Matrimoni forzati: una storia di violazioni dei diritti umani


Il presunto omicidio di Saman Abbas, la ragazza pakistana 18enne scomparsa ormai da più di un mese e che si sospetta sia stata uccisa dallo zio per aver rifiutato un matrimonio forzato, porta alla luce, o meglio fa riaffiorare alla memoria la portata distruttiva che i matrimoni combinati hanno sulla vita di giovani donne in tutto il mondo.


 

Il vecchio (ma intramontabile) adagio della disparità di genere è possibile incontrarlo un po’ ovunque nell’odierna società, manifestandosi nelle forme più disparate e a volte così sottili da essere difficili da essere riconosciute per ciò che effettivamente sono.

I matrimoni forzati, o “combinati” che a dir si voglia, così come i matrimoni precoci e infantili (in cui una od entrambe le persone sono minori) rappresentano una declinazione consuetudinaria della vita delle persone in moltissimi paesi del mondo. Nihil sub sole novum.

E il caso di Saman Abbas non è altro che una triste prassi che si consuma con prepotenza nel Pakistan così come in India, in Bangladesh come in Somalia. Attraverso diverse flessioni che di fondo condividono la stessa essenza discriminatrice nei confronti delle donne e dell’obbligo di doversi adeguare a decisioni – riguardanti la loro vita in maniera profonda – prese con la totale noncuranza della loro approvazione. Un silenzio assenso a cui non è possibile sottrarsi, ma solo accondiscendere. E che sovente si risolve in situazioni di violenza estrema fino ai casi di omicidi da parte dei familiari per coloro che si rifiutano. Strettamente collegata alla questione è la necessità di voler controllare la sessualità delle donne. Insomma, un modo consueto di fare a pezzi la loro autodeterminazione.                                                                                                   

Il fenomeno sociale si pone innanzitutto come violazione dei diritti umani di giovani donne ed in minor parte giovani uomini, ed in particolare il basso status sociale accordato alla moglie può renderla vittima -e di fatto la rende tale – di isolamento sociale, violenza fisica, sessuale, emotiva ed i rischi collegati ad una gravidanza prematura. La mortalità materna è la prima causa di morte di ragazze tra i 15 ed i 19 anni. D’altro canto, bisogna riconoscere una serie di “drivers” non strettamente riducibili alla questione di genere, o meglio che si inseriscono all’interno di essa: conflitti, migrazioni, mancanza di accesso all’educazione, fattori economici come povertà ed insicurezza alimentare ed un fragile enforcement delle leggi.

La difficoltà di un’analisi statistica effettiva e completa del fenomeno CEFM

La questione interessa in maniera sproporzionata le giovani donne, che così come afferma l’UNICEF hanno una probabilità maggiore dei ragazzi di cinque volte di andare incontro a matrimonio precoce[1]. Il fenomeno CEFM (Child, Early and Forced Marriage) affonda evidentemente le sue radici nella disuguaglianza di genere, povertà e nelle peculiari culture dei diversi paesi coinvolti.

La Convenzione di Istanbul[2] adottata dal Consiglio d’Europa nel 2011 contro la violenza sulle donne prescrive all’Articolo 11 l’obbligo per gli stati firmatari di adeguarsi alla raccolta di dati e combattere l’under reporting[3], al fine di provvedere alla creazione di un background di informazioni solido per la scelta delle politiche da adottare per far fronte al problema in questione. Sappiamo però come il trattato internazionale non sia giuridicamente vincolante. A stretto contatto con la normativa europea, l’Italia ha adottato nel 2015 il Piano d’Azione Straordinario contro la violenza sessuale e di genere di durata biennale, e successivamente si è dotata della Legge 69/2019 anche conosciuta come Codice Rosso, che non sono propriamente create per combattere i matrimoni forzati ma più in generale riguardano la tutela delle donne vittime di violenza, una categorizzazione che quindi abbraccia una più ampia gamma di violazioni.

