“Women capturing the world”: Intervista a Danielle Villasana


Documentare il viaggio migratorio di donne trans dall’America Centrale e dal Sud America.


 

Nell’ultima edizione di Opinio Juris- Law and Politics Review[1], abbiamo raccontato la storia di Kataleya Nativi Baca, una donna trans di San Pedro Sula il cui viaggio migratorio è stato documentato nell’edizione di febbraio 2021 del National Geographic[2]. Danielle Villasana[3] è la fotogiornalista che ha documentato il viaggio migratorio di Katalaeya da San Pedro Sula, Honduras, fino a Tijuana, Messico, dove sta ancora aspettando che la sua richiesta d’asilo sia processata. Danielle è una National Geographic Explorer; tra i suoi tanti progetti, è un membro del Community Team di The Everyday Projects s[4], ha co-fondato We,Women[5], ed è parte di collettivi di donne fotografe quali Women Photograph[6] e Ayün Fotógrafas[7], dove l’America Latina ha un ruolo fondamentale. Danielle si è seduta virtualmente con me per parlare del suo ultimo lavoro, di migrazioni, e rappresentazione.

Come sei arrivata a documentare la storia di Kataleya, Alexa, e in generale delle donne trans che migrano dall’America Centrale?

Danielle Villasana è una fotoreporter il cui lavoro di documentario si concentra sui diritti umani, le donne e l’identità. Villasana è stata vincitrice della Magnum Foundation, un’ex allieva dell’Eddie Adams Workshop e una borsista della International Women’s Media Foundation.

È dal 2012 che mi occupo di comunità di donne trans attraverso tutta l’America Latina. Ho anche iniziato un progetto in Texas su famiglie LGBTQIA all’incirca durante lo stesso periodo. È un argomento che tratto da molto tempo, ormai un decennio. Prima ho documentato una comunità in Lima, Perù, per all’incirca tre anni e mi sono concentrata sulle conseguenze del fatto che la transfobia relega donne trans alla prostituzione, quindi cosa succede alle loro vite a seguito di ciò e le sfide potenzialmente mortali con le quali si interfacciano a causa della discriminazione. Riflettendo ulteriormente sulla questione, sono stata attratta dall’America Centrale perché, anche se le donne trans affrontano difficoltà simili ad altre donne della regione, in America Centrale sono più vulnerabili a causa della violenza endemica dovuta alle gang e l’impunità circa gli abusi di polizia, per esempio. Inoltre, dato che in America Centrale l’emigrazione è una parte integrale dell’esistenza, è una soluzione alla quale molte donne trans ricorrono al fine di ottenere vite migliori per loro stesse, un miglior impiego, stabilità, diritti umani. Volevo, quindi, concentrarmi su questo problema più nel dettaglio, e così nel 2016 ho iniziato molto lentamente a fare ricerca. Ero nella regione per incarichi diversi, ma non ho iniziato a fotografare davvero fino al 2018 quando ero in Honduras grazie ad un finanziamento dell’International Women’s Media Foundation. Ho conosciuto Alexa mentre stava lavorando una sera. Le ho dato i miei contatti di riferimento, le ho detto chi fossi e cosa stessi facendo. Alexa è probabilmente la persona che ho documentato più a fondo in Honduras, mentre ho conosciuto Kataleya nel 2018, ma non ho iniziato a fotografarla prima del 2019. In realtà la prima foto che le abbia mai scattato è stata la notte in cui suo fratello l’ha picchiata rompendole la clavicola.

Potresti parlarmi un po’ di “The Everyday Projects”[8] e com’è nato successivamente il reportage per il National Geographic?

Faccio parte di The Everyday Projects dal 2016 come community team member e prima di quello, nel 2014, io e altre tre persone abbiamo co-fondato “Everyday Latin America”, su Instagram. Siamo stati contattati da Jennifer Samuel, che fa parte del consiglio di The Everyday Projects ed è editor fotografico al National Geographic, perché le proponessimo un’idea che avesse al centro le donne, dato che nel 2020 il National Geographic era focalizzata sul pubblicare una maggioranza di storie su donne fatte da donne, per celebrare il centenario della conquista del diritto di voto femminile negli Stati Uniti. Abbiamo proposto un’idea: guardare all’impatto delle migrazioni sulle donne nel mondo. Come community team member di The Everyday Projects , ho preso la guida del progetto e contattato probabilmente venti donne della comunità EP, ed ho chiesto delle proposte chiarendo, ovviamente, che non sapevo se si sarebbe mai realizzato niente. Allo stesso tempo, ho lavorato a stretto contatto con Samuel per scegliere la giusta combinazione di problematiche, regioni e narratrici. Una delle priorità maggiori di The Everyday Projects è quella di sollevare fotografə sottorappresentatə e assicurarci che ci sia un equilibrio tra prospettive interne ed esterne, genere, etnia, inclusività. Quindi ho lavorato con Samuel per assicurarmi che le problematiche scelte, le narratrici, le regioni, fossero un mix equilibrato ed eterogeneo. Allo stesso tempo ho anche richiesto un finanziamento alla National Geographic Society e sono stata abbastanza fortunata da vincerlo. Il progetto include anche iniziative educative di cui ci stiamo occupando ora che la storia è stata pubblicata. La sensibilizzazione educativa è la prossima fase del nostro progetto.

