Report da Gaza: dialoghi con Andrea Sparro, membro dell’Emergency Unit della ONG italiana Weworld 


Un mese è passato dall’inizio del conflitto che si sta ripercuotendo gravemente sulla popolazione di Gaza.
Ne abbiamo voluto parlare con Andrea Sparro, membro dell’Emergency Unit della ONG italiana WeWorld, in missione in Egitto, chiedendogli di evidenziarci le gravi problematiche della situazione umanitaria e dell’accesso umanitario riscontrate nella Striscia di Gaza.


A cura di Alessia Cannone

WeWorld è un’organizzazione no profit italiana indipendente attiva in 27 Paesi, compresa l’Italia, con progetti di Cooperazione allo Sviluppo e Aiuto Umanitario per garantire i diritti delle comunità più vulnerabili a partire da donne, bambine e bambini. Per comprendere la situazione a Gaza, ne parliamo con Andrea Sparro, membro dell’Emergency Unit di WeWorld.

Come è la situazione dopo un mese dall’inizio del conflitto?
La situazione attuale è quella di una Striscia di Gaza di 365kmq ora divisa in due, lungo il corso del Wadi Gaza, linea al di sotto della quale gli obiettivi strategici israeliani vogliono spingere la restante popolazione situata a nord di Gaza, più o meno 400.000 persone.
Se ci riusciranno, ridurranno a 230kmq il territorio a disposizione della popolazione, con tutte le conseguenze che può portare.
Se le persone decidessero di rimanere a nord della Striscia, sussiste il rischio che Israele li bombardi. L’esercito israeliano ha avanzato via terra e e via mare, circondando Gaza City, la città principale ormai quasi completamente distrutta, come tutto il nord.
A breve ci aspettiamo una totale presa di controllo da parte di Israele della parte settentrionale. Ben prima dell’inizio della guerra, Gaza era già occupata ma senza presenza militare israeliana come invece succede in West Bank. In questi giorni Gaza è doppiamente occupata, abbiamo notizie di avamposti militari costituiti da tende e di prefabbricati portati dentro il territorio affinché l’esercito si possa installare. Nel momento in cui anche queste 400.000 persone dovessero spostarsi dal nord al sud di Gaza, noi parleremmo di 1,8-1,9 milioni di sfollati interni su una popolazione di circa 2,2-2,3 milioni di persone. Considerando che il 70% delle persone che vivono dentro Gaza sono già rifugiate –  nei decenni precedenti sono state cacciate dalle loro città intorno alla Striscia e si sono rifugiate poi al suo interno – il riversamento di tutta la popolazione del nord a sud si stima che porterà ad un aumento della densità di popolazione a 10.000 persone per kilometro quadrato, in un contesto in cui le infrastrutture sono estremamente carenti. E questa cosa non può che avere ricadute catastrofiche sul contesto umanitario.

Quali sono le maggiori problematiche dell’attuale situazione umanitaria?
Dall’11 di ottobre l’accesso ad acqua, elettricità e cibo è stato contingentato se non tagliato. Gaza è un’area chiusa con tre punti di accesso terrestre, mentre dal mare non si può accedere. Con la chiusura dei valichi di Erez e Kerem Shalom con Israele e di Rafah con l’Egitto, il carburante che dà vita a tutte le infrastrutture a Gaza non può transitare nella Striscia, i continui bombardamenti, la sospensione della fornitura di acqua da parte di Israele significano una cosa sola: le persone non mangiano, non bevono e non hanno accesso ai servizi essenziali. I bombardamenti sono continui sia a nord che a sud. Anche se Israele parla del sud come di un’area sicura, oggettivamente non lo è. Colleghi e giornalisti che si trovano nella parte meridionale della Striscia lo dimostrano chiaramente. L’assenza di carburante e l’assenza di aiuti umanitari fa sì che non ci sia acqua. Circa il 13-15% dell’acqua potabile viene fornita da Israele attraverso le sue tubature, mentre la restante percentuale è gestita dagli impianti di desalinizzazione presenti nella Striscia che però hanno bisogno del carburante per funzionare.
Esistono falde acquifere ma la qualità dell’acqua è bassa perché estremamente salina e a causa della guerra a causa delle condizioni igienico sanitarie della Striscia, che non ha nemmeno un impianto fognario risulta contaminata.
Il mancato rifornimento di carburante all’unica centrale elettrica fa mancare l’energia anche agli ospedali che non possono più operare; nel sud di Gaza il sistema sanitario ha già dichiarato il collasso diversi giorni fa. Sono finite da tempo le riserve dei negozi, alcuni panifici sono attivi ma non possono soddisfare i bisogni di tutta la popolazione, altri sono stati bombardati.
Una delle maggiori preoccupazioni sono le condizioni sanitarie. I rifiuti solidi urbani e l’assenza di un sistema fognario rendono la situazione completamente insalubre. Lo smaltimento dei rifiuti è pressoché impossibile e per evitare che si diffondano malattie, quando si può vengono sversati in mare.

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Con chi vi dovete interfacciare per portare avanti il vostro lavoro?
In questo momento è difficile identificare un interlocutore istituzionale riconosciuto internazionalmente. Già prima della guerra la situazione delle istituzioni era complicata, a Gaza esiste il cosiddetto governo de facto gestito da Hamas, mentre l’Autorità Palestinese, guidata da Fatah, è governata da Ramallah. Le organizzazioni internazionali non hanno alcun contatto con Hamas, considerata un’organizzazione terrorista da varie istituzioni, tra cui l’Unione Europea, mentre è possibile dialogare con le istituzioni. Ciò è chiaramente concesso nel totale rispetto della legislazione antiterrorismo.

