Lotta al Covid-19 e limitazione dei diritti fondamentali dell’individuo


Osservazioni di carattere costituzionale e penale relative ai decreti legge 23 febbraio, n. 6 e 25 marzo, n. 19.


La tragica emergenza dettata dall’espansione del contagio COVID-19 ha avuto un enorme impatto sulle abitudini sociali e sul complesso dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo. Le misure di contenimento previste per limitare il contagio da Coronavirus, adottate nell’ottica di tutelare il bene fondamentale della salute, hanno prodotto come conseguenza inevitabile, diretta e immediata la compressione di libertà fondamentali previste dalla Costituzione. Principale oggetto di compressione sono state le libertà di cui agli artt. 16 Cost. e 17 Cost., oltre a quelle legate al diritto di professare liberamente la propria fede religiosa e di impresa.
Come si evince dalla Carta fondamentale tali libertà fondamentali possono essere essere limitate solo con legge e, principalmente, per motivi di sanità o di sicurezza. E’ bene, fin da subito, chiarire che la tenuta dell’ossatura giuridico-costituzionale italiana è stata messa a dura prova dalla progressione della emergenza legata al contagio da COVID-19.
Invero, si deve dare atto che gli strumenti giuridici predisposti dalla Carta fondamentale e dalle leggi non si sono rivelati compiutamente idonei a fronteggiare una situazione che si è contraddistinta per la evoluzione repentina e incontrollata. Le difficoltà di fronteggiare l’epidemia, inoltre, sono da collocare nel rinnovato contesto dei rapporti giuridico-istituzionali, inaugurato con la riforma del Titolo V del 2001.
Gli organo di governo, sia statale sia locale, dunque, si sono dovuti confrontare con degli strumenti giuridici che si collocano nelle “zone grigie” del diritto.
E’ anche alla luce di tali criticità che si devono analizzare dei principali provvedimenti emanati dal Governo al fine di combattere la diffusione del contagio da COVID-19.
Lo strumento ex lege che l’Esecutivo ha utilizzato come base legale delle limitazioni dei diritti fondamentali è stato il decreto legge. Quest’ultimo, infatti, è un provvedimento avente forza di legge ai sensi dell’art. 77 comma 2 Cost., che può essere adottato in “casi straordinari di necessità e di urgenza”[1].
In virtù della natura straordinaria del decreto legge, la Costituzione impone di recuperare il controllo democratico-parlamentare ex post. E’ per tale ragione che il Parlamento è chiamato a convertire in legge il provvedimento emanato dall’Esecutivo entro il termine massimo di sessanta giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, pena la caducazione ex tunc dell’efficacia.
Al fine di dare concreta attuazione alle misure contenute nel decreto legge, il Governo ha, poi, scelto di utilizzare il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Tale strumento, adottato alla stregua della disciplina contenuta nella legge  23 agosto 1988, n. 400, è stato ritenuto il più efficace ed elastico al fine di una corretta attuazione delle misure previste dal decreto legge.
Ciò premesso, il Governo ha combattuto la diffusione del Coronavirus facendo principalmente riferimento alla tecnica di contenimento del contagio denominata “distanziamento sociale”, che è stata concretamente messa in campo attraverso gli strumenti giuridici richiamati.
Si segnalano, in particolare, due decreti legge emanati dall’Esecutivo, rispettivamente, in data 23 febbraio e 25 marzo, che impongono rilevanti riflessioni, sia di natura costituzionale che penale.
