L’Iran al tempo di Trump, di Luciana Borsatti, edito da Castelvecchi è disponibile con una nuova edizione ampliata alla luce degli avvenimenti accaduti tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, e che hanno portato Stati Uniti ed Iran ad un passo dallo scontro armato.
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L’Iran al tempo di Trump, di Luciana Borsatti[1], edito da Castelvecchi è disponibile con una nuova edizione ampliata alla luce degli avvenimenti accaduti tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, e che hanno portato Stati Uniti ed Iran ad un passo dallo scontro armato.
Borsatti nel suo libro, analizza tanti aspetti della società iraniana, portando il lettore oltre i tradizionali stereotipi di una società, e di uno stato, troppo spesso demonizzato.
Vengono toccati punti molto interessanti: dal ruolo della donna, l’autrice ha incontrato ad esempio una delle poche hojjatoleslam[2] iraniane, alle manifestazioni di massa che si sono verificate nel corso degli anni nel paese, dal cinema iraniano (semisconosciuto in Italia) e i temi affrontati. E ancora il tema dei diritti umani e dell’Iran come opportunità anche economica per l’Europa ma soprattutto per l’Italia.
Nell’intervista che segue abbiamo approfondito l’aspetto geopolitico del libro di Borsatti, e quindi il rapporto con gli Stati Uniti di Trump, il ruolo del generale Soleimani e tanto altro.
Il 2020 si è aperto con il raid statunitense che ha portato alla morte di Abu Mahdi al-Muhandis capo di Kataib Hezbollah, milizia irachena appoggiata dall’Iran, e soprattutto Qassem Soleimani. Chi era davvero il generale Soleimani e perché è stato ucciso?
Soleimani era un esponente del Sepah-e Pasdaran, il corpo delle Guardie della rivoluzione, molto popolare tra gli iraniani più fedeli ai valori del nazionalismo e della Repubblica Islamica. Popolare prima per i suoi meriti nella lunga guerra con l’Iraq – seguita all’invasione dell’Iran da parte della forze di Saddam Hussein – e più di recente per essere stato il regista, come capo della forza Qods specializzata nelle operazioni all’estero, della lotta delle milizie filo-iraniane contro l’Isis in Iraq e in Siria. Personaggio molto carismatico per gli ultraconservatori, e guardato con diffidenza da chi lo vedeva invece come uno dei responsabili della repressione delle proteste e dell’opposizione interne, Soleimani ha sempre tenuto un atteggiamento riservato e non ha mai scelto di entrare in politica. Ed era anche una figura più complessa di come viene solitamente rappresentata nella propaganda anti-iraniana, cioè un fanatico radicale se non un fautore del terrorismo internazionale – qualifica attribuitagli dai suoi detrattori in primo luogo per il fatto di aver tenuto le fila di quelle milizie (da Hezbollah ad Hamas ai gruppi filo iraniani in Iraq) con cui l’Iran esercita la sua influenza nella regione e si assicura al tempo stesso una fascia di sicurezza oltre confine, con cui prevenire attacchi diretti sul suo territorio. Nel composito panorama dell’ala conservatrice in Iran, Soleimani restava infine legato alla prima generazione rivoluzionaria, la stessa dell’attuale Guida Ali Khamenei, una generazione capace di approcci pragmatici e di mediazioni sul piano internazionale, nonostante il permanere di atti e proclami provocatori.
Per quale motivo Trump abbia deciso di ucciderlo, cosa che i suoi predecessori alla Casa Bianca si erano ben guardati dal fare, lo può dire fino in fondo solo lui. Certo è che con Soleimani il presidente Usa ha deciso di uccidere non solo un alto esponente di un corpo militare dello Stato iraniano, cosa ugualmente vera in Iraq per al-Muhandis – compiendo dunque un duplice atto di guerra – , ma anche un uomo che in quel momento stava svolgendo un ruolo diplomatico e non militare: andava infatti ad incontrare l’allora premier iracheno Adil Abdul Mahdi – come quest’ultimo avrebbe rivelato – nell’ambito di un tentativo di mediazione tra l’Iran e l’Arabia saudita.
Il trasferimento dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme; la chiusura del consolato a Gerusalemme est; la drastica riduzione dei programmi di assistenza ai rifugiati, in particolare l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA; il Deal of the Century, il rafforzamento dell’asse con (riavvicinamento tattico ad) Israele ed Arabia Saudita e poi l’uscita dall’accordo sul nucleare e la crisi iraniana. Un suo parere sulla politica estera del Presidente Trump nel Medio Oriente.
