Qual è branca del diritto internazionale è applicabile durante un conflitto armato?


Accenni introduttivi al diritto internazionale umanitario applicabile durante un conflitto armato.


Di Alice Stillone

Come nasce il diritto internazionale umanitario e per quali ragioni?

Dato il recente sviluppo di un nuovo conflitto armato nel continente europeo e in Medio Oriente, nei media occidentali si sente spesso parlare di violazioni del diritto umanitario senza, tuttavia, accompagnare le notizie a delucidazioni circa la natura di questa branca del diritto, spesso confusa, nell’immaginario comune, con i diritti umani.
Il diritto umanitario, infatti, è una branca del diritto internazionale che si applica durante un conflitto armato e, pertanto, prevede un corpus normativo ben distinto rispetto ai diritti umani applicati, al contrario, in “tempo di pace” per regolare i rapporti tra Stati e cittadini. Per risolvere eventuali conflitti d’applicazione tra le due branche del diritto, la Corte internazionale di giustizia ha ribadito che, seppur le norme dei diritti umani generalmente non cessino di essere applicate durante le operazioni belliche, in caso di conflitto di applicazione, durante una guerra prevarranno le norme di diritto umanitario in quanto quest’ultima branca costituisce lex specialis che deroga la legge ordinaria applicata in tempo di pace[1].

Prima del Patto della Società delle Nazioni, gli Stati godevano di un illimitato ius ad bellum, cioè un diritto incondizionato di ricorrere alla guerra come strumento delle relazioni internazionali. Con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, la comunità internazionale ha deciso di abolire quasi totalmente questa libertà, ultimando un processo cominciato con il Patto della Società delle Nazioni e proseguito con il Patto Kellogg-Briand del 1928.
Attualmente, infatti, l’art. 2, par. 4 della Carta istituisce un divieto generale di ricorrere alla forza armata nelle relazioni internazionali eccetto nei casi di legittima difesa individuale e collettiva ex art. 51[2], e di azioni militari intraprese in seno al Consiglio di Sicurezza (CdS) a patto che le misure non implicanti l’uso della forza non abbiano sortito effetti.

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Il diritto umanitario può essere definito come l’insieme delle regole di diritto internazionale che, in tempo di conflitto armato, proteggono le persone che non prendono parte alle ostilità ponendo limiti all’impiego di mezzi e metodi di guerra e che, di conseguenza, limitano le sofferenze anche per i combattenti. Il fine di rendere meno disumani i conflitti e di minimizzare perdite e danni causati dalla guerra indipendentemente dalla legittimità della causa sostenuta dall’una o dall’altra Parte, è dovuto ai numerosissimi episodi di violenza inaudita che si sono registrati in contesti di conflitti armati non ancora giuridicamente normati. Le origini di questa branca del diritto, infatti, risalgono alla battaglia di Solferino del 1859 in occasione della quale Henry Dunant – riconosciuto come il fondatore della Croce Rossa – sconvolto dal trattamento dei feriti e dei caduti sul campo di battaglia, sensibilizzò la comunità internazionale sulla necessità di normare la guerra per renderla meno violenta sia per coloro che la combattono che per la popolazione civile. Le impressioni di Dunant, le sue esperienze e proposte vennero raccolte nel libro “Ricordo di Solferino” in cui l’autore sottolineò come i feriti ed il personale sanitario si sarebbero dovuti ritenere neutrali dalle Parti belligeranti. Su questa scia nel 1863 nacque il “Comitato Internazionale per il soccorso ai feriti di guerra” che nello stesso anno cambiò nome in “Comitato Internazionale della Croce Rossa”.

