[dropcap]Nel corso [/dropcap]del Consiglio straordinario tenutosi lo scorso 10 aprile, i capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri hanno concesso al Regno Unito della premier Theresa May un rinvio della Brexit al 31 ottobre 2019, data non casuale che si colloca alla vigilia delle elezioni della Commissione europea.
Nel corso del Consiglio straordinario tenutosi lo scorso 10 aprile, i capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri hanno concesso al Regno Unito della premier Theresa May un rinvio della Brexit al 31 ottobre 2019, data non casuale che si colloca alla vigilia delle elezioni della Commissione europea. Risultato di un faticoso compromesso tra le stringenti posizioni di Emmanuel Macron e la più transigente Angela Merkel.
La c.d. “Brexit di Halloween“[1] apre la strada a numerosi e nuovi scenari, i quali rendono sempre più evidenti le difficoltà dell’esecutivo britannico nel realizzare quella Hard Brexit così fortemente voluta dai Brexiteers più radicali[2]. Con il termine Brexit si fa riferimento alla procedura di recesso attivata dal Regno Unito, ai sensi dell’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Preceduta dal voto referendario non vincolante del 23 giugno 2016, nel quale il 51,89% degli inglesi si è dichiarato favorevole all’uscita, la procedura di recesso ha avuto ufficialmente avvio il 29 marzo 2017 con la notifica formale del Regno Unito al Consiglio europeo. A seguito di una prima fase durante la quale entrambe le parti sono agevolmente addivenute ad una posizione comune su temi prioritari, nel dicembre 2017 è stato dato avvio alla seconda fase dei negoziati nell’ottica di un “orderly withdrawal” voluto da entrambe le sponde de la Manica.
Tale seconda fase, inerente la definizione dei rapporti futuri UE-UK, ha evidenziato le difficoltà del Regno Unito nel conciliare una Hard Brexit (la quale prevede la cessazione della giurisdizione della Corte di Giustizia europea (CGE), l’uscita dal mercato unico ed il controllo pieno sui flussi migratori) con l’emergere di criticità interne (eminentemente la questione del Nord Irlanda). La lunga empasse negoziale è stata interrotta il 12 luglio 2018 con la presentazione del Chequer’s plan da parte della premier Theresa May, la quale ha creato malcontento sia tra la maggioranza di governo britannica (causando le dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson e del ministro per la Brexit Dominic Raab) che a Bruxelles.
A partire da questo momento, il percorso della Brexit è stato piuttosto tortuoso. A seguito di crescenti difficoltà attribuibili alla bocciatura su più fronti del Chequer’s plan, il 15 novembre 2018 i negoziatori del Regno Unito e dell’Unione europea hanno acconsentito alla stesura di una bozza di accordo di recesso, con allegata una dichiarazione politica, da far approvare alle istituzioni parlamentari di entrambe le parti contraenti.
Reputato una condanna ad una parziale sudditanza giuridica del Regno Unito all’UE dai Brexiters più radicali, in più di una occasione il Parlamento britannico ha bocciato i tentativi di Theresa May di far approvare l’accordo, la quale ha, peraltro, affrontato e superato nel gennaio 2019 una mozione di sfiducia delle Camere (con appena 325 voti contrari a 306).
La decisione del Consiglio UE a 27 dello scorso aprile si colloca nel quadro dell’ennesima bocciatura[3] del tentativo di Theresa May di far approvare almeno l’accordo di recesso[4] alle Camere. In uno scenario politico interno caratterizzato dalla frammentazione dei Tories e dal rafforzamento del fronte Labour, il Parlamento britannico ha ribadito la propria contrarietà ad un accordo che lasci il Regno Unito in una sorta di limbo giuridico nei confronti dell’Unione europea, specialmente per quanto riguarda la backstop solution in Nord Irlanda e la definizione delle relazioni future UE-UK.
