Un’analisi tattica della guerra in Ucraina


L’esercito russo è davvero debole come lo si descrive? Il blitzkrieg, considerato fallito dagli osservatori internazionali, era nelle intenzioni di Mosca? Quanto è determinante la conoscenza della geografia? Intervista a Paolo Capitini, generale in ausiliaria e docente di storia militare all’università della Tuscia e alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito.


Il generale Paolo Capitini

A partire dal 24 febbraio scorso, quando le forze della Federazione Russa varcavano violentemente tra il clangore dei corazzati e il roboante fragore dei motori di jet da guerra ed elicotteri d’assalto, il confine con l’Ucraina, la complessa macchina dell’informazione globale si è messa in moto. Aggiornamenti dal fronte minuto per minuto come mai si era visto prima ha portato alla nascita di numerose analisi del conflitto in corso, ad una polarizzazione dell’opinione pubblica e a tante, troppe, ipotesi azzardate, figlie probabilmente della vicinanza temporale e geografica degli eventi stessi. In questo mare di informazioni, però, le analisi dei veri esperti non hanno ricevuto il risalto dovuto e oggi, ad oramai sette mesi dall’invasione dell’Ucraina e con il calmarsi del tornado mediatico sul tema, è giunto il momento di fornire ai lettori interessati un’analisi di questo conflitto, incentrata sui punti più dibattuti proprio degli ultimi mesi, discussa con un esperto del settore, Paolo Capitini, generale in ausiliaria e docente di storia militare all’università della Tuscia e alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito.

La Federazione russa, cavalcando l’impennata del prezzo del petrolio del 2010, avviò un ambizioso programma di riforma dell’esercito con l’obiettivo di ammodernare il suo braccio armato e svecchiare dottrine militari stesse, ancorate ancora al periodo sovietico. Già prima dell’invasione dell’Ucraina alcuni analisti ritenevano incompleta e incompiuta questa riforma. Alla luce dei recenti avvenimenti queste teorie trovano nuove conferme?
“Più che di riforma si dovrebbe parlare di rivoluzione. Come altro definire il passaggio, per dirla con Stalin, dall’armata dei contadini e degli operai ad un esercito professionale. Qui in occidente stentiamo a comprendere l’impatto sociale, psicologico e anche identitario, ancora prima che militare, che un simile passo ha avuto nel contesto russo. Il nuovo esercito sarebbe stato in grado di garantire la stessa forza e capacità dell’armata rossa? Quella che aveva piegato il III Reich e mantenuto il controllo su metà dell’Europa? Eppure anche questa, come molte altre riforme, si è presentata più come un obbligo che come libera scelta. La parola d’ordine che la guidò era stata: “più qualità e meno quantità”, slogan che almeno in Italia è ben conosciuto. Non si deve dimenticare infatti come appena uscita dal tunnel anarcoide dell’era Elts’in, la Federazione russa era un paese da ricostruire in ogni settore, compreso quello militare. Questa è stata ed è ancora la missione di Putin. Ricostruire, tenendo conto dei pressanti limiti economici da bilanciare sia con le esigenze di riproporsi come potenza planetaria, sia con la necessità del popolo russo di percepirsi come grande potenza spartana. In questo quadro un esercito mastodontico, con fortissimi problemi di corruzione interna, con i reparti dove la dedovščina, il brutale nonnismo, era considerato un sistema per temprare il combattente e soprattutto un esercito lento e vecchio non rispondeva più a nessuno di questi scopi. In altri termini la Novaya Rossya non sarebbe mai entrata nel XXI secolo con quell’esercito e quella marina.
A questo riguardo il conflitto russo-georgiano del 2008 rappresenta l’evento scatenante per indurre il governo di Mosca alla completa revisione delle proprie forze armate in ottica più moderna e funzionale. Padre di questa rivoluzione non è stato un militare, ma un economista: Anatolij Serdjukov e ciò in prospettiva si è dimostrato un grande vantaggio per il nuovo modello che si fondava su questi pilastri. In primo luogo l’eliminazione della mobilitazione di massa, la soppressione delle unità-quadro, delle loro basi e dei loro depositi e l’invio del personale presso reparti in servizio attivo. L’idea era quella di disporre di un esercito permanentemente pronto a livello operativo. In secondo luogo si pensò di dar vita a unità di livello ordinativo più piccolo dove la Grande Unità elementare responsabile del combattimento terrestre fosse non più la Divisione ma la brigata. Il terzo pilastro ha riguardato la completa riorganizzazione della struttura di comando e controllo. Molti comandi e stati maggiori sono stati soppressi, altri accorpati. I sei preesistenti Distretti militari sono stati ridotti a quattro (Distretto Occidentale, Meridionale; Centrale e Orientale) e per ciascuno di essi sono stati costituiti i corrispondenti Comandi Strategici Regionali Interforze ai quali affidare la pianificazione e la condotta delle operazioni Joint, vale a dire delle operazioni integrate aero-terrestri, navali e di forze speciali nella regione di competenza. Già perché questa è un’altra delle novità introdotte da quel modello di difesa, l’idea cioè che il territorio della Federazione russa non sarebbe stato coinvolto a breve-medio termine in un conflitto globale generale, sullo stille per intenderci della 2^ guerra mondiale. Più frequenti e probabili sarebbero state le crisi regionali dove l’uso della forza militare poteva o doveva essere richiesto a salvaguardia degli interessi di Mosca.