Quali sono le fonti del diritto internazionale umanitario

Con l’intento di provvedere ad uno studio delle fonti, è necessario premettere la fondamentale distinzione dei conflitti armati in due categorie: conflitti armati internazionali (IAC) – che vedono coinvolti due o più Stati[3] – ed i conflitti armati non internazionali (NIAC), riguardanti un conflitto interno ad uno Stato.
Tale distinzione assume rilievo in quanto l’individuazione della tipologia di conflitto è un passaggio imprescindibile per applicare la giusta cornice giuridica di riferimento[4].
Il principale elemento di differenza tra la disciplina applicabile negli IAC e quella applicabile nei NIAC consiste nello status da accordare a coloro che prendono parte alle ostilità. Ai partecipanti ai conflitti internazionali viene generalmente riconosciuto lo status di legittimi combattenti da cui deriva l’impossibilità di essere puniti per gli atti di belligeranza compiuti – a meno che tali atti non costituiscano crimini internazionali – e, in caso di cattura, la garanzia di ricevere lo status di prigionieri di guerra.
Nei conflitti appartenenti alla seconda categoria, i contendenti non sono considerati al pari dei combattenti degli IAC in quanto lo Stato del NIAC è libero di assoggettare i ribelli alle norme del proprio diritto interno – purché queste siano conformi alle regole di carattere umanitario – senza concedere loro lo status di legittimi combattenti.

Operata questa prima distinzione, è opportuno inquadrare brevemente le fonti di questa branca del diritto, aventi natura consuetudinaria e pattizia. Il processo di codificazione delle originarie norme pattizie, infatti, ha progressivamente posto la sua attenzione sulla condizione delle persone vittime di violenza bellica, e si è via via intensificato a seguito della Seconda guerra mondiale con le Convenzioni di Ginevra del 1949. Nonostante i molteplici strumenti legali adottati dalla Dichiarazione di Parigi del 1856 in poi, attualmente il sistema di fonti a cui si fa generalmente riferimento, oltre all’insieme di norme consuetudinarie e principi cardine, è costituito dalla convenzione dell’Aia del 1907 sulla risoluzione pacifica dei conflitti internazionali, le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 ed i protocolli aggiuntivi del 1977 che tutelano le persone che non partecipano alle ostilità, le convenzioni sul divieto o la limitazione dell’impiego di talune armi classiche del 1980 ed i relativi protocolli che delimitano le modalità ed i mezzi della guerra.

I principi concernenti la condotta delle ostilità

Ponendosi l’obiettivo di regolare le condotte belliche e rendere meno violento il conflitto sia per chi vi partecipa che per chi non ve ne prende parte, il diritto internazionale umanitario si fonda su alcuni principi cardine attorno ai quali si articola il corpus normativo che regola la condotta bellica per le Parti belligeranti.

Con il fine di preservare la popolazione civile da attacchi diretti ad obiettivi militari, attraverso il principio di distinzione sancito all’art. 48 del I Protocollo aggiuntivo del 1977, il diritto umanitario introduce l’obbligo delle Parti belligeranti di operare una distinzione tra la popolazione civile ed i beni di natura civile che sono oggetto di protezione e gli obiettivi militari – in cui rientrano i legittimi combattenti. In virtù della necessità di proteggere la popolazione civile, inoltre, l’art. 51, par. 4 del I Protocollo aggiuntivo del 1977 vieta gli attacchi indiscriminati, quelli cioè che impiegano metodi e mezzi di combattimento che per loro natura sono indiscriminati cioè non indirizzabili precisamente ad un obiettivo militare o limitati nei danni. Insieme alla popolazione civile, anche i beni di carattere civile sono destinatari di particolare protezione ai sensi degli artt. da 52 a 56 dello stesso protocollo, fintantoché le loro funzioni rimangano di natura civile e non vengano utilizzati per scopi bellici.