La bocciatura dello scorso 30 marzo ha, dunque, sancito un’ulteriore stallo nel tortuoso processo della Brexit, la quale avrebbe dovuto compiersi lo scorso 12 aprile a seguito di una proroga[5] precedentemente concessa dal Consiglio europeo. La scelta di rimandare l’uscita definitiva del Regno Unito ben oltre le elezioni parlamentari del maggio 2019 dimostra, da un lato, la volontà degli Stati membri di evitare un’ipotesi di no deal Brexit; dall’altro, la Halloween Brexit amplierebbe il già incerto spettro di scenari possibili.
Una possibile prospettiva, auspicata dalla stessa premier Theresa May, sarebbe il raggiungimento del consenso parlamentare sull’accordo di recesso prima del 22 maggio. La realizzazione di tale ipotesi permetterebbe al Regno Unito di finalizzare il recesso dall’Unione europea prima delle elezioni parlamentari. Suddetto scenario appare, tuttavia, di difficile realizzazione non solo a causa della strenua opposizione del Parlamento britannico, ma anche a causa di una condizione posta dai 27 Stati membri, i quali hanno escluso la possibilità di ritrattare su temi cruciali quali: la backstop solution, il periodo transitorio e la questione finanziaria.
Qualora il consenso parlamentare non venga raggiunto entro il 22 maggio, il Regno Unito si ritroverebbe dinanzi a un bivio: rifiutarsi di partecipare alle elezioni dell’europarlamento, o parteciparvi affrettando, però, i preparativi per il voto.
Nel primo caso, il Regno Unito uscirebbe dall’Unione europea entro il 1 giugno 2019 senza aver concluso un accordo di recesso. Nel caso di partecipazione alle elezioni europee, invece, il Regno Unito avrà la possibilità di eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo, i quali ricoprirebbero suddetta carica da luglio (data di insediamento del Parlamento) ad ottobre (termine ultimo e, fino ad ora, improrogabile della Brexit).
La partecipazione del Regno Unito alle elezioni rappresenterebbe, tuttavia, un paradosso sul piano politico in quanto permetterebbe ad uno Stato che ha manifestato la propria intenzione di lasciare l’Unione, di eleggere in seno ad una delle istituzioni europee suoi rappresentanti. Una simile situazione, inoltre, causerebbe problemi sul piano tecnico e ridefinirebbe gli equilibri tra i gruppi politici nel Parlamento.
In merito ai problemi strettamente tecnici, Bruxelles dovrebbe ricalcolare frettolosamente i numeri[6] dell’Eurocamera dal 2019-2024. Ad ogni modo, l’impatto di una simile modifica sarebbe irrilevante, in quanto il loro seggio verrebbe «congelato» fino all’uscita effettiva del Regno Unito in attesa del subentro ai parlamentari britannici che si sono insediati nel frattempo. Più consistenti sarebbero, invece, gli effetti sull’equilibrio dei gruppi politici parlamentari. Le proiezioni prevedono quale tendenza generale un rafforzamento del fronte euroscettico[7] ed un indebolimento di quello eurofilo[8]. Nonostante la crescita di consensi nei confronti dei Laburisti, i quali porterebbero ad un aumento delle previsioni per i socialdemocratici dal 19% al 21%, il fronte europeista ne risulterebbe indebolito e frammentato a causa del confluire dei Conservatori britannici nel gruppo euroscettico Conservatori e Riformisti Europei (ECR), il quale raggiungerebbe l’11% contro il 9% del 2014[9].
L’ultimo e più preoccupante scenario riguarda, invece, l’eventualità di una no deal Brexit successiva al 31 ottobre 2019. Una simile ipotesi produrrebbe cospicui effetti negativi al Regno Unito sia sul piano della crescita economica che del commercio internazionale. Se l’accordo di recesso concluso da Theresa May ha suscitato resistenze anche a causa delle conseguenze negative sull’economia britannica, un no deal causerebbe una riduzione della crescita fino all’8% in termini di PIL pro capite con conseguente perdita annuale di quasi 3.000 euro per ciascun cittadino britannico[10].