Come Mosè anche Serdjukov non ha visto la terra promessa, sostituto nel 2012 dal generale Sergej Sojgu per via di un accusa di corruzione e malversazione. Il cambio al ministero della difesa non comportò tuttavia alcun drastico cambiamento, infatti Sojgu, pur imponendo un certo rallentamento e qualche “ritocco” al modello del suo predecessore, sostanzialmente lo confermò, mantenendo il principio strategico di disporre di forze armate a elevata prontezza operativa. Tutto bene dunque? Certamente no. Ad esempio si è reso necessario un ripensamento riguardo l’eliminazione totale della leva obbligatoria e questo per l’impossibilità di trovare un adeguato numero di volontari disposti a fare del soldato il proprio mestiere. Anche la disponibilità di un nuovo tipo di sottufficiale in grado di addestrare piccole unità e condurle in combattimento è un problema serio soprattutto quando si vuole disporre di reparti d’impiego piccoli e pronti all’impiego come le compagnie o i battaglioni. Anche sul piano dell’ammodernamento dei materiali, degli equipaggiamenti e dell’armamento la Federazione russa ha dovuto fare i conti con le proprie difficoltà strutturali. Il suo P.I.L. è appena un ottavo di quello USA e un quarto di quello cinese. Tanto basta a sgombrare il campo dall’idea di voler competere con quelle potenze, e se non bastasse tra esse c’è anche un gap demografico incolmabile.
Per completezza va ricordato che si sta parlando di Forze Armate le quali non rappresentano la totalità delle capacità militari della Federazione. Solo per memoria vanno infatti citati i reparti del Servizio Federale per la Sicurezza Interna, l’FSB (Federal’naja Služba Bezopasnosti), erede del famigerato KGB; quelli della Guardia Nazionale Russa, posti alle dirette dipendenze del capo dello stato, vale a dire di Putin stesso, le forze speciali della policija, i famosi OMON del Ministero dell’Interno, le VVMVD, per finire con le unità del Servizio di Protezione Federale (FSO) e la Guardia di Frontiere. Tutto questo senza considerare le compagnie “private” di contractors come il Gruppo Wagner o i militanti del Gruppo Kadyrovtsy, agli ordini del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Insomma, anche se si è ben lontani dai livelli dell’era sovietica, il Cremlino può attingere e di fatto per l’operazione in Ucraina è già ampiamente ricorso, a un capiente serbatoio di personale addestrato e pronto i cui vertici e le cui organizzazioni sono legate direttamente alla presidenza della Federazione.
Le forze armate della Federazione russa spedite in minima parte contro l’Ucraina sono dunque un flop? Direi tutt’altro, anzi, tutto sommato si sono dimostrate adeguate a condurre quel tipo di guerra ibrida che sembra rappresentare per ora lo scenario bellico dei nuovi conflitti. Le Forze Armate di Putin non devono cioè vincere la guerra da sole, ma fornire il proprio decisivo contributo a una strategia di potenza che ha o dovrebbe avere anche altre frecce nella propria faretra. Non dimentichiamo che prima di Ucraina 2022, queste stesse forze armate sempre in Ucraina hanno condotto con discreto successo altre operazioni, così come in Georgia e da ultimo in Siria. Sarei dunque cauto nel definire il loro modello fallito alla prova dei fatti.”. 

Argomento di grande dibattito su numerose riviste di studi internazionali e think tank è stato il ruolo del carro armato nei nuovi teatri di guerra come l’Ucraina. Alcuni ritengono che l’era di quello è considerabile una delle più iconiche macchine belliche dal lontano 1917 sia finita. Altri invece credono che questo strumento sia ancora estremamente valido e che ciò chi si sta vedendo sui campi di battaglia dell’Ucraina orientale non sia una disfatta della macchina in sé, ma del suo utilizzo da parte della federazione russa. Qual è il suo parere a riguardo?
