Le politiche dei porti chiusi e il paradosso liberale


L’Italia lacerata dalle contraddizioni tra la retorica anti-immigrazione e il bisogno strutturale di manodopera straniera


A cura di Tommaso Contò

Porti chiusi

Lo svolgimento del processo Open Arms, di cui si è tornati a parlare a seguito delle testimonianze di Giuseppe Conte, Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio, continua a riportare sotto i riflettori gli avvenimenti dell’agosto 2019, quando il respingimento della nave umanitaria è divenuto l’emblema dell’operato del governo Conte 1 in tema di migranti. L’imbarazzo internazionale seguito agli avvenimenti consumatisi al largo delle coste di Lampedusa è tutt’altro che una vicenda del passato. Infatti, sul fronte immigrazione, i primi mesi del governo guidato da Giorgia Meloni sono stati caratterizzati da un revival delle politiche leghiste di strenua opposizione agli sbarchi di migranti sulle coste italiane. Quattro anni (e tre governi) più tardi, la retorica anti-immigrazione si dimostra ancora una volta dilagante, irresistibile: una tattica politica irrinunciabile e vincente.
Nei mesi passati, le notizie di migranti e salvataggi in mare da parte delle ong hanno avuto particolare risonanza. Lo scorso novembre, alle navi Geo Banters e Humanity 1 è stato imposto uno “sbarco selettivo” presso il porto di Catania: soltanto a donne, bambini e persone ritenute fragili è stata concessa la discesa. Negli stessi giorni, veniva respinta la Ocean Viking con i suoi 234 passeggeri, per poi essere reindirizzata verso la Francia, producendo uno scontro tra Palazzo Chigi e l’Eliseo a fronte del «comportamento inaccettabile» – così definito dal ministro dell’interno francese Gérald Darmanin – dell’Italia.[1] Si è trattato di un vero e proprio incidente diplomatico, il primo per la premier Meloni.
I ripetuti appelli alla solidarietà e alla collaborazione europea sulla gestione del fenomeno migratorio sono accompagnati dalla volontà di sigillare le rotte migratorie “illegali”, con lo scopo di costituire una fortezza europea che delinei nettamente la distinzione tra noi e loro, tra chi è dentro e chi è – e deve rimanere – fuori. La questione non si limita soltanto agli sbarchi, i quali costituiscono solamente una parte degli arrivi totali nel nostro paese. Si tratta, piuttosto, di un più ampio discorso di avversione all’immigrazione che sembra trovare sempre riscontro. La costruzione del migrante come diverso, estraneo, e in qualche modo pericoloso è onnipresente, in modo implicito o esplicito. Ogni immigrato ne è bersaglio, che arrivi con il “barcone” o con un aereo di linea e il passaporto in mano, a causa di una diversità imputatagli in contrasto con una presunta e omogenea “italianità”. Questa retorica, che si dimostra particolarmente proficua per alcuni partiti politici data la popolarità che riscontra nell’elettorato, si basa su una visione limitata e scorretta dei processi migratori, che vengono banalizzati e raccontati al pubblico come “un problema da risolvere”, insomma, qualcosa che possibilmente sarebbe meglio evitare. I flussi migratori sono, invece, parte di macrosistemi complessi dove molteplici cause e conseguenze strutturali si intrecciano alle storie e alle motivazioni dei singoli.
Il fattore che maggiormente – ma non unicamente – determina la direzione e il volume dei flussi migratori è quello economico: le economie occidentali presentano un bisogno strutturale di manodopera straniera.[2] Fintanto che questo bisogno persisterà, ci saranno migranti economici. Nel 1979, Micheal J. Piore spiegava questo fenomeno nel libro Birds of passage, attraverso la teoria del mercato del lavoro duale.[3] Il mercato del lavoro è descritto come segmentato in due settori: il primo, le cui posizioni sono occupate principalmente da “autoctoni”, è caratterizzato da lavori ben pagati, sicuri e corrispondenti a un certo livello di prestigio sociale; nel secondo, popolato in larga parte da manodopera d’importazione, troviamo bassi stipendi, lavori precari, e spesso irregolari. Secondo Piore, questa divisione porta alla formazione di una riserva di manodopera a basso costo di cui è possibile disporre senza particolari restrizioni: soprattutto se irregolari, gli immigrati mancano di quelle protezioni sociali che caratterizzano invece i lavoratori autoctoni (come contratti e protezione da parte dei sindacati). Sostanzialmente, alle economie occidentali, il lavoro degli immigrati torna utile per duplice motivo: mantiene contenuti i salari (abbassando di conseguenza i costi di produzione) e fornisce manodopera flessibile (che può essere assunta e, soprattutto, licenziata facilmente) che risponda alle esigenze momentanee del mercato.