È davvero stimolante poter vedere così tante donne da tutto il mondo coinvolte in progetti così diversi e ascoltare voci di persone che non sentiamo necessariamente spesso…

Si, esatto. Sono molto orgogliosa di questo aspetto del nostro progetto, e del fatto che, delle otto donne selezionate, sei hanno coperto problematiche legate alle loro comunità e, per quanto riguarda me e Nicole [Sobecki, n.d.a.], ci siamo potute concentrare su temi a cui ci dedichiamo da anni. Se non mi sbaglio, sei delle otto sono donne di colore[9], e sono stata molto contenta di questo.

Sei parte di molti progetti che hanno al centro donne o persone non binarie, come We, Women, Ayün Fotografas e Women Photograph. In che modo la tua identità influenza il tuo lavoro, se lo fa?

Lo fa sicuramente. Come donna di colore[10] e come persona che ha passato più di un decennio focalizzata su problemi che sono spesso stereotipati nei media, credo molto fermamente nel colmare le lacune nei media mainstream su temi come la diversità e l’inclusività. Come tutti sappiamo, i media principali sono stati storicamente dominati da un gruppo omogeneo di narratori, il che è limitante. Quando guardiamo il mondo con una prospettiva limitata vediamo il mondo solo attraverso quella prospettiva. Credo che un modo importante di diversificare i media sia, ovviamente, diversificare le voci narranti. Di nuovo: come donna io stessa, sono attratta da problemi legati alle donne che abbracciano e si intersecano con tantissime altre problematiche. Avendo scelto il fotogiornalismo come strumento per creare un impatto positivo (si spera!), tendo a concentrarmi su luoghi e comunità dove penso che questo impatto potrà avere più peso. Certamente ha a che fare con la mia identità. Tuttavia, anche al giorno d’oggi in cui ne discutiamo più apertamente, certi problemi rimangono tali. Voglio fare tutto ciò che è in mio potere per continuare ad aiutare il mio settore a progredire verso un punto in cui dovrebbe già essere.

Parlando di responsabilità: abbiamo un enorme obbligo morale circa la perpetrazione di una certa narrativa riguardo le migrazioni e tematiche LGBTQI+. Come pensi che dovremmo cambiare la terminologia usata e la rappresentazione nei media mainstream?

La mia prospettiva come fotografa, che racconta storie attraverso le immagini, è che c’è qualcosa di molto potente nel fotografare il quotidiano, o i momenti tranquilli che spesso non sono abbastanza sensazionalistici per i media. Certamente questo non significa che ignoro o evito i problemi che le persone si trovano ad affrontare. Non voglio ignorare che ci sono ingiustizie in termini di diritti umani e che le persone davvero affrontano situazioni potenzialmente mortali, ma penso che bilanciare questo con immagini di vita quotidiana, immagini di gioia, di comunità, di famiglia, è quello che aiuta i lettori o gli spettatori a relazionarsi. Offre una connessione quando qualcuno che legge un giornale a New York City, che magari ha un lavoro a tempo pieno, può sentirsi nella foto di un gruppo di donne sdraiate su un letto a chiacchierare. Tutti possono identificarsi in quel momento. Se possiamo aiutare lo spettatore a relazionarsi con altri che attraversano sfide estreme, che probabilmente non dovrà mai attraversare in prima persona, lo aiuteremo a sentirsi più coinvolto o più arrabbiato. Penso che fare sensazionalismo sui problemi o sugli altri renda molto più facile al lettore o allo spettatore dire: “Non c’è niente che posso fare! È troppo lontano da ciò che sono, da dove sono e dalla mia abilità di fare qualsiasi cosa, oh ‘poverini’!” È facile liquidare la cosa.
Per quel che riguarda la terminologia, c’è molto linguaggio arcaico che ancora viene usato. Per esempio, ho visto moduli per l’immigrazione riferirsi ai migranti come “alieni”. Questo linguaggio può essere molto straniante. 