Rispondo con gli ultimi dati del Sipri, lo Stokholm International Peace Research Institute. La spesa mondiale in armamenti nel 2019 è salita del 3,6% rispetto al 2018, e i Paesi che hanno speso di più sono, nell’ordine, Usa, Cina, India, Russia e Arabia Saudita. Se gli Usa hanno speso 732 miliardi di dollari e la Cina 262, restringendo il campo al Medio Oriente si nota che il governo saudita ne ha spesi 61,9; quello israeliano 20,4 e quello iraniano 12,6[3]. I numeri da soli raccontano dunque buona parte della storia: quella di un’ipertrofica industria bellica americana che vende miliardi in armi all’alleato saudita in funzione anti-iraniana. Mentre Teheran, che in questi ultimi quattro anni di amministrazione Trump si è vista nuovamente tagliato addosso l’abito del “nemico” – per la gioia della sua ala dura militarista e conservatrice, contrapposta alle riaperture con l’Occidente del presidente moderato Hassan Rouhani – continua a spendere molto meno dei suoi rivali regionali. Detto questo, tutti i citati passaggi cruciali della politica di Trump in Medio Oriente certificano la tragica svolta di un presidente Usa che ha volutamente affossato principi guida come il diritto internazionale e il multilateralismo nel suo approccio alle grandi questioni mondiali. In ciò assecondando la linea dei falchi israeliani, ossessionati dal fantasma di una bomba atomica iraniana che Teheran è ben lontana, almeno per ora, dal voler realizzare.
Regime change a Teheran, guerra frontale Stati Uniti- Iran o proxy war su scenari limitrofi (Yemen, Siria e Iraq). I pro e i contro delle tre opzioni e quale potrebbe essere quella più probabile.
Si tratta innanzitutto di tre scenari che dovrebbero essere ugualmente scongiurati. E non solo perché tutti implicano conflitti, violenze e tragedie umane, ma perché partono da un assunto discutibile: cioè che la Repubblica Islamica sia una problema in quanto tale e che vada eliminato tramite un intervento esterno. E perché mai? Perché viola i diritti umani?
Certo, quelle violazioni vanno condannate senza equivoci, ma il mondo è pieno di governi che le fanno, magari pure alleati dell’Occidente, senza essere per questo sempre in prima pagina. Perché minaccia di “distruggere” Israele? Questa locuzione – su cui servirebbero molte precisazioni – è perfetta per la propaganda dell’una e dell’altra parte, ma ben lontana dalla realtà storica degli ultimi 40 anni e dall’orizzonte reale, o realistico, perfino dei più oltranzisti. Al tempo stesso esiste una questione israeliano-palestinese che si è trascinata per decenni e alla cui soluzione Trump ha ora dato il colpo di grazia. Ma sulla quale Teheran continua a cercare qualche consenso tra le popolazioni arabe, sostenendo le milizie anti-israeliane – scelta tutt’altro che popolare sul piano interno in realtà, soprattutto in momenti di crisi economica. Ma al tempo stesso queste milizie, come già accennato, fanno da cintura di sicurezza: la potenziale minaccia di una guerra asimmetrica tramite Hezbollah e Hamas, per intenderci, serve a prevenire attacchi diretti contro l’Iran. La Repubblica Islamica d’altronde non ha mai fatto una guerra aperta contro nessuno, semmai ne ha subito una, quella iniziata dall’Iraq (che però, va detto, avrebbe potuto durare molto meno se l’allora Guida Khomeini avesse accettato un accordo di pace prima). Ma è una potenza regionale che resiste al controllo statunitense sul Medio Oriente e alle peggiori politiche di Israele contro i palestinesi – come la prossima annessione della Valle del Giordano, in violazione delle risoluzioni Onu. E’ per questo, che la sua “eliminazione” è sempre in agenda.