Il primo decreto, n. 6/2020, convertito con modificazioni in legge 5 marzo 2020 n.  13, è intitolato “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”. In attuazione delle misure previste da tale decreto legge, da un lato, il Governo ha emanato una serie di d.P.C.M. e, dall’altro, i Presidenti delle Regioni hanno provveduto ad adottare ordinanze contingibili e urgenti ex art. 32 comma 3 della legge 23 dicembre 1978, n. 833[2]. Tali interventi sono stati effettuati per fronteggiare le varie fasi della escalation del contagio da Coronavirus.
Tuttavia, il quadro normativo delineato dal decreto legge n. 6/2020 desta numerosi dubbi, sia di natura costituzionale che penale.
Il primo problema che si è posto è quello della individuazione delle misure di contenimento del contagio, che il decreto disciplina agli artt. 1 e 2. In particolare, il comma 1 dell’art. 1 attribuisce alle autorità competenti il potere-dovere di “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, mentre il successivo comma 2 contiene un elenco delle misure di contenimento. L’art. 2, invece, prevede il potere per le autorità competenti di “adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza…anche fuori dai casi di cui all’articolo 1 comma 1”.
A ben vedere, i primi due articoli non sembrano compatibili con il principio di legalità, sub species dei principi di tassatività e di determinatezza delle misure.
Nello specifico, l’art. 1 comma 1 consente alle autorità competenti di adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, mentre il successivo comma prevede che, tra quelle del comma 1, possono essere adottate “anche” quelle previste dall’elencazione prevista dallo stesso comma 2. La formulazione di tali due commi desta perplessità in quanto, pur apprezzandosi la volontà del legislatore di predeterminare le misure di contenimento attraverso l’elencazione di cui al comma 2, non si comprende il rinvio che tale disposizione fa al comma 1. La lettura in combinato disposto dei due commi dell’art. 1, infatti, dà luogo a una interpretazione per cui le autorità sono legittimate ad adottare “tutte le misure ritenute adeguate e proporzionate e, tra queste, anche quelle di cui all’elenco previsto dal comma 2”. L’elencazione del secondo comma, in questo senso, sembra degradare a mera indicazione non vincolante, né tassativa.
Il meccanismo in parola introduce, di fatto, introdurre un potere in bianco per l’autorità, che pur dovendosi ispirare ai principi della adeguatezza e della proporzionalità, non è delineato né nei presupposti, né nei limiti.
Le criticità, peraltro, aumentano con riferimento all’art. 2, che consente alle autorità competenti di “adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma 1”. Anche in questo caso il richiamo al comma 1 sembra essere fuorviante, destando di fatto difficoltà analoghe a quelle prima analizzate.
Come detto in precedenza, la interpretazione prospettata non può essere avallata, stante la necessità di una chiara, determinata e tassativa predeterminazione ex lege delle misure limitative delle libertà fondamentali.
Un secondo e correlato problema è posto dall’art. 3 comma 4 del decreto, il quale prevede che “salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 codice penale”.
La contravvenzione richiamata è considerata il leading case in tema di cc.dd. norme penali in bianco, categoria da sempre contestata per via del difficile rapporto con il principio costituzionale della riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2 Cost[3].
Invero, il meccanismo alla base della norma penale in bianco è tale per cui alla legge è attribuito il compito di individuare in termini generali il precetto e di prevedere la sanzione, mentre spetta al provvedimento sub-legislativo la indicazione dei concreti comportamenti che assumono rilievo tra quelli generalmente indicati ex lege.
Ebbene, come di recente affermato dalla Corte di Cassazione[4], non può rilevare ai fini della fattispecie ex art. 650 c.p. “una disposizione data in via preventiva ad una generalità di soggetti e con carattere regolamentare”, occorrendo necessariamente un ulteriore e particolare provvedimento dal contenuto effettivamente precettivo per il singolo individuo.