Ho pensato a questa domanda perché l’altro giorno stavo dando ripetizioni a un ragazzo che ha passato un anno in Australia con la sua famiglia. Mentre parlavamo ho usato il termine “immigrazione” e lui mi ha guardato stranito e mi ha detto “noi non siamo emigrati! Non stavamo mica scappando da una guerra!” Questo mi ha molto fatto pensare a come parliamo delle migrazioni e come rappresentiamo questo tema…

Si, esattamente. A seconda della tua etnia, della tua classe, di quanto la tua situazione economica sia privilegiata, e ad altri fattori, quando ti “trasferisci” in un altro paese non sei considerato un migrante ma un “expat”.  Quindi la lingua, ovviamente, può anche essere molto classista.

Qual è il processo per convincere una persona a partecipare a un progetto, specialmente uno come questo dove la propria vita viene molto esposta?

Prima di tutto viene la fiducia. Non è qualcosa che si ottiene facilmente ma bisogna lavorarci costantemente. Gli elementi per costruire la fiducia sono la trasparenza e la comunicazione, quindi sono sempre molto schietta su chi sono, cosa sto facendo, quali sono le mie intenzioni, e dove potenzialmente queste immagini potrebbero finire. Ho delle conversazioni molto impegnative con le persone dove spiego per bene come funziona il giornalismo, ed esattamente cosa implichi dare il consenso. Spiego bene l’intero range di possibilità di quello che potrebbe succedere fornendo esempi. In più, passo molto tempo con le persone e le comunità, specialmente con il lavoro che ho fatto a Lima. Per esempio, a un certo punto ho vissuto nello stesso quartiere delle donne che stavo fotografando, passando del tempo con loro a volte anche senza la macchina fotografica. È molto importante capire quando è il momento di abbassare la macchina e semplicemente condividere il momento. È importante avere quella linea di comunicazione sempre aperta e garantire loro che non debbano per forza dire di sì. Ci sono state situazioni in cui, mentre fotografavo gruppi di donne dove una o due non volevano essere ritratte, mi sono assicurata di non includerle.  O magari una donna inizialmente accetta poi ci ripensa e dice di no, anche questo va assolutamente bene. Con comunità che sono state consistentemente deluse dalla società, è difficile creare una relazione di fiducia, quindi so che devo essere paziente. Alla fine è la loro tempistica, non la mia, che conta.

C’è un processo per cui scegli cosa tenere e cosa non far vedere? Oppure il soggetto può influenzare il processo di editing?

Come fotografa cerco di documentare tutto quello che riesco, la selezione avviene in un secondo momento. Cerco sempre di avere in mente il contesto: dove pubblicherò? Questa foto verrà pubblicata da sola o con altre? Questo è molto importante perché, ancora, non voglio ignorare verità, o realtà che le persone vivono, ma non voglio solo mostrare una parte che può essere sensazionalizzata. Inoltre, come persona che invia il proprio lavoro per finanziamenti e contests, mi chiedo sempre: “se dovessi vincere, mi sentirei a mio agio se l’organizzazione dovesse mostrare, per esempio, solo questa foto?”
Per quel che riguarda il processo di editing mi sono seduta con Alexa e le donne che ho fotografato a San Pedro Sula. Ho stampato centinaia di foto e ci siamo tutte messe a guardarle, e Alexa le ha amate – è l’unica che le ha esaminate tutte, dandomi la sua opinione. In realtà, non tutte le persone che fotografo si interessano così tanto, ad altre invece importa molto. Alexa e Kataleya, per esempio, sono due persone a cui importa molto di quello che faccio, quindi sono in costante conversazione con loro riguardo le loro storie. Prima che la storia di Kataleya fosse pubblicata sulla pagina Instagram del National Geographic, abbiamo guardato insieme il video e le ho sottolineato, per quella che probabilmente era la millesima volta, che il loro account ha 140 milioni di followers. E’ importante continuare a chiedere il consenso, quando possibile.  

Tu hai percorso parte del viaggio migratorio con Kataleya e Alexa, giusto?

Sì. Non ero con Kataleya per l’intero viaggio ma l’ho fotografata da San Pedro Sula a Tapachula, al confine meridionale con il Messico, in Guatemala. Poi, quando ha lasciato Tapachula per andare a Tijuana, ho documentato anche quella parte del viaggio.