Detto ciò, non credo che né una guerra diretta né una ‘proxy war’ sarebbero una buona strada per far cadere la Repubblica Islamica: lo hanno dimostrato l’Iraq dall’invasione del 2003 ad oggi e i nove anni di perdurante guerra civile in Siria, con centinaia di migliaia di morti. Quanto alla prospettiva del regime change, credo che l’unico cambiamento giusto e possibile sia quello che vede gli stessi iraniani decidere del proprio destino. Chi agisce per un cambio di regime dall’esterno non conosce l’Iran: sottovaluta la profondità del senso nazionale tra gli iraniani, che le politiche di Trump hanno avuto buon gioco nel rafforzare in senso nazionalistico; la capacità di reazione degli apparati militari, che saprebbero vendere cara la pelle; le tragedie che innescherebbe giocando sulle tentazioni separatiste di alcune minoranze etniche. C’era una strada possibile, per favorire un cambiamento non traumatico: era l’accordo sul nucleare voluto da Obama e che Trump ha affossato. Avrebbe favorito scambi e relazioni a tutti i livelli, da quello economico a quello culturale; permesso al mondo di conoscere la società iraniana, tanto lontana dalle visioni demonizzanti che ogni visitatore ne rimane sorpreso; avrebbe magari favorito un ricambio generazionale a favore dei moderati e un graduale processo di riforma. Più di qualcuno ritiene che questa sia solo utopia, che il cosiddetto “regime” non sarebbe mai cambiato ma anzi avrebbe rafforzato i suoi tratti illiberali proprio grazie allo “sdoganamento” internazionale. E’ una ipotesi, ma grazie a Trump non avremo mai più modo di verificarla. E’ certo invece che le sue politiche hanno rafforzato, in Iran, proprio le componenti politiche, economiche e militari per le quali il dialogo e la cooperazione internazionali e il rispetto dei diritti umani non sono certo la priorità.
Veniamo al JCPOA meglio noto come “Accordo sul nucleare”. Per Obama l’accordo capace di portare una pace duratura nella regione, per Trump invece uno grave errore che avrebbe favorito l’Iran. Una sua considerazione sull’accordo.
In parte ho già risposto, per gli effetti che avrebbe potuto avere sul piano politico interno e nelle relazioni internazionali. Per quanto riguarda invece il programma nucleare iraniano, Teheran ne rispettava rigorosamente tutte le limitazioni finché Trump non ne è uscito, nel maggio 2018. E poi ha continuato a farlo per un altro anno ancora, sperando che l’Europa (Russia e Cina in diversa misura non hanno mai abbandonato l’Iran) trovasse un modo per mantenere i propri impegni aggirando le sanzioni secondarie americane. Cosa che l’Europa in realtà ha sempre detto di voler fare, ma senza rendere mai operativi gli strumenti varati a questo scopo, e l’Instex in particolare. Infine, a partire dal maggio 2019, Teheran ha annunciato e messo in atto un piano graduale di uscita dai propri impegni nell’ambito del Jcpoa: un piano immediatamente reversibile, era stato annunciato, se l’Europa avesse risposto agli appelli. Ma l’assassinio di Soleimani, per mezzo di un drone Usa il 3 gennaio scorso, ha portato Teheran ad annunciare che ormai non avrebbe più accettato alcuna limitazione – senza però chiudere l’accesso degli ispettori dell’Aiea ai suoi impianti nucleari. Ad oggi, 2 giugno 2020, non vi sono evidenze che Teheran abbia fatto grandi passi avanti verso un maggiore arricchimento dell’uranio, nemmeno fino al livello del 20% necessario (per una “bomba” serve il 90%, ma quella del 20% è una soglia critica) al reattore di ricerca di Teheran. Trump al contrario ha appena annunciato sanzioni per quelle imprese russe, cinesi ed europee che, nel rispetto del Jcpoa, continuano a cooperare con l’Iran per la riconversione della centrale di Arak (riconversione che ne dovrebbe garantire un impiego solo civile) e a fornirgli limitate quantità di uranio al 20%. Insomma, invece di allontanare il pericolo di un Iran nucleare e rendere il mondo “più sicuro”, la Casa Bianca continua ad agire in direzione nettamente contraria.
Nel Novembre 2020 ci saranno le elezioni presidenziali negli Usa, nel 2021 invece ci saranno quelle iraniane. Se e come l’esito di queste tornate elettorali potrebbero cambiare, in meglio o in peggio, il rapporto tra i due stati?