I rilievi appena visti sembrano, dunque, dover essere riproposti con riguardo alla normativa in esame, stante la genericità delle prescrizioni.
Tutto ciò sembra configurare, a ben vedere, un rilevante vulnus rispetto al principio di legalità previsto dall’art. 25 comma 2 Cost.
Un ulteriore problema posto dal decreto legge deve essere analizzato alla luce dei due principali d. P.C.M. emanati, rispettivamente, in data 8 e 9 marzo 2020.
Nello specifico, il d.P.C.M. 8 marzo 2020 ha previsto l’adozione di una serie di misure volte a contenere il contagio nelle cc.dd. “zone rosse”, inizialmente individuate in una serie di località specificamente predeterminate.
Con il d.P.C.M. del giorno successivo, l’Esecutivo ha esteso le misure individuate dal provvedimento normativo 8 marzo 2020 a tutta l’Italia, ciò al fine di contrastare il dilagare della epidemia, ormai di rilevanza nazionale.
Ebbene, l’estensione applicativa in parola suscita grandi dubbi. Il decreto legge 6/2020, infatti, expressis verbis si riferisce ai “comuni o… aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso riconducibile ad una persona proveniente da un’area dià interessata dal contagio del menzionato virus..”.
E’ solo in relazione a tali località, dunque, che il Governo ha adottato un atto avente forza di legge teso a legittimare le limitazioni delle libertà fondamentali degli individui. Alla luce di tale perimetrazione, il decreto legge non sembra poter assolvere compiutamente il ruolo di base ex lege per le misure adottate con il d.P.C.M. 9 marzo 2020.
Anche in questo caso, la possibilità di incriminare una condotta in forza di un reato privo di idonea base legale sembra essere impossibile, stante la lesione del principio della riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2 Cost. In questo difficile e tormentato contesto giuridico-sociale si è inserito il successivo decreto legge 25 marzo 2020, n. 19.
Facendosi carico delle difficoltà viste, il provvedimento legislativo ha, da un lato, operato una riorganizzazione della disciplina di contrasto alla diffusione del virus e, dall’altro, ha introdotto, tra le altre novità, una sanzione amministrativa ad hoc in luogo della incriminazione ex art. 650 c.p.
L’art. 5 del decreto n. 19/2020 ha previsto la abrogazione del “decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, ad eccezione degli articoli 3 comma 6-bis e 4”, palesando l’intenzione di delineare e riorganizzare presupposti, tipologie, poteri e limiti delle misure di contenimento.
In questo senso, l’art. 1 comma 1, da un lato, prescrive l’utilizzabilità di “una o più misure tra quelle di cui al comma 2” e, dall’altro, ne individua la disciplina. Nello specifico, l’adozione di tali misure è consentita “per periodi determinati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020”. Il limite temporale ultimo è quello previsto dalla delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 che ha dichiarato lo “Stato di emergenza”.
Anche il comma 2 risulta beneficiare dell’apprezzabile sforzo del legislatore volto a superare la indeterminatezza delle misure previste dagli artt. 1 e 2 del d.l. n. 6/2020. Quest’ultimo contiene, infatti, la elencazione delle misure di contenimento utilizzabili, in modo da evitare il ricorso a clausole aperte, vaghe ed ambigue.
Un apposito articolo è, poi, dedicato alla attuazione delle misure di contenimento.
L’art. 2 prevede che queste ultime debbano essere adottate con uno o più d.P.C.M., su proposta del Ministero della Salute, sentiti gli altri ministri e i presidenti delle regioni interessate, ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome.