Sull’autobus! La descrizione dell’autobus che avete preso da Tapachula a Tijuana è davvero intensa…

Sì, quelli sono stati tre giorni “divertenti”. Però Kataleya fa molto ridere, mi ha detto: “La prossima volta prendo l’aereo”. Poi sono tornata l’anno scorso per fotografare quello che Kataleya sta continuando ad affrontare, ed inoltre per fotografare la prima tappa del terzo tentativo migratorio di Alexa, mentre viveva temporaneamente a Tapachula.

 Grazie a Donald Trump sono state fatte nuove politiche riguardo l’immigrazione, nello specifico la famigerata “Remain in Mexico” policy, e di conseguenza persone come Kataleya devono aspettare in Messico per avere la loro richiesta d’asilo processata invece che aspettare dentro i confini degli Stati Uniti. Quali sono i pericoli che le persone, specialmente donne trans, devono affrontare quando viene loro chiesto di “rimanere in Messico”?

La “remain in Mexico” policy sia una fonte di grande instabilità per tutti i migranti perché presuppone che le persone abbiano le risorse per aspettare. Il più delle volte, le persone che emigrano non riescono a trovare lavoro dove viene loro chiesto di fermarsi. Quando uno è negli Stati Uniti e ha uno sponsor, aspettare la green card è completamente diverso da essere lasciati a sopravvivere in un paese che non è neanche la tua destinazione finale. Questo mette le persone in situazioni molto difficili. Per qualcuno che già ha molte difficoltà ad assicurarsi opportunità di lavoro a causa della transfobia, rende il tutto ancora più difficile. Per donne come Kataleya, che in realtà non ha mai praticato la prostituzione, è molto difficile trovare un lavoro sicuro e stabile. Infatti non è stata in grado di trovare lavoro in Messico. Oltre alla transfobia, sta affrontando anche la xenofobia, e questa combinazione rende praticamente impossibile trovare impiego. Ha vissuto in molti dei rifugi di Tijuana e ha trovato dei problemi in ogni singolo posto: è stata rapinata in uno, picchiata in un altro. I rifugi sono fatti per essere temporanei, non permanenti. Senza contare che ai migranti che viaggiano in Messico viene dato solo un certo periodo di tempo prima di dover fare la richiesta di asilo, e il Messico per molte persone non è molto più sicuro  dei paesi che hanno appena lasciato. Nel caso di Kataleya: lei ha subito violenza e ha temuto per la sua vita. Potrebbe essere lievemente più sopportabile se fosse per uno o due mesi, è difficile ma puoi vedere una fine. Con la “remain in Mexico” policy, e ora con i confini ancora chiusi, è praticamente impossibile. Anche per qualcuno come Kataleya, che è una delle persone più forti che conosca. Questa situazione l’ha quasi spezzata, lei che è sempre stata ottimista ed è sempre stata in grado di vedere il lato positivo in ogni situazione. Queste policies che l’amministrazione Trump ha approvato sono state fatte intenzionalmente per scoraggiare le persone dall’emigrare e per incoraggiarle a rimanere nel proprio paese di origine dove possono potenzialmente essere maltrattate o uccise.

I paesi dell’America Latina e dell’America Centrale sembrano avere un approccio abbastanza contraddittorio ai diritti LGBTQI+. L’Argentina ha passato una delle leggi più avanzate in termini di diritti trans, mentre paesi come l’Honduras, El Salvador, Nicaragua e altri sono ancora molto indietro. Dalla tua esperienza di vita nel cono Sudamericano e dai reportage che hai fatto sul passaggio della “Identity law” con il progetto “volver a nacer”, com’è la relazione tra la comunità LGBTQI+ e il resto della popolazione

Penso che tu abbia spiegato bene la contraddizione che c’è in America Latina: da un lato l’esistenza di leggi che garantiscono i diritti per persone LGBTQIA, dall’altro il modo in cui sono trattate socialmente. Per esempio il Brasile è il primo paese per numero di omicidi di persone trans. Poi in Messico, dove i matrimoni di coppie dello stesso sesso sono legali in molti stati, persone LGBTQIA sono uccise e affrontano discriminazioni costanti. La mia teoria -o magari l’ho assorbita facendo ricerca- è che più una comunità che è marginalizzata, sottorappresentata, stigmatizzata, è resa visibile dall’acquisizione di diritti e protezione dalla legge, più ci sono pushback da alcune parti della società; non tutte, ho conosciuto molte persone che sono estremamente inclusive rispetto alle comunità LGBTQIA, ma ci sono ancora parti della società che sono molto transfobiche e omofobe a causa di una visione conservatrice e religiosa. L’America Latina è complessa e stratificata, tuttavia, la visibilità di certe comunità sembra esporle a un processo di “due passi avanti, un passo indietro”. L’America Latina guida il mondo in termini di omicidi di persone trans. Ma, mi chiedo, avendo fotografato comunità LGBTQIA in contesti un po’ meno esposti, tipo in India e in Africa orientale: questa statistica è così alta perché le persone LGBTQIA sono più visibili in America Latina? Si spera che con il tempo questo processo “due passi avanti, un passo indietro” arriverà a un guadagno netto complessivo di diritti umani per loro.