Si articola così quello che, nell’ambito degli studi migratori, viene definito come un paradosso liberale: da un lato troviamo una retorica dura e intransigentemente contraria all’immigrazione, a volte esemplificata da gesti eclatanti, come nel caso della Ocean Viking, e, dall’altro, la pratica resta tutto sommato liberale e permissiva, data la consapevolezza che alcuni settori dell’economia italiana si avvalgono ampiamente di lavoro straniero – in particolare il settore agricolo e il settore domestico.[4] La domanda di braccianti, badanti, e di tutte quelle occupazioni di cui gli italiani sembrano riluttanti a farsi carico, ricade sugli immigrati, trasformandosi in un motore essenziale a spiegare il persistere dei flussi migratori anche in tempi dove il discorso anti-immigrazione è dilagante.
Il sentimento anti-migratorio che viene instillato nella popolazione non torna utile soltanto ai partiti che lo sfruttano per raccogliere voti alle urne, ma ha conseguenze più profonde. Il razzismo e la xenofobia che ne derivano dividono la classe lavoratrice: rendendo i lavoratori “alloctoni” il capo espiatorio delle problematiche economiche del paese (prima tra tutte la disoccupazione, “ci rubano il lavoro”), la retorica anti-immigrazione serve gli interessi delle imprese. Divide et impera, impedendo ai lavoratori autoctoni di comprendere la comunanza di interessi che condividono con i lavoratori stranieri: migliori condizioni lavorative, stipendi più alti e maggiori garanzie sul lavoro.[5]
Si presenta evidente la necessità di affrontare in maniera critica il discorso migratorio, senza concezioni aprioristiche che spesso portano a ragionamenti fallaci e conseguenze indesiderabili. Il ministro Piantedosi ha definito i centomila sbarchi avvenuti nel 2022 un’emergenza nazionale. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, ha affermato che l’Italia necessita di centomila migranti stagionali affinché l’agricoltura del nostro Paese possa sopravvivere. Due affermazioni che, giustapposte l’una all’altra, evidenziano senz’altro l’ironia del discorso pubblico italiano. Sarebbe tanto facile quanto infruttuoso stabilire che in medio stat virtus. Piuttosto, può essere utile cambiare la chiave di analisi della situazione: i fenomeni migratori non sono un problema da risolvere, e nemmeno la soluzione a problemi pregressi. Le migrazioni sono un normale processo sociale, ovvero una parte intrinseca di più ampi processi di trasformazione economica, politica, culturale, tecnologica e demografica.[6] Soltanto da questa premessa può scaturire una conoscenza proficua che porti a decisioni informate ed efficaci.


Note

[1] Gérald Darmanin, Consiglio dei ministri del 10 novembre 2022
[2] S. CASTLES, H. DE HAAS, M. MILLER, The Age of Migration: International Population Movements in the Modern World, Red Globe Press, Londra 2021.
[3] M. PIORE, Birds of passage. Migrant labour and industrial societies, Cambridge University Press, Cambridge 1979.
[4] M. AMBROSINI, A. TRIANDAFYLLIDOU, « Irregular Immigration Control in Italy and Greece: Strong Fencing and Weak Gate-keeping serving the Labour Market», European Journal of Migration and Law, n.13, 2011.
[5] S. CASTLES, H. DE HAAS, M. MILLER, The Age of Migration: International Population Movements in the Modern World, Red Globe Press, Londra 2021.
[6] H. DE HAAS, «A theory of migration: the aspiration-capabilities framework», Comparative Migration Studies, n.9, 2021.


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