Il comma 3 dell’art. 2, invece, è volto a regolare gli effetti nel frattempo realizzati  e , per tale ragione, fa “salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6..”.

Ciò detto, le novità di maggior rilievo sono quelle contenute nell’articolo 4. La disposizione, intitolata “sanzioni e controlli”, statuisce che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1 comma 2….è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale…”.
Il legislatore introduce così una nuova sanzione amministrativa, che va a sostituire il riferimento all’art. 650 c.p. Siffatta sanzione è assoggettata alla disciplina prevista di cui alla legge 24 novembre 1981 n. 689 e, ai sensi dell’art. 4 comma 3 del d.l. 19/2020, è irrogata dal Prefetto in caso di violazione delle misure di cui all’art. 2 comma 1.
L’ultimo inciso dell’art. 4 comma 1 prevede, infine, che “se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo”. In questi casi, dunque, è prevista una apposita circostanza aggravante volta a inasprire il trattamento sanzionatorio da irrogare.

Il riferimento alla sanzione amministrativa ha, a ben vedere, molteplici rationes.
Le principali, sono quelle di rendere più celere ed efficace la punizione dei soggetti che hanno violato le misure di contenimento, evitando, allo stesso tempo, di ingolfare il sistema della giustizia penale con i procedimenti ex art. 650 c.p. D’altronde, è cronaca di questi giorni che il numero di denunce elevate dalle Forze dell’ordine durante la vigenza del d.l. n. 6/2020 ha superato di slancio la quota di 100.000. Il reato di cui all’art. 650 c.p. in combinato disposto con le misure di cui al d.l. n. 6/2020 deve, dunque, ritenersi abrogato.
In questo senso, l’art. 4 comma 8 sottolinea il regime intertemporale da osservare con riferimento alle condotte poste in essere durante la vigenza del precedente decreto legge n. 6/2020. La norma, infatti, espressamente afferma che “le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta della metà”.

A ben vedere, il legislatore, prendendo atto della difficoltà di graduare la sanzione precedentemente prevista, ha ritenuto che la nuova sanzione amministrativa da sostituire debba essere applicata nella misura minima, ridotta della metà.  

Attraverso tale indicazione, il decreto ha inteso evitare la configurazione di sanzioni amministrative più afflittive di quelle penali, anche alla luce dei criteri dettati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale[5]. Resta, tuttavia, qualche dubbio in relazione alla concreta afflittività della sanzione relativamente a soggetti recidivi.

E’, inoltre, prevista, nei limiti della compatibilità, l’applicazione delle norme di cui  agli artt. 101 e 102 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 in tema di procedimento applicabile.

I riflessi in melius per il soggetto che abbia le misure di contenimento sono rintracciabili anche in relazione alle ulteriori conseguenze che la incriminazione ex art. 650 c.p. avrebbe comportato. Tra le altre, la condanna per tale reato, infatti, rende possibile la iscrizione nel casellario giudiziale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 lettera a) del d.P.R. 14 novembre 2002 n. 313 e 175 c.p. e 533 comma 3 c.p.p.

La ratio legis alla base della nuova sanzione amministrativa, dunque, è rendere più agevole, efficace e celere la punizione delle condotte capaci di compromettere l’obiettivo del contenimento del contagio da COVID-19. Ultima, rilevante, novità introdotta dal decreto legge n. 19/2020 è contenuta nellart. 4 comma 6. Quest’ultimo prevede che la violazione della misura della quarantena da parte dei soggetti risultati positivi al virus comporta la incriminazione per il reato ex art. 260 Testo Unico delle Leggi Sanitarie (Regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265, così come modificato dall’art. 4 comma 7 dello stesso d.l. 19/2020, che ne ha inasprito il trattamento sanzionatorio).

Nella sua attuale configurazione, la incriminazione prevede che “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo è punito con l’arresto da tre a dodici mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000”.

La misura della quarantena è prevista, invece, dalla lettera e) dell’art. 1 comma 2 e consiste nel “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”. E’ bene sottolineare, in ogni caso, come in relazione alla quarantena non sembra rinvenibile una chiara ed espressa disciplina legislativa.

In via generale, a tale misura ha fatto riferimento a più riprese il Ministero della Salute, in particolare con la ordinanza del 21 febbraio 2020, la quale ha previsto che “è fatto obbligo alle Autorità sanitarie territorialmente competenti di applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per quindici giorni, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19”. Tale, blanda, descrizione della misura sembra comportare un deficit di predeterminazione legislativa, soprattutto data la natura normativa della ordinanza.

Tornando al reato, la struttura dell’art. 260 T.U.L.S. sembra richiamare quella propria dei reati di pericolo. In questo senso, l’arretramento della soglia di punibilità si spiega con la necessità di incriminare la condotta di colui che, essendo risultato positivo, viola la quarantena, espone al pericolo di lesione il bene salute individuale e collettiva di cui all’art. 32 Cost.