“Ha fatto bene a ricordare la Grande Guerra quando sulla Somme fece per la prima volta la sua comparsa un carro armato. Come spesso accade nelle guerre, anche allora gli eserciti si erano trovati di fronte ad una difficoltà inattesa e apparentemente insuperabile, intendo dire l’assoluta prevalenza della difesa su ogni forma di attacco. L’impiego a massa delle artiglierie, il prolungato fuoco di preparazione, i gas e ogni altro sistema non erano riusciti a piegare il trinomio trincea-mitragliatrice-filo spinato. Da questo punto di vista il carro armato, quella sorta di fortezza semovente in grado di travolgere i reticolati, invulnerabile ai calibri leggeri e per giunta così mobile da non poter essere efficacemente battuto dal tiro di artiglieria, si rivelò un elemento di innovazione assoluta anche se non decisivo ai fini di quel conflitto. E’ nella seconda guerra mondiale che il ragionamento si spostò non più sulla efficacia o necessità o meno del carro armato, cosa su cui tutti ormai concordavano, ma su come impiegarlo al meglio. Andava mescolato alla fanteria appiedata per darle un supporto ravvicinato, oppure era meglio raggrupparlo in unità corazzate capaci di come un ariete di sfondare le linee difensive? L’andamento di quel conflitto fornì al tempo la risposta. Ed eccoci dunque al punto. Non credo sia corretto soffermarsi sulla modernità ed efficacia del carro come mezzo da combattimento, ma sulle caratteristiche degli ambienti operativi in cui opera.
Anche qui è opportuno sgombrare il campo da ogni rigidezza dottrinale. Non esiste infatti una ricetta assoluta come non esiste un solo ambiente operativo. Quello ucraino sta dimostrando che i carri di oltre trent’anni, mi riferisco ai T-90, T-82 e altri ancora più vecchi sono particolarmente vulnerabili agli agguati con armi contro carri, alle imboscate e al tiro aereo. “Bella scoperta” verrebbe da aggiungere. Quello che i primi giorni della cosiddetta operazione militare speciale hanno svelato è solo una antica evidenza. Il carro non può agire da solo e non è adatto ad ogni lavoro. Non appena i russi, dopo il ritiro da Kiev e la riorganizzazione di pasqua hanno iniziato a rivederne l’impiego, le cose sono cambiate e molto velocemente. Intanto le formazioni corazzate, per piccole che fossero, sono state inserite all’interno di un’efficace ombrello di guerra elettronica e protette da robuste attività di jamming, soprattutto a protezione dai droni armati, come i bayraktar TB2 turchi. In secondo luogo i russi hanno smesso di mandare avanti i carri ad ogni piè sospinto. Il loro cannone è in grado di battere bersagli compresi tra 500 e 2000 metri e in assenza di campi di tiro di questa portata è inutile impiegarli, per lo meno allo scoperto. Una ricognizione vicina condotta con droni leggeri o truppe a terra, in grado possibilmente di svelare le posizioni di armi controcarro si è dimostrata preziosa, così come la verifica degli itinerari con nuclei di specialisti incaricati di individuare mine e altri ordigni improvvisati. Questo oltre a un migliore addestramento degli equipaggi ha permesso all’armata russa di ridurre sensibilmente le perdite. E’ vero che ancora in Ucraina non si è visto nulla o quasi della nuova generazione di mezzi corazzati russi a cominciare dal T-14 e dal T-15 “Armata” o dalla famiglia di mezzi corazzati multiruolo Kurganets-25 come pura dell’APC ruotato Bumerang che dovrebbe sostituire la nutrita famiglia BTR. Tuttavia si tratta di una crisi contingente dettata dalla carenza di componentistica e altri problemi produttivi, non certo dalla rinuncia a sviluppare questi nuovi veicoli da combattimento. C’è infine da sottolineare che finora, in tutta la campagna di Ucraina, quelli che non si sono visti sono stati i corazzati di Kiev, o meglio non si sono registrati significativi scontri tra corazzati, preferendone l’uso in appoggio o rinforzo alle difese urbane o per costituire riserve locali. Il carro armato rimane infatti il miglior mezzo per contrastare il suo simile, ma le pianure ucraine del 2022 non ricordano certo gli scontri tra carri del ’43. In sintesi se la domanda è se il carro è ancora un’arma utile alla guerra moderna la risposta è si, a patto che sia inserito in un sistema di combattimento che lo protegga e che nel contempo gli permetta di esprimere al meglio le proprie capacità di combattimento. D’altra parte basterebbe riflettere su come tutti, ma proprio tutti gli eserciti del mondo, in testa quello statunitense, continuino a investire ingenti risorse nella ricerca, sviluppo e produzione di mezzi corazzati sempre più performanti. Direi che il giorno del tramonto del carro armato è ancora lontano.”. 

Prima della guerra su vasta scala scatenata ilo 24 febbraio scorso la Federazione russa ha dimostrato un efficiente utilizzo della agenzie di contractors in teatri quali la Siria, la Libia e l’Ucraina stessa, arrivando fino in Africa Centrale e Sud America, in particolare in Venezuela coordinandole con le forze regolari ove possibile. Si è dimostrata particolarmente attiva anche nei campi del cyber warfare e delle ingerenze politiche. Con il prolungarsi della guerra in Ucraina la Russia ha sensibilmente modificato la propria strategia e riorganizzato le proprie forze sul campo. Ritiene possibile che “l’aspetto” e le dinamiche di questa guerra potrebbero cambiare ancora? Con il tempo e la riorganizzazione tattica da parte dei russi?