Nonostante i dati nazionali spesso non siano consistenti abbastanza da permettere la costruzione di statistiche a causa della mancanza di sufficienti sondaggi sulle famiglie e censimenti nazionali, grazie al lavoro di numerose ONG e Agenzie delle Nazioni Unite è possibile avere un quadro più soddisfacente di quanto e dove i matrimoni forzati rappresentino un problema più marcato. Questa carenza di dati viene inoltre acutizzata nel momento in cui si verificano conflitti nel paese in questione.                                                        

I dati disponibili ci danno una stima di 650,000 milioni di giovani ragazze sposate, il 44% nel sud asiatico ed il 18% nella regione dell’Africa sub-sahariana, anche se stando al lavoro della ONG Girls Not Brides è probabile che i tassi CEFM siano sottostimati proprio alla luce della difficoltà nella raccolta dei dati[4]. Il Bangladesh si pone come primo paese col 22% di ragazze sposate sotto i 15 anni, al secondo posto Nigeria e di seguito Mozambico. Similmente, il 59% di giovani donne sposate sotto i 18 anni è in Bangladesh, seguito dal Sudan del Sud e ancora dal Mozambico[5]. Altri paesi con un elevato tasso di matrimoni precoci sono la Somalia, Nigeria, Nepal, Malawi, Etiopia ed India, o come in Kirghizistan  con il fenomeno dell’ Ala kachuu con le donne rapite e costrette a sposarsi .
Il fenomeno è radicato anche in alcuni paesi dell’America Latina e del Medio Oriente. In particolare, il focus sui dati negli Stati Arabi ci mostra come paesi come lo Yemen, l’Afghanistan, Iraq e Siria non siano esenti dalla pratica dei matrimoni forzati e soprattutto precoci, mettendo l’accento al legame tra questi ultimi e la tratta di esseri umani, come mostra ad esempio uno studio che evidenzia ‘matrimoni turistici’ tra ragazze yemenite e uomini adulti di altre regioni del Golfo Arabo[6]. Similmente avviene per giovani rifugiate siriane in Libano, spesso soggette a ‘matrimonio temporaneo’: una sorta di  matrimonio contrattuale a tempo determinato spesso affiancato da un pagamento e che richiede alla moglie di rinunciare ai suoi diritti in cambio del supporto finanziario[7].
Ciò rende ancora più palese la matrice economica del diffondersi di questi matrimoni, essendoci quindi un problema a monte ben più radicato, rappresentato da stati di povertà estrema in cui versano molti paesi.

Il ruolo delle ONG

Girls Not Brides[8] è un network globale con più di 1500 organizzazioni in oltre 100 paesi, la cui missione prima è combattere i matrimoni forzati e precoci così come il fenomeno delle mutilazioni genitali, che in molti casi risultano essere strettamente interrelati. L’organizzazione collabora a livello dei singoli stati nazionali con lo scopo di sviluppare strategie adatte a far fronte alle sopracitate problematiche, porta avanti campagne per il cambiamento sia legale che sociale, e prova a sensibilizzare il pubblico sulla questione. Afferma con forza che il fenomeno dei matrimoni precoci ostacola apertamente l’implementazione di almeno sei dei SDGs (Sustainable Development Goals) dell’Agenda 2030: esacerba l’ineguaglianza di genere, mette a repentaglio la salute psicofisica delle donne, è complice della mancata educazione delle stesse, che per far fronte ai “doveri matrimoniali” lasciano la scuola prestissimo.

Il mancato accesso all’educazione ed opportunità economiche rendono le giovani ragazze (e le loro famiglie) ancora più vulnerabili all’estesa piaga di povertà che nella gran parte dei casi tentano di eludere.

E’ vitale quindi che l’empowerment femminile sia al centro di politiche sociali volte ad accrescere consapevolezza ed a fornire alle ragazze gli strumenti necessari a prendere scelte più libere. Allo stesso modo si rende imprescindibile una forte risposta legale che tenga in considerazione i gap normativi in materia di diritti delle donne e delle bambine.

