Stato e (stato di) crisi: il difficile equilibrio tra sovranità e sicurezza nella prospettiva costituzionale.


Se la valutazione concreta degli effetti complessivamente prodotti dalle “crisi” può effettuarsi al compimento delle stesse, la tutela dei complessi sistemi di diritti e libertà costituzionalmente garantiti necessita dell’intervento di tutte quelle misure preventive e straordinarie esercitabili dallo Stato “di crisi”.


 

Con la nascita dello Stato Moderno e la contestuale affermazione del principio di “sovranità” allo stesso afferente (eventi che, nel corso dell’evoluzione storico-politica di cui l’Europa è stata protagonista, si collocano lungo il XVII secolo), il bisogno di “sicurezza” e/o di “protezione” dal nemico esterno assumono nuova dimensione per l’uomo.
Questi infatti, in quanto non più concepito quale “essere isolato” e perciò dedito all’ auto-conservazione, (condizione meglio descritta nella fortunata formula Hobbesiana dell’Homo homini lupus), riconosce la sua appartenenza ad un popolo (o meglio, ad una  Nazione), assumendosi pertanto il “dovere” di rispettarne le basilari regole di convivenza (rintracciabili nell’originario “contratto sociale”)[1]: in cambio di ciò gli viene riconosciuto definitivamente il “diritto” di essere tutelato, al pari di tutti gli altri, da ogni “illegittima” manifestazione di potere[2]. Va da sé che nella stessa ottica statalistica (o Stato-centrica) tale “diritto” a ricevere tutela diviene a sua volta il presupposto per l’esercizio delle corrispondenti “funzioni sovrane” da parte dell’apparato statale, ossia di quello designato quale governo (dotato appunto della funzione “esecutiva”) secondo la disciplina costituzionale[3].

Dunque, anche con l’avvento delle Costituzioni contemporanee, (“liberali” o liberal-democratiche),  il “potere” di decisione nei confronti dei cittadini non si estingue del tutto, bensì esso sopravvive pur nelle meno incisive definizioni di “competenze” o “facoltà corrispondenti”, tributarie di un necessario bilanciamento tra quei valori dello Stato di diritto “classico” (in cui sono racchiuse le istanze di “mera difesa” dall’esterno apportanti tutela entro i confini statali) e le nuove funzioni prettamente “assistenziali” che lo Stato sociale di diritto è chiamato a svolgere con effetti riflessi direttamente al suo interno.

L’estensione “piena” del principio di tutela che si sviluppa a favore del singolo cittadino è tesa a ricoprire ogni situazione di “diritto” che lo veda coinvolto già in quanto persona umana (a partire dunque dal generale campo della “salute” alle di situazioni più particolari, come per i diritti delle minoranze, dell’immigrazione, della bioetica ecc…) ed in virtù della quale l’ accesso alla tutela deve essergli garantito non solo nello Stato, ma anche dallo Stato.

È a partire da questo fondamentale passaggio evolutivo che ancora oggi i sistemi costituzionali (democratici) si definiscono come un “perenne equilibrio” tra divergenti tensioni, queste ultime accentuate per di più da una sempre maggiore “apertura” degli Stati nazionali verso forme di aggregazione, unificazione e/o parificazione tra essi, ciò facilitando il proliferarsi dei processi di contaminazione e di “omogeneizzazione” tra le stesse condizioni di “tutela” esistenti nei vari ordinamenti[4].

L’ obiettivo necessario al buon funzionamento di un siffatto quadro d’insieme in ogni caso consiste nel mantenere un adeguato grado di stabilità, o almeno tale da garantire la corretta espressione di tutte le istanze “di diritto” da questo ricomprese, risultato il cui esito può tuttavia essere costantemente compromesso dal verificarsi di eventi contingenti generalmente identificati come “crisi”.