“Per quanto possa sembrare a prima vista banale la guerra è sempre un’attività pratica che si prefigge uno scopo immediato, sperabilmente definitivo in un tempo e uno spazio limitato attraverso l’utilizzo della violenza. Non è quindi un esercizio estetico o una rappresentazione plastica di una dottrina. E’ adattabilità, intuito, capacità di immaginare il futuro. In questo è normale che ogni giorno che passa i due eserciti imparino qualcosa di nuovo l’uno dell’altro e si adattino a minacce sempre mutevoli. Un esempio? Guardate quelle buffe tettoie apparse sui carri russi durante i primi giorni dell’offensiva. A che servivano? Certo non a ripararsi dalla pioggia. Erano un sistema rozzo e non si sa quanto efficace di rispondere ai javelin, i missili controcarri britannici. Che il sistema abbia funzionato non lo so, ma testimonia che ogni soldato impiega poco a percepire quale siano i veri rischi del suo campo di battaglia e ad adeguarsi. Il largo ricorso alle compagnie di contractors, all’ausilio di alleati come quelli ceceni o anche a reparti specializzati del FSB o del GRU, il servizio di sicurezza e  informazione militare testimoniano del fatto che si è tentato così di alleggerire il carico della guerra dalle unità dell’esercito che lamentano ancora una certa crisi di personale e nel contempo dimostrano che in caso di guerra quello russo è un sistema in grado di attingere con facilità a ciascuna delle sue articolate branche. Un altro elemento di rilievo direttamente correlato al tema di preservare finché possibile il capitale umano è il ruolo svolto nella campagna ucraina dalle artiglierie campali e dai missili.
Nel valutare alcune delle dinamiche di questo conflitto è poi opportuno soffermarsi su un aspetto che il più delle volte viene trascurato: quello dell’usura dei combattenti. Ormai da sei mesi si sta combattendo lungo un fronte di circa 800 chilometri con da una parte un esercito di poco più di 200.000 unità e dall’altra uno poco più grande. Mentre da parte russa si assiste ad una certa rotazione e avvicendamento dei reparti, sul fronte ucraino si rilevano sempre le stesse unità. Dopo mesi di guerra il grosso dei veterani si è necessariamente assottigliato sostituito da personale sempre più inesperto. Questo influenza molto la capacità di combattimento dell’unità. Si è infatti portati a concentrarsi sugli aspetti tecnologici o numerici della guerra; sul nuovo cannone piuttosto che sul missile di ultima generazione, trascurando di considerare i profondi legami psicologici e di gruppo su cui si fondano le unità combattenti. Una guerra di usura come quella condotta da Mosca mina proprio questo tipo di legami e influisce sul delicato equilibrio tra veterani e reclute e sulla loro collettiva volontà di combattere. Per passare invece all’aspetto strategico-operativo viene da chiedersi se davvero il dilagare sulla pianura ucraina, oltrepassare il Dnepr e presentarsi a Leopoli avesse davvero rappresentato l’obiettivo iniziale della Federazione russa o più verosimilmente a Mosca si fosse inteso ribadire con la forza una visione geopolitica che- in apparenza – l’occidente è stato restio non solo ad accettare ma anche solo ad ascoltare. Ecco quindi che per occupare il Donbas, tenersi la Crimea e garantirsi un corridoio di terra che li colleghi, l’esercito russo è stato ed è sufficiente, almeno se paragonato al suo antagonista. Dovremo trascinarci questa tattica sul campo fino all’esaurimento? Sono troppe le variabili da considerare per poter dare oggi una risposta anche solo approssimativa. Possiamo però immaginare alcuni scenari e farci qualche domanda. Ad esempio fino a quando l’esercito ucraino sarà in grado di sopportare questo attrito? Qual è il suo punto di rottura? Come reagirebbero la leadership ucraina e quella occidentale al cedimento improvviso dell’esercito? Dall’altra parte cosa impedirebbe a Mosca di proporre un “cessate-il-fuoco”, magari all’inizio della rasputitza, la stagione autunnale delle piogge? Si badi bene, né un armistizio né tantomeno la pace. Solo un “cessate-il-fuoco”. Come reagirebbe il fronte dei paesi occidentali e in testa gli USA alla fine delle ostilità? E gli ucraini? Ecco, per ciascuna di queste e delle altre mille domande che ogni giorno di guerra pongono a chi combatte e a chi dirige la guerra si avrà di certo un adattarsi della tattica, un riarticolarsi della logistica o la ridefinizione degli obiettivi, ma non dimentichiamoci che per ogni soldato, sia esso ucraino o russo, la vittoria è arrivare a sera ancora vivo.”. 

Sin dai primi giorni dell’invasione russa dell’Ucraina si è “urlato” ad un blitzkrieg delle forze russe, atto a terminare rapidamente la guerra con la presa di Kiev e di altre grandi città in pochi giorni. Con il prolungarsi delle guerra suddetto blitzkrieg è stato considerato fallito dagli osservatori internazionali, ma l’intenzione era davvero quella? Tradizionalmente la Russia ha sempre gestito guerre basate sul concetto di “profondità strategica”. Ritiene che i Russi contassero su fattori esterni alle sole operazioni militari? O un mero esperimento, mal riuscito, di applicazione di una nuova dottrina militare?
