. The Bush administration and its many neo-conservative and mainstream supporters presented the case for war in Afghanistan, in Iraq, and against terror everywhere as a necessary and virtuous battle of good against “evildoers,” and chastised “unwilling” Europeans for failing to understand the moral and civilizational stakes in the struggle.[23]

Nonostante la situazione fosse però “critica” il presidente Bush, in patria, venne rieletto per un secondo mandato. Con questo nuovo quadriennio alle porte venne presa la decisione di cambiare la propria linea di azione in politica estera, molti neoconservatori del suo staff vennero allontanati e il punto cardine rimase comunque l’Iraq e la cosiddetta “fase 2” della guerra, ovvero quella di nation building che stava procedendo peggio che mai e il paese era, anzi, sull’orlo di una guerra civile. Bush con il passare dei mesi e il degenerare della situazione espose il 23 gennaio 2007, durante il discorso annuale sullo stato dell’Unione, un piano atto ad inviare altri 21 mila soldati per riottenere il pieno controllo del suolo iracheno e tutto questo in un momento in cui sia gli Stati Uniti che il mondo non attendevano altro che un ritiro delle truppe. Il dissenso fu grande sia tra le fila del governo sia tra gli altri attori internazionali ma la posizione del presidente era inamovibile. La progressiva mancanza di risultati, l’opposizione oramai aperta del Congresso e l’avvicinarsi della fine della presidenza, fecero accettare a Bush che la guerra “per” l’Iraq era perduta e i suoi ultimi sforzi prima della fine del mandato fallirono nel tentare di scaricare la colpa della mancata pacificazione dell’Iraq a quello che sarebbe stato il suo successore. A vincere le presidenziali fu Barack Obama, dal quale ci si aspettava una svolta nella politica estera statunitense, soprattutto in Medio Oriente. A far sperare in un cambio radicale della politica Usa in Medio Oriente doveva essere il discorso che il presidente Obama tenne all’università del Cairo:

Il 4 giugno 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama pronunciava il suo atteso discorso al mondo islamico dalle sale dell’università de Cairo. I commentatori del suo discorso erano bianchi e cristiani, ma i suoi interlocutori, coloro a cui si rivolgeva, no. Ovviamente, Obama parlava come presidente degli Stati Uniti, e non come rappresentante di una minoranza razziale. E gran parte del discorso riflette questa condizione di Obama; inoltre, il discorso stesso mostrava una certa linea di continuità con la politica estera espressa dalle precedenti amministrazioni americane.[24]

Il discorso, così accomunante nei toni e proiettato verso un futuro di relazioni pacifiche e di integrazione nei riguardi del mondo islamico, voleva essere un punto di svolta. Ma le grandi speranze sarebbero state infrante con il passare del tempo, in accordo anche con le parole di un articolo dell’importante rivista, Foreign Affairs, a firma di Fawaz Gerges, un accademico esperto di politica estera statunitense e di Medio Oriente, che verrà qui riportato e che fa ancora riferimento alle parole del presidente durante il suo famoso discorso:

He sees Obama’s Cairo speech of 2009 as an embarrassment because the hopes it raised have gone unfulfilled. Bending to a desire for continuity in U.S. policy on the Israeli-Palestinian conflict, Obama divorced the American response to the Arab uprisings of 2011 from that conflict, despite the organic link between the two. One key premise of the book is questionable. Gerges asserts that “America’s ability to act unilaterally and hegemonically has come to an end.” But the United States has never had that ability, except perhaps for a very brief moment at the end of the Cold War. In reality, U.S. policy in the Middle East has been a string of frustrations interrupted by occasional successes, such as the Camp David accords and Operation Desert Storm.[25]