La richiesta di accesso umanitario da parte delle organizzazioni internazionali e delle ONG si scontra con la chiusura dell’area. Quale è la situazione attuale degli aiuti umanitari?
Noi come organizzazioni umanitarie chiediamo innanzitutto l’immediato e duraturo cessate il fuoco, e contemporaneamente di garantire l’accesso per fornire aiuti umanitari.
Le analisi di sicurezza ci impediscono di portare avanti qualsiasi tipo di iniziativa come per esempio quella del trasporto dell’acqua a causa dei rischi legati ai bombardamenti.
La situazione sta degenerando e tra le ONG si discute se stiamo assistendo alla riduzione alla fame della popolazione come tattica di guerra. A nord non c’è più acqua se non pochissima nella falda, e comunque non siamo in grado di renderla potabile. La gente sta già bevendo acqua insalubre, salata e contaminata, il cibo è ridotto all’osso, mentre al sud iniziano a entrare i primi aiuti umanitari e alcuni impianti di desalinizzazione stanno funzionando in maniera ridottissima, ma come detto è del tutto insufficiente a coprire anche i bisogni di base.
Nella parte settentrionale della Striscia c’è Gaza City, con la maggiore concentrazione di popolazione, che vede attualmente la presenza dell’esercito Israeliano.
Lì si trova l’ospedale di Al Shifa, che secondo la narrativa israeliana è una delle infrastrutture che nasconde combattenti di Hamas e quindi è un probabile oggetto di attacco da parte israeliana, nonostante ospiti al momento decine di migliaia di pazienti e di sfollati. Gaza è da 16 anni sottoposta ad un embargo aereo, marittimo e terreste da parte di Israele ed Egitto.
L’area dipende in gran parte dagli aiuti esterni che arrivano da soggetti internazionali e statali. Prima della guerra, a Gaza entravano in media 5.000 camion di aiuti umanitari al mese, più o meno 180-200 al giorno. Gli ultimi dati dicono che dal 7 al 21 ottobre non è entrato nulla, dal 21 ad adesso ne sono entrati più o meno 400 in un contesto in cui non c’è nulla, ne servirebbero molti di più per ripristinare i servizi base e il carburante per far lavorare i servizi essenziali.
La retorica degli aiuti umanitari che stanno entrando a Gaza è uno specchietto per le allodole, è più corretto affermare che la quantità di aiuti adesso sia ininfluente, dati i bisogni eccezionali. Gli unici beni che Israele consente sono cibo, acqua e medicine. Il valico di Rafah dalla parte egiziana è aperto e da molti giorni ci sono centinaia di camion in fila dal lato egiziano e migliaia di tonnellate di beni stoccati nella città di Al Arish, che è la città con porto e aeroporto più vicino a Rafah. Nel Sinai, che sta di fatto divenendo l’hub per la logistica, con la leadership delle operazioni da parte dell’unica organizzazione che opera direttamente nell’area, ovvero la Egyptian Red Crescent, anche perché nel Sinai i movimenti, da prima della guerra, sono già estremamente ridotti. È un’area sotto controllo militare in cui l’accesso degli internazionali non è previsto se non con un’autorizzazione che né ONG né personale ONU hanno al momento. È stato concesso l’ingresso per via aerea ad alcune persone per documentare la gestione degli aiuti o per seguire l’arrivo del Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres. Sin dall’inizio della crisi è stato creato un cluster logistico che raggruppa organizzazioni internazionali e ONG che si stanno coordinando per cercare di lavorare su entrambi i fronti e sbloccare gli aiuti ammassati sul fronte egiziano pronti ad entrare. La tipologia di item che entrano nella Striscia viene decisa da Israele e ovviamente l’acqua cibo e medicine sono importanti, ma nulla è più importante del carburante in questo momento, per ripristinare il funzionamento di ospedali, centrali elettriche e impianti di desalinizzazione dell’acqua. Israele non permette i rifornimenti di carburante per evitare che arrivi nelle mani di Hamas.  Se anche Israele accordasse delle brevi tregue per garantire l’entrata degli aiuti umanitari, senza il carburante risulta tutto inutile. Migliaia di camion potrebbero scaricare i beni a Rafah, dove c’è una sorta di buffer zone. Ma chi li andrebbe a prendere per la distribuzione, se non c’è un camion rifornito? La benzina che circola oggi proviene dal mercato nero, i benzinai sono completamente vuoti dal primo giorno del conflitto. Rimane qualche riserva per le ambulanze che però sono in seria difficoltà. Come si fa a liberare le strade da tutte le macerie per far passare gli automezzi? Come si fa a raggiungere il nord per portare gli aiuti a chi sta lì, completamente tagliato fuori? Se oggi si aprisse il valico di Rafah, senza combustibile gli aiuti rimarrebbero al confine con grosse difficoltà per la distribuzione. Quello che anche noi abbiamo fatto è stato fare consegne con qualche carretto trainato dagli asini, che si può fare per cose minime, ma non per la distribuzione di beni di prima necessità a più di due milioni di persone. La difficoltà logistica è immensa e non esiste al momento nessun attore che è in grado da solo di occuparsi di tutta la distribuzione degli aiuti umanitari all’interno di Gaza. Noi lavoriamo a stretto contatto con i cluster delle Nazioni unite con la chiarissima idea che quando ci sarà la possibilità di intervenire, dovremo lavorare tutti quanti insieme. Non è affrontabile in nessun altro modo. Data la quantità di persone è necessaria l’organizzazione, ma senza il carburante non è attuabile nemmeno questo. E per fornire gli aiuti è indispensabile un cessate-il-fuoco.


Foto copertina: Gaza City