Questo concetto si presenta caratterizzato da una molteplicità di interpretazioni, in parte dovute ai variegati significati che l’etimo originario poteva assumere (in greco antico, “crisis”, “divisione”, o il suo verbo, “crino”, letteralmente indicava l’atto del “dividere”, con differenti valori semantici, tra i quali rientrano le diverse azioni del “distinguere”, “decidere” , “giudicare”) [5] che possono sintetizzarsi nella metafora della crisi come concetto- “baule” (Deleuze, 1975), capace cioè di inglobare a sua volta differenti concetti, a seconda dell’ambito disciplinare in cui tale termine venga utilizzato.

Tali difficoltà interpretative sono state tuttavia accentuate dall’uso sproporzionato ed a tratti retorico (Colombo, 2014) che progressivamente si è fatto di questa definizione, ed a causa di cui rischia di perdersi proprio la stessa profondità di significati che caratterizza l’idea di crisi, volendola piuttosto mutare in parola “neutrale”, pressoché adattabile a qualsiasi circostanza[6].

In effetti di “crisi” molto spesso si parla genericamente, in termini economici, per indicare l’attraversamento di fasi negative nell’andamento “ciclico” dell’economia (globale, nazionale o anche privata)[7], ma altresì nell’uso comune è invalsa l’affermazione di “crisi di valori”  per indicare imprecisati periodi di congiunzione storico/culturale in cui certi principi, abitudini, o comportamenti radicati nella società sembrano mano a mano venire meno, lasciando che ne  emergano degli altri.

Ma, se parlare indistintamente di crisi non è più a lungo auspicabile, è tuttavia possibile rintracciare la determinante principale di qualsiasi evento/periodo c.d. “critico” nel tempo. Ancora rifacendosi alla comune interpretazione, si dice infatti che le crisi segnino delle “epoche”, o meglio siano dei “passaggi” (dividono quindi un periodo dall’altro), i quali effetti possono percepirsi e analizzarsi soltanto appena dopo che le si è attraversate. È curioso, poi, notare che questa stessa attività del “giudicare” una crisi, ovvero del distinguere il momento preciso in cui un certo “equilibrio” sia stato sconvolto da quello in cui invece la “nuova fase” abbia avuto inizio, riporti ancora una volta ad uno degli originari significati contenuti dalla parola.

Tornando però al possibile rapporto tra una crisi (di qualsiasi natura) e un (qualunque) sistema costituzionale, i cui “valori” sono posti a fondamento di quel complesso meccanismo di “pesi e contrappesi” (“checks and balances”) attraverso cui gli organi istituzionali possono esercitare le proprie attribuzioni, è intuibile la difficoltà davanti alla quale questi ultimi sono posti, ma ancora, dinanzi a cui  si sia trovato il legislatore (in primis costituzionale, poi ordinario) e in generale si trovi ciascun interprete del diritto, qualora la stessa tutela che si trova accordata al cittadino in condizioni di (relativa) “normalità giuridica”, debba essere applicata in “previsione” o tanto più in “occasione” di eventi dai contorni futuri/probabili/incerti , descrivibili appunto quali “crisi”[8].

In termini pratici, si tratterà dell’esigenza di (pre)-stabilire condizioni e modalità che consentano la gestione “tecnica” di eventi del genere, senza però dover rinunciare (almeno non del tutto) a mantenere integro il sistema costituzionale vigente alla base, senza, cioè, che lo stesso “stato di crisi” si traduca facilmente nell’instaurazione di uno stato di “eccezione” permanente, in virtù del quale alla certezza di tutela assoluta a poco a poco si sostituisca il “bisogno” di sicurezza momentanea.

Lo stesso canone di incertezza e imprevedibilità che attraversa il concetto di crisi tenderebbe quindi a rendere d’incerta natura e d’illimitata specie gli scenari al di là di questa configurabili, in particolare poi se ad essere chiamati in causa sono interi sistemi-Stato, con tutte le conseguenze generantesi in termini di “perdita” di equilibrio complessivo.