“Quanto ci piaceva la blitzkrieg, con quel nome così teutonico; perfetto per la televisione. Peccato che né a Mosca, né a Kiev qualcuno abbia mai pensato alla blitzkrieg e neppure evocato il fantasma del Fuller o del generale Guderian. Quella che di certo è fallita è stata la narrazione occidentale di una guerra che stentavamo a capire; per la quale non avevamo strumenti tecnici e culturali per indagarne i meccanismi e, soprattutto perché di fronte ad essa veniva sbugiardata una delle nostre più diffuse illusioni, quella cioè che la guerra nel XXI secolo fosse ormai impossibile. Specie a casa nostra.
Ritenendola impossibile, antiquata, anti-politica non si sono destinate energie e risorse non solo per prepararsi alla sua eventualità, ma neppure per comprenderla. Detto questo e rivolgendosi ai fatti tentiamo di dare una spiegazione a quello che è accaduto, partendo dall’invasione del 24 febbraio. Un’invasione condotta lungo tre direttrici e senza che in nessuna di queste si comprendesse la gravitazione, dove cioè Mosca volesse spendere le sue migliori risorse. Chiediamoci perché. Con ogni probabilità l’obiettivo iniziale non era certo la conquista territoriale quanto dare una spallata violentissima all’establishment ucraino, determinarne la caduta e quindi negoziare. Sappiamo come è andata, ma c’è da osservare anche con quale velocità il comando russo ha modificato il piano iniziale richiamando le forze da Kiev e dal distretto del nord (Sumi, Cherniv, Kharkiv), riorganizzandole, riarmandole e concentrandole quindi su quello che nel frattempo era divenuto l’obiettivo principale: prendersi il Donbas e mettere in sicurezza la Crimea.
Nel frattempo, dopo esserci inventati la blitzkrieg e averla definita fallita, ci siamo detti sicuri che le operazioni si sarebbero concluse per il 9 maggio in modo che Vladymir Putin potesse passare in parata trionfante sulla piazza rossa. Altro sbaglio. Sono certo ne seguiranno altri almeno finché da questa parte d’Europa non smetteremo a voler dettare un copione per una tragedia della quale non siamo autori né protagonisti, ma al limite dei pallidi comprimari.  Non voglio però eludere le altre domande. Se i russi si aspettassero qualcosa di diverso? Credo di si, ma questa è questione che attiene alla capacità dei loro servizi di sicurezza di valutare correttamente la situazione ucraina e anche, credo, di presentarla con onestà al decisore ultimo. Se siamo di fronte al fallimento di una dottrina d’impiego? Credo di non e per due motivi fondamentali. Il primo discende dall’obiettivo strategico che avevo richiamato all’inizio: dare una brusca spallata e far cadere Zelensky prima che USA e NATO si rendessero conto di cosa era successo. Il secondo discende dal fatto che Mosca e Kiev si confrontano sul terreno dal 2014. Ogni posizione è nota, l’intero sistema difensivo ucraino era evidente ai decisori del Cremlino eppure si è deciso di utilizzare la forza minima per “chiudere la partita” nel Donbas, nulla di più. Peraltro un esercito che dal primo giorno mantiene l’iniziativa e progredisce, impedendo all’avversario ogni controffensiva o reazione che non sia barricarsi nelle città, non è definibile come un esercito perdente. 

La già più volte citata guerra in Ucraina ha, per molti, messo in evidenza dei deficit in ogni comparto della macchina bellica della Federazione russa. Tenendo conto che la vicinanza spaziale e temporale degli eventi può distorcere le informazioni in nostro possesso, ritiene possibile che il panorama internazionale inizi a pensare ad una Russia relegata al ruolo di “media potenza” dal punto di vista militare e altamente pericolosa solo in funzione e grazie al vasto arsenale nucleare in suo possesso?