Per quanto agli occhi di molti la presidenza di Obama e il suo modus operandi sembrassero un taglio netto con la politica perpetuata da Bush Jr. negli anni precedenti, non è possibile negare il fatto che quest’ultimo sia stato una sorta di “mentore” per il neoeletto presidente che anzi lo prese a modello. Era oramai chiaro che gli Stati Uniti detenevano sì il ruolo di nazione egemone nello scacchiere internazionale ma che non riuscivano più a mettere in pratica questa egemonia e il Medio Oriente e le sue crisi ne furono la prova. Per la presidenza Obama la “missione giusta” in Medio Oriente era l’Afghanistan, e non l’Iraq dal quale, per il presidente, era necessario un ritiro rapido e che sarebbe dovuto avvenire già da tempo. Anche la questione del nucleare iraniano sarebbe stata trattata dal presidente con strumenti diplomatici e in accordo con la linea d’azione delle nazioni europee. Furono inviati altri 20mila soldati sul suolo afghano per prevenire maggiormente gli attacchi e gli attentati da parte dei Talebani e rafforzare il fragilissimo governo di Kabul. Questa decisione fu dettata dal fatto che per l’amministrazione Obama l’Afghanistan non doveva essere abbandonato fin quando gli Afghani non fossero riusciti a rimettersi in piedi da soli e a consolidare e stabilizzare la situazione interna al paese che si era dimostrato, a più riprese, terreno fertile per le organizzazioni terroristiche islamiche. La situazione interna irachena invece era talmente variegata e complessa da lasciar pensare che organizzazioni di questo tipo non riuscissero ad insediarsi negli strati della società facendone una base strategica stabile. È ancora dalla rivista Foreign Affairs che riusciamo a ricavare una visione di quella che era la situazione in Medio Oriente del 2010 e in particolare nei riguardi della questione Afghana, a due anni dall’avvento della presidenza Obama:

Nove anni fa [sull’Afghanistan…] il mondo era unito, la causa della guerra era chiara […]. Oggi la guerra in Afghanistan è un conflitto controverso e meno della metà degli americani ne sostiene la continuazione […]. Truppe da oltre quaranta paesi formano ancora la International Security Assistance Force (ISAF), ma meno di dieci di quei paesi affrontano veri rischi con le loro forze stanziate nel Sud del paese […]. Nel corso degli anni la missione degli Stati Uniti ha perduto molto della sua chiarezza di intenti […]. Politici ed elettori negli Stati Uniti e altrove continuano a negare che ci sia in Afghanistan un rifugio sicuro per al-Qaeda. E cominciano a discutere se un avvento dei Talebani significherebbe necessariamente un ritorno di al-Qaeda e se al-Qaeda cerca ancora veramente rifugio in Afghanistan. [Mentre] la questione più urgente è stabilire se l’attuale strategia può dare risultati e se il governo del presidente Hamid Karzai sa governare e mantenere l’ordine in un paese così diverso e frammentario.[26]

Uno dei maggiori “successi” dell’amministrazione Obama in Medio Oriente arriverà nel 2011. Il presidente, riprendendo quella che era la linea di azione di Clinton, continuerà a perseguire l’obiettivo di “tagliare la testa” ad al-Qaeda, catturando o eliminando bin Laden che oramai era da anni un fuggitivo nel territorio Afghano, utilizzando operazioni di precisione e sfruttando al meglio le nuove tecnologie come i droni dell’esercito. Del resto, era una strategia efficace per perseguire un obiettivo così specifico e in linea con la politica di disengagement militare che Obama stava realizzando. La morte di Osama bin Laden avvenne il 2 maggio 2011, nel corso della cosiddetta Operation Neptune Spear, un’azione militare condotta dai Navy SEAL e in collaborazione con l’intelligence del Pakistan.