Per far fronte a tali esigenze, il diritto costituzionale contemporaneo presenta in realtà soluzioni molto diversificate, divise principalmente da due “tendenze” presenti in materia, parimenti valide ma antitetiche tra loro.
La prima è dettata dal sistematico bisogno di premunirsi , in vista di siffatte situazioni, di adeguate “misure di risposta” e rintracciabili nelle definizioni normative indicanti caratteristici “poteri speciali” che alcune tra le istituzioni statali (di solito tali attribuzioni ricadono sull’organo Esecutivo o comunque su suoi membri) saranno competenti ad esercitare in occasione della dichiarata presenza in atto di eventi “critici”, “emergenziali” o di “grave pericolo” per la sicurezza pubblica[9] (in concreto trattasi di un ambito più o meno esteso di “poteri d’urgenza”, non meglio precisabili se non in funzione dello svolgimento di tutte le “contromisure” reputate all’uopo necessarie, posto che debbano risultare comparate e proporzionali alla gravità dell’evento stesso).

L’altra tendenza invece è volta ad escludere, per quanto possibile, che attraverso l’adozione delle stesse soluzioni normative c.d. “emergenziali” si dia luogo ad una eccessiva “razionalizzazione” delle ipotesi di eccezionalità che così (pre)-scritte, rischierebbero di dare luogo, in sede di attivazione dei poteri già costituzionalmente (e/o in aggiunta, legislativamente) concessi, a fenomeni di improprio “sconfinamento” delle attribuzioni dal campo della realtà stessa che le ha occasionate (di fatto, proprio perché ampliamente giustificati da una forte base normativa, i “poteri” implicati dallo “stato di eccezionalità” non dovrebbero oltrepassare la soglia di stretta correlazione con il dato-evento di crisi, altrimenti portando al risultato della “normalizzazione” di condizioni che di per sé restano “imprevedibili e temporanee”)[10].

Due opposti “approcci” quindi che, per quanto entrambi validi e allo stesso tempo applicabili, segneranno le più importanti differenze in termini di soluzioni normative adottate in materia “emergenziale” dal confronto tra ordinamenti nazionali differenti.


Note

[1] La formula “contrattuale” già contenuta stesso in Hobbes, Locke, Montesquieu, ma in parte ripresa anche da teorie successive (vedi Kant, Rousseau e Rawls) risulta valida costruzione concettuale in grado di esplicare la difficile funzione di legittimazione del potere “sovrano” (o comunque di quello esecutivo, in virtù del vincolo costituzionale) quale “forza ordinante” necessaria. Tuttavia, come chiarito in M. PEDRAZZA GORLERO, Il patto costituzionale, Padova, 2009 (2a ed. 2012), 96 ss, così riportato in nota da  S.PRISCO, “Costituzione , diritti umani , forme di governo- Frammenti di un itinerario di studio tra Storia e prospettive” G.Giappichelli, Torino, 2014,21: «Il paradigma del consenso è appunto il contratto, che pertanto “non rappresenta il vero fondamento della società, bensì la cifra razionale del suo fondamento effettivo”, che consiste nell’eguale e bilanciata rinunzia all’uso della forza da parte dei contraenti nel sottomettersi al pactum societatis», nondimeno, aggiunge l’autore ult. Cit.: «Il contratto è insomma assunto a figura fondativa del moderno, perché suppone costitutivamente l’eguaglianza formale dei contraenti ed è adatto alla caratterizzazione degli attuali assetti pluralistici più delle […] ricostruzioni dei poteri pubblici in termini di statualità sovrana».

[2] Trattasi nello specifico del “principio di legalità”, assunto fondamentale dello Stato di diritto, il quale, è, secondo P. COSTA, Lo Stato di diritto: un’introduzione storica, (a cura di) D.ZOLO, Milano, 2002, 89 ss:  «espressione della fiducia che gli individui, incalzati dalla forza luminosa e arcana del potere, ripongono nel diritto, nella norma oggettiva, come in una diga capace di frenare o comunque di regolare l’energia disordinata ed eccessiva della sovranità». Nel porsi quale “argine” all’indomabilità del potere “minaccioso”, tuttavia, lo Stato di diritto deve affrontare, precisa sempre P.COSTA , Ivi, 91-92, il dilemma del rapporto tra “governo e legge”, ovvero:  «il ruolo della legge, la tensione fra il suo carattere generale e le manifestazioni sempre diverse della singolarità, la difficile, ma necessaria composizione fra la decisione dispotica e il rispetto di un ordine normativo indisponibile», lo stesso rapporto che poi andrà a “stabilizzarsi” nell’ordinamento social-democratico affermatosi nella seconda metà del ‘900.