Una riconferma di Trump di sicuro metterebbe molto a rischio i difficili equilibri che in questi mesi si è riusciti nonostante tutto a mantenere, grazie al fatto che in realtà nessuno degli attori in campo vuole che le tensioni sfocino in una guerra. La dirigenza iraniana, ben dotata di pragmatismo, attende proprio l’esito del voto Usa di novembre per una ridefinizione eventuale della sua risposta alla “massima pressione” della Casa Bianca, finora sempre relativamente proporzionata e circoscritta. Se dovesse vincere invece il candidato democratico, non credo che la politica estera Usa nei confronti dell’Iran cambierebbe in modo sostanziale, ma certo si aprirebbero nuovi spazi per mediazioni e compromessi che anche in questi anni Teheran non ha mai smesso, dietro le quinte, di cercare. Pur non trovando mai in Trump un interlocutore disposto ad un vero approccio negoziale.
Crede che un Iran potenzialmente dotato di armamenti nucleari porterebbe ad una guerra nucleare mondiale o renderebbe il Medio Oriente una regione paradossalmente più sicura sulla base del concetto (da guerra fredda) di deterrenza atomica?
Credo che ancora una volta dobbiamo fare un passo indietro. E chiederci in base a quali informazioni e di quali intelligenze stiamo ora parlando in un Iran potenzialmente dotato di armi nucleari. Ad oggi abbiamo solo una certezza: che l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha certificato nel 2015 che l’Iran non aveva più compiuto studi in qualche misura riconducibili ad un progetto di costruire una bomba atomica dal 2009. Da allora l’Iran ha rispettato alla lettera i suoi obblighi, e lo ha fatto fino ad un anno dopo che altri avevano tradito i propri. Al di là della fatwa della Guida Ali Khamenei contro le armi atomiche, inoltre, va detto che per l’Iran avviare un percorso verso l’arma atomica equivarrebbe ad un suicidio, visto che qualcuno non attende altro per attaccare.
Lei fa riferimento alla “Solitudine strategica” iraniana. Cosa vuol dire?
Mi riferisco alla situazione di isolamento in cui la Repubblica Islamica si è sempre trovata, a partire dalla guerra con l’Iraq che a suo tempo era sostenuto da un ampio schieramento di potenze – dagli Usa ad alcune potenze europee e a molti Paesi arabi del Golfo. Da allora per Teheran non è mai cessata una percezione di pericoloso accerchiamento, anche se vi sono state alcune fasi distensive, tuttora giustificata dall’alto il numero di basi statunitensi nella regione. Da qui la necessità di basarsi sempre di più sulle proprie forze per un arsenale bellico e le strategie difensive. Ora si sta aprendo la partita della fine dell’embargo sulle armi convenzionali contro Teheran, prevista per il prossimo ottobre dalla stessa Risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che recepiva l’accordo sul nucleare. Ed è per questo che, per scongiurarlo, la Casa Bianca sta cercando di rientrare dalla finestra in quell’accordo da cui, nel 2018, era uscita dalla porta, pretendendo così di avere ancora titolo per accusare di inadempienza proprio l’Iran. E questo dopo aver interrotto quel percorso di distensione e pacificazione che l’accordo stesso aveva avviato.
Ma l’Iran è davvero uno “Stato canaglia” esportatore di terrorismo e minaccia globale da combattere a tutti i costi, o Teheran potrebbe rappresentare una grandissima opportunità, in particolare per l’Italia e l’Europa, se inserita a pieno titolo nel contesto internazionale?
Sulla prima parte della domanda si è già detto, mi limito ad aggiungere che il concetto di terrorismo è molto elastico, quando usato come uno strumento politico: per il presidente egiziano Sisi, per esempio, terroristi sono i Fratelli musulmani, che a loro volta sono sostenuti in Libia dalla Turchia di Erdogan che a sua volta mette in galera oppositori e giornalisti qualificandoli come terroristi. Il fondo dello svuotamento semantico lo ho toccato però ancora una volta Trump nel pieno delle rivolte seguite alla morte di George Floyd negli Usa, quando ha annunciato che anche il movimento transnazionale della sinistra radicale Antifa sarebbe stato dichiarato organizzazione terroristica.
Quanto all’Iran come opportunità, è un Paese ricco di risorse energetiche e che costituisce un grande mercato da 80 milioni di persone, la metà circa delle quali ha meno di 35 anni, con un alto tasso di scolarizzazione, soprattutto tra le donne. Il suo sistema industriale ha un dichiarato bisogno di beni strumentali e know-how europei e italiani, e i grandi accordi già stipulati con l’Italia nel 2016 – e mai andati in porto – coprivano un ampio ventaglio di settori, dalle infrastrutture agli ospedali e all’energia pulita. Seguire quelle strade avrebbe risparmiato molte sofferenze agli iraniani, frenato il brain-drain che affligge quel Paese, offerto nuove opportunità alla nostra economia e anche ai nostri giovani. E avrebbe sicuramente reso il mondo più sicuro.