Il motivo di effetti tanto negativi è da ricercarsi, innanzitutto, nel fatto che gli scambi commerciali UE-UK verrebbero regolati dalle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Si tornerebbe dunque ad applicare le norme della “nazione più favorita”[11] , che nel caso britannico significherebbe affrontare dazi bassi, ma non a zero. A questi nuovi dazi si dovrebbero aggiungere quelli con tutti i Paesi che hanno accordi di libero scambio negoziati con l’Unione europea. In caso, infatti, tali accordi cesserebbero di essere applicati sin da subito al Regno Unito fino al raggiungimento di un diverso accordo commerciale tra i Paesi interessati e Londra. Infine, un ulteriore e prolungato rischio riguarderebbe le cosiddette barriere non tariffarie[12]. Suddette barriere causerebbero consistenti problemi soprattutto al settore dei servizi finanziari, i quali costituiscono una voce importante per l’economia britannica. Il flusso di servizi potrebbe, infatti, essere rallentato e ridotto a causa della difformità di norme e regolamentazione tra l’Unione europea ed il Regno Unito[13].
Gli scenari aperti dalla Halloween Brexit sono molteplici ma tutti hanno in comune un elemento: una perdita di vantaggi economici per il Regno Unito. Infatti, nel caso del raggiungimento di un accordo di recesso, il Regno Unito vedrebbe traditi gli ideali di una Hard Brexit promessa sin dal referendum del 23 giugno 2016. Qualora si optasse per una no deal Brexit, gli effetti negativi per Londra in termini economici sarebbero di gran lunga superiori rispetto agli eventuali scarni vantaggi. Qualsiasi sia il risultato di questo faticoso processo, il recesso del Regno Unito dall’Unione europea ha messo in luce non solo una intrinseca debolezza del sistema di Governo britannico, ma anche il vantaggio economico di lungo periodo derivante dalla membership europea.
[dropcap]Note[/dropcap]
[1] www.agi.it/estero/brexit, 15 aprile 2019.
[2] www.ispionline.it/it/pubblicazione/accordo-brexit-terzo-no-da-westminster, 15 aprile 2019.
[3] 344 voti contrari e 286 a favore, www.ispionline.it.
[4] L’accordo di recesso, con allegata una dichiarazione politica sulle relazioni future UE-UK, è stato adottato il 15 novembre 2018 a seguito di un lungo e tortuoso iter negoziale. Suddetto accordo definisce: lo status dei diritti dei cittadini Ue nel Regno Unito e viceversa, l’ammontare del contributo finanziario dovuto dal Regno Unito all’Ue, la fissazione di un periodo transitorio, e la controversa backstop solution per l’Irlanda del Nord.
[5] La Brexit, ai sensi della procedura di recesso prevista dall’art. 50 TUE, avrebbe dovuto concludersi il 29 marzo 2019.
[6] Prima della proroga, la riassegnazione aveva previsto una riduzione dei parlamentari da 751 a 705 ed una redistribuzione dei 73 seggi appartenenti ai rappresentanti britannici ad altri Stati membri.
[7] Gruppi parlamentari euroscettici: Conservatori e Riformisti Europei (ECR), Sinistra Unitaria Europea (GUE), Gruppo Europa delle Libertà e Democrazia Diretta (EFDD), Europa delle Nazioni e delle Libertà (ENF).
[8] Gruppi parlamentari europeisti: Partito Popolare Europeo (EPP), Partito Socialista Europeo (S&D), Liberali e Democratici per l’Europa (ALDE), Verdi.
[9] www.ispionline.it/it/pubblicazione/accordo-brexit-terzo-no-da-westminster, 15 aprile 2019.
[10] Idem.
[11] La Clausola della Nazione più Favorita (CNPF) è, nell’ambito del diritto internazionale, la procedura secondo cui i Paesi contraenti si impegnano ad accordare ai prodotti/beni provenienti da un Paese terzo condizioni doganali e daziarie non meno favorevoli di quelle già stabilite negli accordi commerciali dei Paesi coinvolti.
[12] Si tratta di tutto quel corpus di norme e regole che stabilisce gli standard cui devono conformarsi i prodotti prima di essere immessi in un mercato.
[13] www.ispionline.it/it/pubblicazione/accordo-brexit-terzo-no-da-westminster, 17 aprile 2019.