[3] Secondo G. MIELE, Le situazioni di necessità dello Stato, Arch. Giur., 1936, 377 ss : «per il potere esecutivo è obbligo istituzionale il perseguimento dei fini tutti che concernono la collettività». Di qui si può validamente affermare che tale potere dello Stato sia l’erede diretto di quella “sovranità illimitata” caratterizzante il ruolo del monarca assoluto, ora convertita appunto in dovere istituzionale, “obbligo” giuridico e ancorché fonte di responsabilità politica. Sulla base di questo ragionamento, in prosieguo lo stesso autore precisa che non è già la pura e semplice “necessità” a giustificare l’intervento dell’esecutivo (ossia degli organi e/o dell’attività afferente a tale potere), bensì : «l’obbligo giuridico di adoperarsi per uno scopo indefettibile: la necessità rende concreto e attuale quest’obbligo, ma esso preesiste alla necessità»

[4] In quest’ottica si può dire che va ad aggiungersi alle due formule “tradizionali” di tutela del cittadino (c.d. tutela “nello Stato” e “dallo Stato”) una nuova configurazione, a vocazione internazionale e /o sovra-nazionale: la protezione del cittadino viene richiesta altresì “al di fuori del (proprio) Stato”. Esempio-chiave di questa nuova direzione assunta dal “dovere di proteggere” da parte degli Stati è mostrato dallo sviluppo progressivo del diritto di protezione del rifugiato e/o richiedente asilo, il quale, come stabilito dall’ Art. 1-A, n. 2 par. 1 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati (1951), è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. (fonte: unhcr.it). Considerando l’ambito europeo, poi, ’istituto della “protezione internazionale” viene introdotto dalla Direttiva 2004/83/CE; mentre più di recente si è raggiunto il più ampio criterio della “protezione sussidiaria”, definita dalla Direttiva 2011/95/UE, secondo cui “É ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato ma nei cui confronti esistono fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o non vuole, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di detto paese”.(fonte: Integrazione migranti.gov)

[5] Fonte: Vocabolario della lingua italiana Treccani, 1986, 1004

[6] Tracciando il possibile percorso della progressiva diffusione del concetto nella cultura popolare,  C.COLLOCA, La polisemia del concetto di crisi: società, culture, scenari urbani, Società-mutamento-politica,  vol. 1, n. 2, , Firenze University press, 2010 , 19-39 : «Un concetto che dall’antichità fino alla conclusione del Medioevo si articola sul piano dei linguaggi settoriali ed è condizionato dall’uso che ne fanno le istituzioni ecclesiastiche; occorre attendere il Settecento per registrarne una crescente diffusione e la trasformazione in un concetto di filosofia della storia, finché con la Rivoluzione francese diviene la chiave interpretativa per la storia politica e sociale e successivamente, fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, si radica nella società occidentale una cultura della crisi e si sviluppano nei decenni a seguire teorie della crisi legate alle trasformazioni del capitalismo e ai valori della modernità». La versatilità della nozione di crisi non fa che agevolare la tendenza ad estenderne l’applicazione anche ad eventi che di per sé sono lontanissimi, ma in che in virtù di specifici tratti “caratteriali” esteriori (negatività, “catastroficità”, rottura con il passato ..) vengono accomunati su di un piano comunemente definito “momento critico”, con il rischio di non saperlo più distinguere dallo “stato di normalità”.

[7] Storicamente, sono gli anni ’30 (attraverso ciò che verrà definita la “Grande Depressione”) a consacrare in un certo senso l’uso del termine “crisi” riferito alla sfera economica, i cui segni(secondo la teoria keynesiana, nata proprio in quest’epoca)  possono analizzarsi attraverso la selezione delle problematiche effettive e la conseguente analisi “matematica” delle stesse, al fine di trovare risposte certe e durature, quantomeno fino al successivo periodo di recessione.