Come stanno ora Alexa e Kataleya?

Alexa sta bene, ci siamo scambiate messaggi recentemente perché era in viaggio. Ha finalmente lasciato Tuxtla Gutiérrez in Chiapas, nel Messico meridionale, per andare verso Città del Messico. A differenza di Kataleya, Alexa sta viaggiando senza documenti attraverso il Messico. Questo ovviamente la sta mettendo in una situazione di grande vulnerabilità, ma la cosa buona è che accompagnata dal suo ragazzo, quindi non è sola. Ha finalmente raggiunto Città del Messico, il che è buono perché mentre stava viaggiando e ci sentivamo mi mandava video di lei nel mezzo del nulla, completamente al buio con solo un piccolo fuoco acceso, e mi diceva che stavano aggredendo le persone su “la bestia[11]. Ma ce l’ha fatta, e da Città del Messico c’è solo un ultimo pezzo prima del confine con gli Stati Uniti. Alexa è davvero una guerriera, non si arrende davanti a niente ed è molto sicura di sé, la sua energia ti cattura. Sia lei che Kataleya sono persone straordinarie.
Kataleya, invece, sta ancora aspettando, non c’è una risposta, neanche un barlume di quello che potrebbe succederle. Il pensiero che debba aspettare un altro anno a Tijuana mi fa sentire male, e se io mi sento così non riesco neanche a immaginare come lei possa sopportare tutto quello che ha dovuto sopportare.


Note 

[1]  Landi, M. “Gendering the pandemic: storie di vita trans tra America latina e confini”, Opinio Juris- Law and Politics Review, 3 marzo 2021, https://www.opiniojuris.it/gendering-the-pandemic-storie-di-vita-trans-tra-america-latina-e-confini/
[2] National Geographic, The Everyday Projects , “Meet some of the millions of women who emigrated recently, risking everything”, National Geographic, 14 febbraio 2021, https://www.nationalgeographic.com/magazine/article/meet-some-of-the-millions-of-women-who-migrated-recently-risking-everything-feature
[3] Danielle Villasana è una fotoreporter il cui lavoro di documentario si concentra sui diritti umani, le donne e l’identità. Villasana crede fortemente nell’abbinamento tra fotografia, istruzione e sviluppo della comunità. È membro del Community Team di The Everyday Projects  e membro del consiglio di Authority Collective .
[4] The Everyday Projects, https://www.everydayprojects.org/
[5] We, Women, https://www.wewomenphoto.com/
[6] Women Photograph, https://www.womenphotograph.com/
[7] Ayün Fotógrafas, https://www.instagram.com/ayunfotografas/?hl=en
[8] La domanda originaria leggeva “The EverydayEverywhere Project”, che è in realtà il nome della pagina Instagram ma non del progetto che si chiama “The Everyday Projects ”. Un “problema di branding” come l’ha descritto Danielle, e causa di forte imbarazzo per me, la fact checker che non ha verificato abbastanza.
[9] In Inglese Americano l’espressione “people of colour”, usata nell’intervista, è primariamente usata per descrivere tutte le persone non considerate bianche; ciò include Afroamericani, Asioamericani, Latino Americani, Nativi Americani ed altri.
[10] Vedi sopra.
[11] Conosciuto anche come “El tren de la muerte” o “El tren de los desconocidos” è una rete di treni merci usati da migranti per attraversare il Messico e raggiungere il confine con gli Stati Uniti. https://www.opiniojuris.it/el-tren-de-la-muerte-il-lungo-viaggio-dei-migranti-attraverso-il-messico/


Foto copertina: Kataleya Nativi Baca si aggiusta il trucco mentre aspetta fuori da una ONG in Tapachula, Messico. E’ la sua prima fermata in Messico durante il suo viaggio migratorio dal suo paese d’origine, l’Honduras, verso il confine tra gli Stati Uniti e il Messico dove spera di poter fare richiesta di asilo. Kataleya è scappata dall’Honduras poco dopo il pestaggio da parte di suo fratello che le ha rotto la clavicola, evento che si è aggiunto alle continue discriminazioni e minacce che ha dovuto subire per anni sia dalla sua famiglia che dalla società in generale.

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