Sia alla luce della struttura che della sistemazione, l’art. 260 T.U.L.S. è da ritenere fattispecie speciale rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., in particolare essendo il primo reato espressamente volto a tutelare la collettività di fronte alla diffusione di malattie infettive.

Senza dubbio, il mancato riferimento alla fattispecie di cui all’art. 260 T.U.L.S. da parte del d.l. 6/2020 ha destato rilevanti perplessità, tanto da spingere taluno a ritenere tale reato, di fatto, superato in maniera tacita. Non è un caso, d’altronde, che alcune Procure poco dopo l’emanazione del d.l. 6/2020 e dei d.P.C.M. attuativi abbiano iniziato a valutare la possibilità di superare il rinvio espresso fatto dal legislatore all’art. 650 c.p. in favore della applicazione del più grave reato di cui al Testo Unico delle Leggi Sanitarie. La fattispecie incriminatrice in esame, seppur introdotta nel lontano 1934, è stata pensata proprio per fronteggiare situazioni legate ad epidemie, dunque rappresenta un reato sicuramente più pregnante rispetto alla generale fattispecie contravvenzionale prevista dal codice penale. Alla luce di tali considerazioni, il il legislatore ha “riesumato” la fattispecie incriminatrice ex art. 260 T.U.L.S. nell’ultimo decreto legge.
In virtù del principio di irretroattività della legge penale incriminatrice ex artt. 25 comma 2 Cost. e 7 CEDU, comunque, il soggetto risultato positivo al COVID-19 che abbia posto in essere la condotta di violazione della misura della quarantena durante la vigenza del decreto legge n. 6/2020, convertito con modificazioni in legge 5 marzo 2020, n. 13 non è punibile ai sensi dell’art. 260 T.U. Leggi Sanitarie. In questo senso, per tale soggetto sembra doversi confermare la incriminazione ai sensi dell’art. 650 c.p., con tutte le perplessità che essa comporta.

Alla luce della ricostruzione fatta, dunque, sembra corretto ritenere che il legislatore con l’ultimo decreto legge abbia voluto predisporre una vera e propria scala di punibilità relativa alle condotte legate alla epidemia da COVID-19, nel rispetto dei principi di proporzionalità e offensività. Nello specifico, le sanzioni previste sono astrattamente graduate con riferimento al crescere del pericolo di lesione dei beni giuridici messi a rischio: 1) sanzione amministrativa pecuniaria “base”; 2) sanzione amministrativa aumentata di un terzo in caso di utilizzo di un veicolo; 3) sanzione amministrativa raddoppiata in caso di violazione reiterata; 4) reato di cui all’art. 260 T.U.L.S. in caso di violazione della quarantena da parte di colui che è risultato positivo al Coronavirus; 5) ulteriori reati più gravi, in particolare le ipotesi di epidemia dolosa e colposa di cui agli artt. 438 ss. c.p.

In conclusione, l’emergenza dettata dall’epidemia è stata affrontata facendo ricorso a una molteplicità di strumenti giuridici, spesso in modo confusionario e disarticolato. Le problematiche a cui si è fatto riferimento hanno tenuto conto, come specificato in premessa, delle difficoltà derivanti, da un lato, dalla drammaticità della situazione e, dall’altro, dalla necessità di fare ricorso alla cd. Legislazione di emergenza.
Ciò nonostante, da un punto di vista strettamente penale, i provvedimenti presi precedentemente all’entrata in vigore del decreto legge da ultimo commentato devono ritenersi in larga parte inadeguati, difficilmente compatibili con valori costituzionali essenziali.
Viceversa, è il decreto legge n. 19/2020 a mostrarsi certamente più lineare e organico, di sicuro frutto di una più attenta ponderazione degli istituti giuridici da mettere in campo. Pur non essendo comunque esente da criticità, i principali pregi sono quelli di aver codificato compiutamente la disciplina delle misure di contenimento e di aver provveduto a introdurre una sanzione amministrativa ad hoc. Quest’ultima, in particolare, è sembrata fin dal principio essere l’unica strada concretamente percorribile per fronteggiare la diffusione del contagio in modo efficace ed effettivo.
La difficoltà di combattere un nemico invisibile e subdolo qual è il Coronavirus ha obbligato, dunque, tutti i soggetti, politici e non, a uno sforzo ulteriore, in particolare con riferimento all’adozione di decisioni, che non possono in nessun caso essere considerate facili.
Ciò nonostante, tali esigenze non possono spingere la limitazione dei diritti fondamentali tanto in là da compromettere l’ossatura giuridico-costituzionale “minima” dello Stato di diritto, che per funzionare ha bisogno di una chiara delimitazione, da un lato, dei diritti e dei doveri dei soggetti e, dall’altro, dei poteri e dei limiti del legislatore.