Nel suo libro fa riferimento alle proteste del 2009 e quelle recenti del 2019/20. È possibile tracciare un Fil Rouge o si tratta di avvenimenti completamente diversi?
Completamente diversi no, in quanto in entrambi i casi vi era una critica alle degenerazioni del sistema, ma le istanze erano diverse: nel 2009 l’elettorato riformista chiedeva “dov’è il mio voto?”, quando il conteggio delle schede aveva portato alla proclamazione della vittoria per l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad e non per il favorito dell’altro campo, Mir Hussein Mousavi. Nel secondo invece prevaleva il malcontento per la situazione economica, in parte determinata dalle sanzioni ma per la quale i manifestanti accusavano la leadership, la corruzione e i potentati della Repubblica Islamica. Inoltre, nel 2009 il movimento di protesta era prevalentemente urbano mentre nel periodo 2018-2020 era diffuso in tutto il territorio nazionale e anche nei centri minori. Ma la differenza fondamentale sta nella leadership: riformista nel 2009 ma del tutto assente nelle proteste più recenti, i cui slogan sono nel frattempo divenuti antisistema, ma senza l’effettiva presenza di un progetto politico alternativo.
Diritti umani e femminismo. La conquista dei diritti delle donne e al contempo la tutela dei diritti umani sono due campi dove l’Iran viene sistematicamente attaccato dalla “Comunità internazionale”. Secondo lei ci sono segnali che fanno ben sperare per il futuro o siamo ancora fermi al palo?
Innanzitutto una premessa, che sviluppo in uno specifico capitolo del mio libro: sono i diritti delle donne quelli fra i più colpiti da un ritorno della giurisprudenza islamica nel codice civile e penale dopo la rivoluzione. Ma sono proprio le donne iraniane, per la loro determinazione ma anche per l’alto grado di istruzione raggiunto, ad essere il principale motore di cambiamento. Eppure l’Iran non è il solo Paese a violare i loro diritti, insieme a quelli della libertà di stampa e di espressione del dissenso. Basti pensare all’Arabia Saudita, dove le donne sono state solo di recente beneficiate di qualche piccola “concessione” da parte del sovrano, ma dove alcune delle attiviste che lottavano per quelli stessi diritti (di guidare la macchina, per esempio) sono finite in carcere. E dove la forma di governo non è quella di una Repubblica Islamica, ma una monarchia assoluta islamica, senza un parlamento eletto né una codificazione delle norme penali. Con questo non intendo minimizzare le gravi violazioni dei diritti che si compiono ogni giorno in Iran, ma solo rilevare che la pur sacrosanta battaglia per i diritti umani rientra strumentalmente nell’armamentario per la demonizzazione dell’Iran. Quanto alle speranze per il futuro, molti ne hanno avute dopo l’accordo sul nucleare del 2015. Con la sconfitta e il discredito del fronte moderato-riformista derivati dalla “massima pressione” della Casa Bianca di Trump, e il conseguente ritorno al comando degli ultraconservatori, anche in tema di libertà civili e di diritti c’è poco di cui essere ottimisti.
Note
[1] Nata a Udine, si è laureata in Storia moderna e contemporanea all’Università di Venezia. Da giornalista dell’Ansa ha lavorato come corrispondente dal Cairo e da Teheran. Ha scritto Le Indemoniate. Superstizione e scienza medica, il caso di Verzegnis (2002) e Oltre Tahrir. Vivere in Egitto con la rivoluzione (2013).
[2] È un titolo onorifico che significa «prova dell’Islam» o «autorità relativamente all’Islam». Questo titolo è dato ai religiosi sciiti che sono mujtahid. Inizialmente era titolatura propria degli esponenti principali di tale versione dell’Islam ma, a partire dal XIX secolo, è stato esteso per tutti i mujtahid, essendo stato coniato quello di Ayatollah per i pensatori di maggiore dottrina.
[3]https://www.sipri.org/sites/default/files/Data%20for%20all%20countries%20from%201988%E2%80%932019%20in%20constant%20%282018%29%20USD.pdf.
Foto copertina: Copertina libro
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