E’ innanzitutto fondamentale che ogni paese stabilisca un età minima per il matrimonio, salvaguardando legalmente le bambine e i bambini da abusi, sfruttamento e violenza. La problematicità sta nel fatto che diversi paesi adottano diverse legislazioni che spesso si dimostrano lassiste e soggette a interpretazioni più o meno arbitrarie, di conseguenza facilmente raggirabili. Ancora, le disposizioni legali possono prevedere eccezioni come la necessità di autorizzazione dei genitori per il matrimonio oppure norme consuetudinarie o religiose che prendono la precedenza rispetto alla legge nazionale. Una risposta efficace, di conseguenza, dovrebbe tenere in considerazione sia aspetto legale che empowerment, che lungi dall’essere mutualmente esclusive si perfezionano a vicenda.

Un’altra associazione no-profit che si dedica alla sensibilizzazione su matrimoni precoci e forzati è Action on Child, Early and Forced Marriage[9] con sede a Ginevra, che nel quadro dell’ONU lavora a stretto contatto con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, così come partecipa alle sessioni del Consiglio sui Diritti Umani, alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna ed alla Convenzione sui diritti dell’infanzia. L’associazione si adopera per ottenere il coinvolgimento dei governi nel tentativo di sradicare i matrimoni forzati di ogni tipo. Collabora con ONG in diverse paesi del mondo e si impegna in un lavoro di ricerca per eliminare almeno in parte quelle manchevolezze di dati e informazioni attraverso la pubblicazione periodica di report.

Come approcciarsi al problema?

Molte agenzie dell’ONU abbracciano attivamente il problema, tra cui l’UNFPA (United Nations Population Fund), l’UNICEF nella cornice del Global Programme to Accelerate Action to end Child Marriage, l’OHCHR (United Nations High Commissionere for Human Rights), l’UN Women e la WHO.                                                                                             

In primis, indispensabile è il riconoscimento dei matrimoni forzati come una fattuale violazione dei diritti umani e manifestazione di discriminazione di genere. Diffondere consapevolezza tra le giovani donne circa le conseguenze deleterie che matrimoni di questo genere possano produrre è il secondo passo verso un cambio di rotta, attraverso la creazione di network che facilitino lo scambio di informazioni ed il dialogo, e che rendano partecipi le bambine e le donne. E’ fondamentale inoltre che le istituzioni e le organizzazioni coinvolte abbiamo effettivamente un potere di controllo sull’attendibilità delle politiche adottate dai singoli stati, quindi più margine di azione nel caso in cui le risoluzioni in materia si rivelino fallaci. Ciò dovrebbe essere affiancato da misure protettive che garantiscano alle dirette interessate supporto e protezione anche di tipo legale quando vittime di matrimoni non consensuali.[10]

In definitiva, si palesa alla mente il ‘sodalizio’ tra il fenomeno CEFM ed il bisogno di opportunità economiche di base che assicurino alle famiglie ed ai singoli sostentamento, senza dimenticare componenti causali di diversa natura che pure esistono ed inaspriscono il quadro. Così come è evidente che ad essere colpite sono le categorie più vulnerabili: le fasce più povere della popolazione e le donne. Ancora una volta nulla di nuovo sotto il sole.


Note

[1] UNICEF, 2017
[2] https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/750635/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione2-h2_h22
[3] Council of Europe, Guide to good and promising practices aimed at preventing and combating female genital mutilation and forced marriage, 13 Luglio 2017
[4] Jenny Birchall, Child, early and forced marriage in fragile and conflict affected states, 20 Aprile 2020
[5] Ivi
[6] Ivi
[7] Ivi
[8] https://www.girlsnotbrides.org/
[9] http://actiononchildearlyandforcedmarriage.org/
[10] United Nations Human Rights, Office of the High Commissioner, Recommendation for action against child and forced marriages


Foto copertina: Immagine web. La repubblica

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