“Nel 2014, a seguito dell’invasione russa della Crimea, era stato l’allora presidente Barack Obama a definire la Federazione russa una “debole potenza regionale” e credo che le radici profonde dell’attuale situazione siano da ricercare proprio in quel pensiero. Certo, la Federazione russa è una realtà geopolitica in difficoltà. Deve far fronte a una severa crisi demografica, ha un’economia che si fonda quasi totalmente sull’esportazione di materie prime, con un livello di democrazia neppure valutabile, scossa da spinte centrifughe da parte di alcune delle sue repubbliche e con vicini per nulla amichevoli alle frontiere. Insomma non se la passa bene, ma è giusto ricordare che tra la realtà e la rappresentazione della realtà c’è differenza e non è detto che un popolo preferisca guardare in faccia la prima piuttosto che la seconda. Qualcuno ha intelligentemente osservato che la Russia o è un impero o non è. Vale a dire che la Russia, nel corso della sua vicenda storica, non è mai stata uno stato nazionale, ma si è costituita come un impero con un proprio retaggio politico, sociale, culturale, identitario, tipico di una realtà imperiale. Si dovrebbe partire da qui per riflettere su cosa vorremo che la Federazione russa diventasse. Con un estensione di 16 milioni di chilometri quadrati, 170 milioni di abitanti che parlano 200 lingue e 20 religioni diverse siamo davvero sicuri che la dissoluzione del gigante russo sia davvero un affare in termini di equilibri geo-politici? In fondo la Russia sa benissimo che per economia e demografia non può competere con USA e Cina, ma rivendica comunque l’essere considerata alla pari. Megalomania? Non solo. La Russia ha bisogno di essere riconosciuta dal resto del mondo come potenza perché in caso contrario potrebbero essere proprio i russi – termine davvero troppo generico – a non riconoscersi l’un l’altro. Non è forse questo che Putin sta dicendo con la contemporanea guerra ucraina? Non è questo il messaggio che ha inviato all’Unione Europea? Per questo desiderio di riconoscimento è anche disposta a sacrificare vite, risorse e parte della propria reale indipendenza. Cos’altro si può infatti intravedere dietro l’attuale riavvicinamento russo alla Cina e all’India se non la disperata ricerca di alleati da opporre all’antagonista di sempre: gli Stati Uniti e si sa bene che certe amicizie si pagano care.
Personalmente trovo assai miope da parte americana spingere Mosca tra le braccia di Pechino nella speranza che i problemi russi rallentino la corsa cinese verso il predominio globale. Sarebbe stato interessante invece provare a esplorare la possibilità se non di un’alleanza per lo meno di una partnership tra Washington e Mosca. Peraltro non era questa l’idea primigenia della Partner for Peace e della rivoluzione nella NATO degli anni ’90? Con ogni evidenza e non senza motivo si è deciso di percorrere un’altra strada sulla cui destinazione personalmente ho qualche dubbio. In fondo cosa voleva Mosca? Che la si riconoscesse per quella che è stata e per quello che tenta disperatamente di essere ancora, sorvolando sul suo difficoltoso presente. Definirla “potenza regionale” è stato come additare ad una bella signora un po’ avanti con gli anni tutte le sue rughe. Non aspettate che vi sorrida.”. 

Una tendenza abbastanza diffusa vede “messo da parte” il ruolo della geografia nei moderni teatri di guerra. L’Ucraina è il più grande paese europeo per estensione e all’inizio dell’invasione russa contava circa venti milioni di abitanti, distribuiti tra grandi città (notoriamente considerate un duro ostacolo per ogni esercito) e vaste campagne costellate di villaggi. Ritiene ancora la geografia un ostacolo importante alle operazioni militari in generale o a prescindere dalla pianificazione. “Il terreno è tanto importante per gli eserciti che per le loro divise ne hanno mutuato i colori. E’ l’ambiente operativo in cui si muovono, combattono, vincono o perdono. E’ il libro dove ogni soldato trova scritto il suo destino. Pensare di metterlo da parte è impossibile. Come già detto per il carro armato anche qui la conoscenza dell’ambiente è vitale. C’è forse bisogno di ricordare che alle Termopili fu Efialte da Eraclea a perdere Leonida e i suoi 300 e perché? Perché conosceva l’unico sentiero che aggirava il passo. Oggi la possibilità di non sapere dell’esistenza di un sentiero per le capre è davvero remota stante la disponibilità dell’esplorazione satellitare e della ricognizione vicina, tuttavia il terreno riserva sempre delle sorprese che in modo più o meno importante condizionano l’andamento delle operazioni. Qualcuno si ricorda del tentativo americano di liberazione degli ostaggi a Teheran? Mandato in fumo da un’improvvisa tempesta di sabbia. Allo stesso modo il ciclo del gelo e del disgelo condiziona in modo rilevante il teatro ucraino, così come le dimensioni dei fiumi, la pendenza delle sponde, le famose balke o le grandi foreste, per non dire delle vaste distese paludose che accompagnano i tratti finali dei fiumi. Pensare di condurre un’operazione a prescindere da questo è insensato.