Simbolicamente parlando, all’America fa piacere e gioco celebrare la vittoria sul bin Laden storico. Per la popolazione degli Stati Uniti si tratta di un’enorme soddisfazione. È la vittoria: “Justice has been done”, ha detto Barack Obama. Giustizia è fatta. È la giustizia all’americana, quella dell’occhio per occhio. Chi colpisce l’America, prima o poi, muore. “No matter how long it takes”, non importa quanto tempo è necessario, ha sottolineato GW Bush. Questo è il messaggio che emerge dalla folla che si accalca fuori dal cancello della Casa Bianca. […] il presidente Barack Obama è stato prudente: non siamo in guerra con l’Islam, ma con il terrorismo. Questa è una giornata di festa per tutti coloro che amano la pace. Poi ha mostrato i muscoli. Non ha sottovalutato il risultato: la morte di Osama, ha spiegato, è “the most significant achievement to date in our nation’s struggle to defeat al Qaida”, il più significato risultato che il nostro paese ha fin qui raggiunto nella lotta ad al Qaida.[27]

Questa nuova politica statunitense di Obama, aveva un volto estremamente più multipolare rispetto a quella dal suo predecessore, ma non furono solo le sue politiche di tipo securitario-internazionale a dare un sentore di un indebolimento degli Stati Uniti (che comunque rimanevano la prima potenza economico-militare al mondo). Parallelamente all’elezione di Obama nel 2007 si prospettava all’orizzonte una crisi economico-finanziaria che avrebbe affetto non solo gli States ma anche e inevitabilmente l’Europa. Paradossalmente, nonostante fosse una crisi “interna” agli Stati Uniti gli effetti sui mercati azionari e finanziari mondiali furono enormi e l’Europa dovette “correre ai ripari” tramite misure emergenziali della Banca Centrale Europea per arginarne gli effetti.

Come già era accaduto con la Grande Depressione, gli effetti della crisi americana ebbero risonanza ed effetti immediati in Europa. In più, nella situazione presente, le differenze già esistenti nelle economie dei paesi dell’Eurozona contribuirono a rendere differente l’efficacia della risposta nei diversi contesti nazionali. […] Anzi, l’esportazione della crisi in questo nuovo contesto generò conseguenze destinate a cambiare gli equilibri tra i paesi dell’Unione Europea, riproponendo quella frattura tra i paesi continentali (i cosiddetti paesi core) e i paesi periferici, tutti mediterranei con l’eccezione dell’Irlanda.[28]

L’accordo sul nucleare iraniano e l’allontanamento statunitense dalla Nato. Due sfide “contemporanee” per un rapporto morente

Con la fine della seconda presidenza di Obama, la situazione mediorientale tanto articolata e complessa, toccava ora al suo successore, il repubblicano Donald Trump, il quale doveva prendere le redini della situazione. Per quanto il presidente Trump sembri radicalmente diverso da Obama, in politica estera e in questo caso, mediorientale, decise di mantenere la stessa linea di azione e anzi di portarla avanti rapidamente, il disengagement statunitense doveva essere accelerato.

Nella tappa iniziale del suo primo viaggio da presidente degli Stati Uniti, in Arabia Saudita, Donald Trump illustra l’approccio della nuova amministrazione verso il Medio Oriente. Il faro che guiderà la Casa Bianca, identificato da Trump stesso in un “realismo di principio” basato su valori comuni e interessi condivisi, è lo stesso di Obama: spetta ai paesi dell’area combattere il terrorismo e in generale decidere che futuro vogliono per le loro popolazioni. Gli Stati Uniti possono dare una mano e armare i loro alleati, ma non saranno in prima linea a meno che i loro interessi nazionali non vengano direttamente minacciati. Washington si affida ad alcuni gendarmi regionali, fiduciosa che le divergenze tra di loro (sauditi, israeliani, in minor misura turchi, potenzialmente iraniani) impediranno l’emergere di un egemone.[29]