Il principio di precauzione, sancito agli artt. 57 e 58 del I Protocollo, è un altro dei concetti chiave del diritto internazionale umanitario e vincola gli Stati belligeranti ad adottare una serie di misure precauzionali volte a preservare la popolazione civile. Tra queste, coloro che decidono se sferrare o meno un attacco, dovranno accertarsi che gli obiettivi da attaccare non sono persone civili, beni di carattere civile o beni che beneficiano di una protezione speciale; e prendere tutte le precauzioni possibili nello scegliere mezzi e metodi di attacco per evitare o ridurre al minimo il numero di morti e feriti tra la popolazione civile. Lo stesso principio, inoltre, impone di annullare o interrompere un attacco quando appaia evidente che il suo obiettivo non sia militare o che esso provochi incidentalmente morti e feriti civili, nonché di avvertire la popolazione civile in tempo utile e con mezzi efficaci nel caso di attacchi che potrebbero colpire beni civili.
Un concetto fondamentale per questa branca del diritto il cui significato ha subito un’evoluzione nel tempo, è quello di necessità militare, oggi accostato al principio di proporzionalità. Nel moderno diritto bellico, infatti, la necessità militare non costituisce la tradizionale causa di giustificazione dell’illecito, bensì rappresenta un limite generale all’azione bellica ed in questo senso si può accostare al principio di proporzionalità. Secondo questa accezione, che trova riscontro nell’art. 5, par. 2 del Manuale della Marina USA e nell’art. 130 del Manuale tedesco di diritto umanitario, il belligerante è tenuto ad impiegare solo la quantità di forza strettamente necessaria per sferrare un attacco, operando di conseguenza una valutazione della proporzionalità tra i vantaggi militari ottenuti e i danni causati[5].
L’ultimo dei concetti strettamente collegato agli altri già citati, è il principio di umanità, ispirato alla Clausola Martens e di natura consuetudinaria. Per questo principio, anche in assenza di specifiche norme, i civili ed i combattenti rimangono sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti quali risultano dalle consuetudini stabilite, dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza.

Alcune criticità del diritto internazionale umanitario

Nonostante i nobili obiettivi che il diritto umanitario si propone, la sua applicazione nei conflitti armati non è stata costante ed incondizionata. Nelle guerre passate ed in quelle attualmente in corso, infatti, il rispetto dei principi cardine del diritto umanitario nella condotta bellica non sono stati osservati puntualmente ma, al contrario, sono spesso stati violati senza preoccupazioni circa le conseguenze future. Ciò che rende critica la corretta applicazione del diritto umanitario è, in effetti, proprio la mancanza di certezza circa la “pena” conseguente la violazione delle norme pattizie e/o consuetudinarie del diritto umanitario. Si pensi, per esempio, alla commissione di crimini di guerra da parte di legittimi combattenti o ancora al crimine di aggressione da parte di un capo di Stato. Come suddetto, il conferimento dello status di legittimo combattente non esclude la responsabilità penale individuale per i crimini internazionali (crimini di guerra, crimine di aggressione, crimini contro l’umanità, genocidio), tuttavia le concrete azioni giudiziarie intraprese contro i criminali internazionali sono poco numerose e sicuramente non riguardano, almeno attualmente, leader politici o capi di Stato responsabili di crimini internazionali come quello di aggressione. Non potendo, in questa sede, spiegare dettagliatamente il funzionamento della giustizia penale internazionale, basti sottolineare come, una scarsa adempienza agli obblighi relativi alla condotta delle ostilità – a cui tutti gli Stati sono vincolati per via del carattere consuetudinario del principale nucleo di norme del diritto umanitario – sia in parte e probabilmente dovuta alla scarsa incisività della repressione penale internazionale che, evidentemente, non funziona come deterrente per far desistere leader politici o capi di Stato dalla commissione di crimini internazionali di così ampio raggio.


Note

[1] Cfr. ICJ, Legality of the threat or use of nuclear weapons, Advisory Opinion of 8 July 1996, para. 25.
[2] Anche nei casi di legittima difesa, comunque, l’uso della forza è permesso fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
[3] Negli IAC oltre ai conflitti tra due o più entità statali rientrano anche le guerre di liberazione nazionale, ovvero quei conflitti in cui un popolo, non ancora costituitosi come Stato indipendente, lotta contro il governo al potere esercitando il proprio diritto all’autodeterminazione. L’inserimento di questa tipologia di conflitti all’interno degli IAC risale al 1977 ed in  particolare all’art. 1, par. 4 del I protocollo addizionale alle quattro convenzioni di Ginevra.
[4] In particolare, i NIAC trovano la loro disciplina nell’art. 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e nel II protocollo addizionale del 1977.
[5] N. Ronzitti, Diritto Internazionale dei conflitti armati, quarta edizione, G. Giappichelli, 2011, pp. 196-198.


Foto copertina: Accenni introduttivi al diritto internazionale umanitario applicabile durante un conflitto armato