La pianificazione ma ancor più la fase condotta si adattano al terreno, cercando di sfruttarne i vantaggi e mitigarne le limitazioni, ma ciò che ogni stato maggiore fa, ricevuto un compito, è mettersi di fronte alla carta topografica e studiarsela centimetro dopo centimetro, con pazienza e pedanteria. Sotto questo aspetto il terreno ucraino potrebbe essere considerato un campo “neutro”. Non avendo grandi ostacoli come catene montuose e tratti di mare ed essendo in larga parte pianeggiante favorisce il movimento dei mezzi anche fuori strada anche se, almeno nel periodo autunnale e invernale a causa del fango è necessario rimanere sulle strade. Questo è un vantaggio per chi attacca come per chi difende in quanto consente un alto tasso di manovrabilità delle formazioni. La presenza dei centri abitati, certo non così frequenti o numerosi come in Europa occidentale, favorisce comunque i difensori che proprio su questi hanno fondato la loro rete di caposaldi. Gli spazi tra un paese e l’altro, di solito occupati da boschi o da campi coltivati, sono presidiati da reparti mobili che fungono da raccordo con le difese. Considerando poi che la guerra nell’est del paese è in corso da oltre otto anni, in questo lasso di tempo l’Ucraina ha provveduto a dotarsi di una buona linea difensiva, ancorata al terreno e profonda, una linea che, per intenderci, a tratti ricorda i campi di battaglia della prima guerra mondiale. Geografia, orografia, topografia, meteo sono pilastri imprescindibili per ogni pianificatore militare e dovrebbero far parte, almeno in modo generico del bagaglio culturale di ognuno, visto che “la storia è il modo scelto da Dio per insegnarci la geografia”.”.

Alcune dinamiche considerabili “inedite” della guerra in Ucraina hanno inequivocabilmente messo in difficoltà e rallentato le operazioni russe sul territorio ucraino. Campi di battaglia non fisici quali lo spazio cyber e social (magistralmente gestiti dal Presidente ucraino Zelensky), la “guerra economica” delle sanzioni, gli aiuti militari consistenti da parte del mondo occidentale e le “nuove” tecnologie belliche quali i droni. Tutti fattori che hanno violentemente impattato con quella che è stata reputata una “tradizionale” guerra di conquista da parte dei russi. Ritiene che questi fattori abbiano influito e avuto impatto sì forte sulle operazioni russe poiché già carenti di organizzazione o saranno sfide impegnative per tutti i futuri teatri di guerra e per qualsiasi nazione che o per attacco o per difesa debba ricorrere all’uso delle armi?
“Si tratta di riflettere su cosa sia un fattore risolutivo e cosa sia invece concorrente e talvolta ininfluente. La fascinazione dell’era nuova quella in cui crediamo di vivere, così dominata e influenzata dal cyber spazio, dalla connessione planetaria fa correre il rischio di male valutare il potere e il peso di quello che potremo definire l’hardware. Certo l’opinione pubblica, l’immagine dei leader, la loro capacità di presentarsi come reali decisori hanno la loro importanza ma sperare di vincere una guerra o anche solo modificarla a colpi di Twitter è davvero illusione. Sarà forse che il presidente Zelensky continua a chiedere munizioni, cannoni e mortai e non schede SIM troupe televisive. Non v’è dubbio che la narrativa di un evento ne condiziona la percezione e in qualche modo anche la capacità di azione. Un esempio? Prendiamone uno lontano come l’impegno americano nel Viet Nam. Oggi è opinione comune che fu la percezione americana di combattere una guerra ingiusta e sanguinosa a determinarne la conclusione, ma si dimentica di dire che questo avvenne dopo vent’anni. Molto, ma molto più pericoloso è modulare l’azione in funzione delle sue ripercussioni mediatiche e non delle reali necessità operative. Altro discorso va fatto invece per la così detta guerra economica di certo in grado di produrre effetti di maggior peso. Anche qui c’è però da chiedersi in quanto tempo e soprattutto se si è disposti ad attendere che passi. L’elenco delle sanzioni e dei blocchi è lungo tanto quanto dei loro fallimenti. L’embargo di Cuba durato sessant’anni non ha impedito a Fidel Castro di morire nel suo letto e quello imposto all’Iran non ha ammorbidito gli ayatollah che anzi oggi rivendicano un ruolo di potenza regionale in aperta sfida con l’Arabia Saudita. E che dire delle stesse sanzioni che la Russia subisce dal 2010 e che non le hanno certo impedito di perseguire la propria politica. Sembra quindi che la via della sanzioni abbia innanzi tutto risposto alla necessità di rispondere immediatamente all’aggressione russa e dal momento che di una risposta militare non c’era neppure da parlarne non rimaneva altro che la via delle sanzioni il cui numero e la lui durezza avrebbero dovuto testimoniare del disappunto e della condanna dell’occidente. Perché cito l’occidente e non la sempre evocata comunità internazionale? Perché se si fa eccezione dei paesi occidentali legati alla NATO e agli USA ben pochi altri se la sono sentita di recidere ogni collegamento soprattutto economico con Mosca. Mi riferisco a paesi come Cina, India, Pakistan, Brasile che insieme costituiscono più di un terzo dell’umanità. Questo dato ci porta ancora alla medesima riflessione quella per la quale è evidente che a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e