Un punto di differenza fondamentale, però, tra l’amministrazione Obama e l’amministrazione Trump sono i rapporti con l’Iran. Obama considerava il suo capolavoro strategico l’accordo sul nucleare che era riuscito a siglare con l’Iran, ma nonostante quest’ultimo avesse rispettato l’accordo, il presidente Trump attaccherà pubblicamente il governo di Teheran, accusandolo di essere la causa dell’instabilità nella regione e invitando tutti i paesi arabi ad isolare l’Iran. Questa presa di posizione farà sì che l’Iran si ritirerà dall’accordo, rifiutando la nuova e maggiormente restrittiva proposta di Trump e come in un grande effetto domino incrinerà anche i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea che anzi ad oggi svolge un ruolo più che attivo nel cercare di mantenere in vita l’accordo sul nucleare del 2015 con il governo di Teheran visto anche il ruolo attivo e propositivo per la sigla dell’accordo che l’Ue stessa, insieme alla presidenza Obama, aveva avuto nella sua sigla. Di seguito verrà riportato uno stralcio della risoluzione del Parlamento Europeo riguardo la sigla del trattato e dal quale si evince tutta la piena convinzione dei paesi dell’Ue per l’efficacia della risoluzione diplomatica della questione:

Il Parlamento Europeo; ritiene che il piano d’azione congiunto globale, altrimenti noto come accordo nucleare con l’Iran, sia stato un risultato notevole per la diplomazia multilaterale, e per la diplomazia europea in particolare, che deve consentire non solo un miglioramento sensibile delle relazioni UE-Iran, ma anche la promozione della stabilità in tutta la regione; ritiene che tutte le parti sono ora responsabili di garantirne una rigorosa e piena attuazione; accoglie con favore l’istituzione della commissione congiunta, composta di rappresentanti dell’Iran e del gruppo E3/UE+3 (Cina, Francia, Germania, Federazione russa, Regno Unito e Stati Uniti con il vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza); sostiene pienamente l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza nel suo ruolo di coordinatore della commissione congiunta istituita ai sensi del piano d’azione congiunto globale, e ritiene che una piena e rigorosa attuazione di tale piano continui a rivestire la massima importanza;[30]

La strategia di Trump era però, quella di spingere l’Iran ad un accordo ancora più restrittivo rispetto a quello siglato e voluto dal suo predecessore, cercando di utilizzare lo strumento delle sanzioni economiche per mettere in ginocchio il paese e il suo leader ma questa strategia, in accordo con le parole di un articolo della rivista Foreign Affairs sulla questione si rivelerà controproducente e causa di ulteriore instabilità:

Washington has sought with singular focus to replace the 2015 Iran nuclear deal with one that would also curtail Tehran’s missile program and regional activities. And the pursuit of such an agreement as the nub of the United States’ Middle East policy has served only to destabilize the region and to put U.S. interests there at risk. Trump has relied on a “maximum pressure” campaign that strangles Iran’s economy in order to bend its leaders’ will. But rather than capitulate, Iran has reduced its compliance with the 2015 nuclear deal, shot down an American drone, brazenly assailed tankers and oil.[31]

La nuova linea d’azione dell’amministrazione Trump sarà, come accennato, causa di ulteriore inasprimento dei rapporti tra Usa e Ue e questo si rifletterà appieno nelle risoluzioni delle Nazioni Unite sull’argomento. Washington rimarrà sempre più isolata poiché senza il supporto delle potenze europee e con la sua direttrice egemonica in piena crisi applicativa le risoluzioni che l’amministrazione Trump tentava di far approvare, come quella sull’estensione dei termini dell’embargo delle armi, venivano scartate. “The United States just lost the showdown at the United Nations Security Council overextending the terms of the arms embargo against Iran. The US government was left embarrassingly isolated, winning just one other vote for its proposed resolution (from the Dominican Republic), while Russia and China voted against and 11 other nations abstained”.[32]