[8] È comprensibile, poi, il dato della maggiore difficoltà riscontrata nel definire con relativa certezza quando può dirsi che un ordinamento statale (e ancor più costituzional-democratico) debba far fronte ad uno “stato di crisi” o “stato di emergenza”, comportando questi casi la necessità di parziali e temporanee rinunce a determinati diritti e libertà civili. Per un’inquadratura in generale, A. PIZZORUSSO, Emergenza, Stato di, Enciclopedia delle Scienze sociali, III, Roma, 1993, 551 ss sostiene che lo “stato di crisi” sia corrispondente alla: «situazione giuridica che consegue all’accertamento ufficiale della stessa situazione di fatto ai fini dell’adozione degli interventi che risultano opportuni per ovviare agli inconvenienti che ne derivano». Si tratta di una nozione che evidentemente lascia alla discrezionalità dei singoli Stati l’assunzione di più precisi parametri volti a definire se, come e quando conviene intervenire in tal senso, anche sulla scorta delle proprie tradizioni costituzionali. Tant’è che anche in campo internazionale molti dei Patti ed Accordi stipulati per il mantenimento della pace e per la tutela dei diritti umani prevedono circoscritte deroghe a favore dei singoli Stati trovantesi in tali occasioni, quasi permettendogli così di “riacquisire” quella porzione di sovranità ceduta in vista dell’avvenuta adesione.

[9] Primo, storico riferimento concreto di disciplina “emergenziale” in ambito costituzionale si rimanda all’art 48 (Notstandsartikel) della Costituzione di Weimar (1919), in base al quale i poteri eccezionali esercitabili in caso di “grave minaccia” o “turbamento rilevante” dell’ordine e della sicurezza pubblica spettavano al Presidente del Reich, in virtù di caratteristiche funzioni “di riserva” rispetto al normale compito di indirizzo politico. Oltre al potere di emanare “decreti d’urgenza”, spicca certamente la previsione alquanto generica di poter apportare “restrizioni alle libertà fondamentali”, misura che, nonostante lo stabilito rapporto con il Reichstag (il quale poteva chiedere, in contropartita, l’abrogazione dei suddetti decreti), costituì valido strumento per l’affermazione della futura corrente nazionalsocialista. L’ascesa del nazismo, infatti, si segna proprio a partire dal famigerato “Decreto d’emergenza per la difesa del popolo e dello Stato” emanato il 28 febbraio 1933 dall’allora Presidente P. von Hidenburg, sotto la crescente influenza del cancelliere A. Hitler, all’indomani dell’oscuro episodio dell’incendio del Reichstag (la notte del 27 febbraio 1933).

[10] In tale cornice s’inseriscono i caratteristici “presidi” o “controlimiti” posti, oltre che al normale livello costituzionale, altresì in ambito internazionale, contro lo sconfinamento dei poteri esecutivi che i singoli Stati aderenti siano autorizzati ad esercitare in casi emergenziali. Ad esempio, nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966 all’ art. 4 si stabilisce che “in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della Nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parte del presente patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente patto”, precisando al contempo che le stesse facoltà s’intendono concesse: “nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale”. E, in maniera analoga, l’art 15 CEDU stabilisce: “in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione, ogni altra parte contraente può prendere misure in deroga alle obbligazioni previste nella presente convenzione nella stretta misura in cui la situazione lo esiga e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con le altre obbligazioni derivanti dal diritto internazionale”. Ancora sulla stessa scorta, la Convenzione americana sui diritti dell’uomo, stipulata a San José di Costarica il 22 novembre 1969, stabilisce all’art. 27 che “in caso di guerra, di pericolo pubblico o in ogni altra situazione di crisi che minacci l’indipendenza o la sicurezza di uno Stato parte, questo potrà adottare le disposizioni che, nella misura e per il tempo strettamente limitati alle necessità della situazione, sospendano gli obblighi assunti in virtù della presente convenzione, sempre che tali disposizioni non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti dal diritto internazionale e non diano luogo ad alcuna discriminazione basata su considerazioni di razza, colore, sesso, lingua, religione o estrazione sociale.


Foto copertina:Costituzione polacca di maggio (Jan Matejko1891)


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