ad un secolo dalla prima l’Europa ancora stenta a non riconoscersi più centro del mondo, arbitro del giusto e dell’errato, ma soprattutto incurante dei punti di vista di gran parte dell’umanità verso la quale facciamo un’enorme fatica ad ammettere che abbiano punti di vista, aspirazioni, desideri, paure e ambizioni completamente diverse dalle nostre e non per questo meno legittime. Rispetto a noi, gli Stati Uniti hanno qualche giustificazione in più. Sono bastati poco più di dieci anni perché il miraggio del “secolo americano” e della globalizzazione a stelle e strisce tramontasse almeno nelle menti più illuminate di Washington, sostituita dalla consapevolezza che la Cina e il Pacifico sarebbero stati presto il ring sul quale disputarsi la primazia sul mondo. Da quel momento in poi gli USA hanno coerentemente adottato una strategia planetaria di contenimento e rallentamento dell’espansione cinese, consapevoli che prima o poi le loro navi grigie avrebbero dovuto confrontarsi con quelle di Pechino per la supremazia sul Pacifico, ma questo è un altro tema. Per tornare all’atteggiamento americano verso la Russia ripropongo che la scelta di renderla sempre più debole e marginale e infine spingerla nel cortile di Pechino rappresenta in sintesi brutale l’idea che governa le azioni e i comportamenti di Washington verso Mosca. Non credo che ci sia da sorprendersi della violenta reazione del Cremlino. Intanto è però toccato all’Europa il compito di occupare la prima linea in questa contesa e il prezzo inizia già a dimostrarsi alto. Appurato che quello russo-ucraino è dunque un conflitto regionale con effetti e scopi globali si può tornare a valutare come la geografia, intesa come terreno abbia influito nella pianificazione e nella condotta delle operazioni. A mio giudizio ben poco, almeno se consideriamo che i russi conoscevano il terreno dello scontro metro per metro e che l’intero apparato terrestre russo è stato pensato, sviluppato e realizzato per combattere su grandi pianure e su terreno morbido dove gli unici ostacoli sono rappresentati dai grandi fiumi la cui ampiezza non consente certo passaggi di slancio. Per questo fin dai tempi sovietici l’esercito ha riservato particolare attenzione alla capacità del genio di realizzare ponti in grado di superare corsi d’acqua al cui confronto il nostro Po è poco più di un torrente. Se dunque sul campo della mobilità la geografia ucraina non ha certo rappresentato una sorpresa una certa influenza la si deve attribuire alle condizioni metereologi che in questa parte del mondo sono in grado di trasformare in breve tempo un’ampia pianura in un insuperabile pantano. Di questo hanno fatto esperienza tutti a iniziare dai Mongoli per arrivare alle divisioni corazzate di Hitler. L’autunno e quindi l’inverno sono perciò fattori che giocano una parte importante in partita e potrebbero rappresentare il primo, vero incentivo a un reale cessate il fuoco. Nel frattempo i russi hanno tirato fuori la loro specialità: l’artiglieria. E’ noto che già nella concezione dottrinale sovietica “l’artiglieria conquista e la fanteria occupa”. E’ bizzarro che mentre noi si cerca di trovare ogni possibile debolezza o difetto in un esercito che con meno di 200.000 da sei mesi sta mantenendo l’iniziativa su un fronte di 800 km, non ci siamo resi conto che fossimo noi europei nelle condizioni degli ucraini avremo avuto molte meno chance di mettere su una resistenza come la loro. Negli ultimi 30 anni in tutta Europa ci si è preoccupati di gestire il dividendo della fine della guerra fredda. Via quindi alle missioni a basso impatto come quelle di peace-keeping, peace-enforcing, stabilisation e via discorrendo. Tutte missioni per le quali un buon mezzo ruotato protetto, qualche elicottero, un po’ di elmetti e di armamento leggero sarebbe bastato a poter affermare con soddisfazione “mission accomplished”. Ecco quindi che la forza corazzata europea si è praticamente dissolta, analoga sorte per l’artiglieria e infine per le capacità warfighting della fanteria. Certo anche in questo si devono operare dei distinguo. Francia e Regno Unito stanno un po’ meglio – che non vuol dire bene – ma che dire delle condizioni di Germania e Italia. Il conflitto in Ucraina ha gettato tutti giù dalle brande interrompendo sogni in cui le crisi nel mondo si sarebbero gestite con pattuglie agli incroci e consegna di pacchi alimentari. Sono arrivate le cannonate, i lanciarazzi multipli, i carri armati, i sistemi controcarro e gli elicotteri d’attacco, quella che con espressione infelice viene definita la “guerra tradizionale”. Abituati come siamo stati a quella light e sugar free sarà bene che ci riabituiamo a considerare un evento bellico in Europa non certo come auspicabile ma di certo come possibile se pure poco probabile. La Germania con il suo piano di riarmo da 100 miliardi sembra averlo capito; la Polonia è corsa a comprare battaglioni e battaglioni di carri americani Abrahams di penultima generazione e tanto per non farsi mancare nulla anche parecchi carri sud-coreani K2 “black panther”. Qui da noi per ora abbiamo deciso di resuscitare il mai compianto carro “Ariete e anche su questo ci sarebbe da aprire una profonda riflessione.”.


Foto copertina: Analisi tattica della guerra in Ucraina