While the E3 may have gained some political capital in Washington by taking a tough stance on Iran, this will not last. The US administration will not be satisfied by European countries’ efforts until they withdraw from the JCPOA and join its maximum pressure campaign. Although the E3 have explicitly rejected this US policy, Washington will maintain pressure on them to change course (and has seemingly targeted the UK as the weakest link in this). […] If the E3 can preserve the JCPOA’s outer shell until November, the agreement could provide an important foundation for the inevitable negotiations between Iranian officials and whichever US president is in office[33]

Ad oggi, con l’elezione del democratico Biden, ex vicepresidente dell’amministrazione Obama (che ricordiamo essere stato “autore” del JCPOA), gli sforzi dei paesi Europei per mantenere in piedi il “guscio” dell’accordo potrebbero essere “premiati”, ipotizzando verosimilmente che il nuovo presidente riprenderà la linea diplomatica dell’amministrazione Obama.

Conclusioni

Parallelamente a questo però, la situazione mediorientale continuava a degenerare a seguito delle conseguenze delle “primavere arabe” e la lotta contro l’Isis. L’azione congiunta di attacchi aerei e forze terrestri internazionali aveva fatto sì che il Califfato battesse continuamente in ritirata dai territori conquistati tanto rapidamente. Rimaneva però insoluta la questione della guerra civile siriana dalla quale tutto era cominciato e su quel punto la posizione statunitense era rimasta ondivaga e non ben definita. Sotto l’amministrazione Trump e con il finire della guerra al Califfato il quadro strategico si delineò più chiaramente. Il ruolo della Russia era divenuto sempre più attivo e grazie a questo Assad aveva ripreso il controllo della grande maggioranza del paese. I ribelli si erano a lungo appoggiati ai rifornimenti e al supporto americano per respingere le milizie del Califfato ma una volta che anche l’ultima roccaforte di quest’ultimo cadde, la cosiddetta “giustificazione” per la presenza americana sul territorio siriano venne meno.

The United States’ interests in Syria lie in formalizing its battlefield gains with a negotiated settlement and then leaving the country. To achieve this goal, it will need to find common cause in the short term with its greatest geopolitical foe, Russia. Doing so will require Washington to acknowledge a painful but obvious truth: Syrian President Bashar al-Assad has largely routed the anti-regime insurgency, consolidated power in much of the country’s west, and received open-ended support and security guarantees from Moscow and Tehran. Assad will govern most of Syria for the foreseeable future. For the United States, the impetus (and legal justification) for its presence in Syria was the war against the Islamic State (or ISIS), waged to deny the group safe haven and, in so doing, prop up the government of Iraq and ensure that ISIS fighters could not plot and execute terrorist attacks in the West.[34]

La decisione di Trump, agli occhi di molti, ha posto la parola fine all’egemonia diretta degli Stati Uniti in Medio Oriente. Un teatro che aveva visto gli USA impegnati in crisi e tensioni sin dai tempi della guerra fredda e che per un certo periodo era stato il banco di prova di quella stessa “egemonia pratica” che oggi sembra essere perduta e che è stata motore dell’inasprimento continuo dei rapporti tra Usa e Ue. Ad oggi la regione mediorientale è ancora oggetto di numerosi dibattiti internazionali irrisolti, come la questione israelo-palestinese, i già citati rapporti con l’Iran, la Siria ancora in lotta con sé stessa e oggetto delle mire di nuovi attori regionali e le sfide future per gli ancora fragili governi in Iraq e Afghanistan. Al momento la politica dell’amministrazione Trump ha portato ad un allontanamento significativo dal ruolo attivo in queste questioni, ancora lungi dall’essere risolte anche se il coinvolgimento USA è ancora molto forte e con il finire del primo e ultimo mandato di Trump resta da chiedersi se con questo cambio di amministrazione ci sarà anche un nuovo cambio di rotta verso la regione mediorientale nonché verso l’Unione Europea poiché abbiamo avuto modo di constatare che le questioni mediorientali sono state perno dei rapporti, non più rosei, tra questi due grandi attori.