Note

[1] “Diritto Penale”, di F. Mantovani, IX edizione, Wolters Kluwer. L’Autore analizza compiutamente il decreto legge ex art. 77 Cost., qualificato come “legge materiale”, cioè “atto emanato da organo diverso dal potere legislativo, ma avente forza di legge”. Rientra in tale categoria anche il decreto legislativo previsto dall’art. 76 Cost.

[2] A livello regionale, si segnalano, tra le altre, l’ordinanza della Regione Campania 13 marzo 2020, n. 15 e quella della Regione Calabria 20 marzo, n. 12, oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. III, Decreto del 30 marzo 2020, n. 1553.

[3] Con specifico riferimento al rapporto tra art. 650 c.p. e il principio della riserva di legge, sono svariate le tesi che si sono contese il campo, tra queste: a) una prima tesi (FIANDACA-MUSCO, BRICOLA) riteneva incompatibile la norma penale in bianco con la riserva di legge di cui all’art. 25 co. 2 Cost. in quanto il precetto non sarebbe individuabile in assenza di provvedimento, né in quanto a destinatario, né alla condotta penalmente rilevante ed al bene giuridico tutelato; b) per una seconda tesi (ANTOLISEI, PETRONE), oggi prevalente, l’art. 650 c.p. è considerato compatibile con il principio di legalità, spiegando tale compatibilità alla luce di molteplici argomentazioni relative alla integrazione del precetto da parte di norme secondarie. Dal canto suo, la giurisprudenza ha ritenuto compatibile l’art. 650 c.p. con il principio di di riserva di legge. La Corte Cost. 168/1971 ha, difatti, ritenuto che “la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi”. Per la Consulta il rispetto del principio di legalità si pone laddove la fonte secondaria si limiti ad apportare una specificazione di tipo tecnico alla disciplina legislativa. Secondo i giudici di legittimità “il singolo provvedimento amministrativo rimane estraneo al precetto penale, non concorrendo in alcun modo a delineare i fatti che il legislatore ha inteso reprimere…lo stesso si atteggia ad attuazione storica di un elemento già previsto dalla fattispecie criminosa…fattore da sussumere nella classe degli ordini che figurano nella norma stessa”.

[4] Cass. Pen., Sez. II, 19 marzo 2013 n. 15936 per cui ai fini del reato di cui all’art. 650 c.p. è necessario che:“a) inosservanza riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato, in occasione di eventi o circostanze tali da far ritenere necessario che proprio quel soggetto ponga in essere una certa condotta, ovvero si aastenga da una certa condotta; b) l’inosservanza riguardi un provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica ed autonoma sanzione”.

[5] Per un approndimento circa la legittimità costituzionale della retroattività delle sanzioni amministrative punitive, Corte Cost. 25 novembre 2018, n. 223, che richiama i principi elaborati dalla Corte EDU 1976 Engel e, successivamente, dalla Corte EDU Grande Stevens e altri c. Italia del 4 marzo 2014.


Copertina:Amnesty

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