The relationship between Europe and America, as we have seen, is so troubled because it is troubled by so many things, dating from so many periods. Different approaches to security and defense reinforce and are reinforced by competing economic and social models. Europe is unable to be the effective counterweight to the American hegemon that many would like, but it is not the reliable and pliable partner that America longs for.[35]


Note

[1] O. Bariè, Dalla guerra fredda alla grande crisi, ed. Il Mulino, Bologna 2013, cit., pp. 135-136

[2] Ivi., cit. pp. 118-119

[3] Ivi., cit. p. 120

[4] Ivi., cit. p. 144

[5] M. Nolan, The transatlantic century, ed. Cambridge University Press, 2012, New York, cit. p. 356

[6] O. Bariè, Dalla guerra fredda alla grande crisi, cit. p. 163

[7] Ivi., cit. p. 183

[8] G. Bush, Address to the Joint Session of Congress and American People, 20 settembre 2001

[9] M. Nolan, The transatlantic century, cit. p. 362

[10]https://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+MOTION+B5-2001-0697+0+DOC+XML+V0//IT

[11] O. Bariè, Dalla guerra fredda alla grande crisi, cit. p. 198

[12] M. Nolan, The transatlantic century, cit. p. 362

[13] Ivi., cit. p. 356

[14] O. Bariè, Dalla Guerra fredda alla grande crisi, cit. p. 199

[15] Biographies of the Secretaries of State: Colin Luther Powell (1937–), FRUS

[16]https://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+MOTION+B5-2003-0206+0+DOC+XML+V0//IT

[17] O. Bariè, Dalla guerra fredda alla grande crisi, cit. p. 210

[18] Ivi., p. 229

[19] M. Nolan, The transatlantic century, cit. p. 364

[20] “A Guide to the United States’ History of Recognition, Diplomatic, and Consular Relations, by Country, since 1776: Iraq”, FRUS 

[21] Biographies of the Secretaries of State: Colin Luther Powell (1937–), FRUS

[22] O. Bariè, Dalla guerra fredda alla grande crisi, cit. p. 236 

[23] M. Nolan, The transatlantic century, cit. p. 365

[24] E. Beltramini, “La politica estera afro-americana: il discorso di Obama a il Cairo”, LIMES, 7/10/2009

[25]   F. A. Gerges, “Obama and the Middle East: The End of America’s Moment?”, Reviewed by John Waterbury, Foreign Affairs, November/December 2012

[26] J. Lindsay e R. Takeyh, After Iran Gets the Bomb, in “Foreign Affairs”, marzo-aprile 2010, cit. p. 33

[27] E. Beltramini, “Gli Stati Uniti di fronte a due bin Laden”, Limes, 3/05/2011

[28] F. C. Cama, D. Casanova, R. M. Delli Quadri, L. Mascilli Migliorini, Storia del mediterraneo moderno e contemporaneo, ed. Guida, Napoli 2017, cit. p. 435

[29] F. Petroni, N. Locatelli, “Le notizie geopolitiche del 22 maggio, a cominciare dal discorso del presidente statunitense in Arabia Saudita”, Limes, 22/05/2017

[30]https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-8-2016-0286_IT.html

[31] V. Nasr, “A New Nuclear Deal Won’t Secure the Middle East But Regional Cooperation Could, and Washington Should Support It”, Foreign Affairs, February 7, 2020

[32]https://ecfr.eu/article/commentary_europe_can_preserve_the_iran_nuclear_deal_until_november/

[33]https://ecfr.eu/article/commentary_europes_new_gamble_dispute_resolution_and_the_iran_nuclear_deal/

[34] A. Stein, “A U.S. Containment Strategy for Syria To Beat the Russians, Let Them Win”, Foreign Affairs, March 15, 2018

[35] M. Nolan, The transatlantic century, cit. p. 373


Foto copertina: Bandiere dell’Unione europea e degli Stati Uniti | Samuel Corum / Getty Images – Politico

 

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