Reati ostativi: è cambiato davvero qualcosa dopo la sentenza 253/19?


A quasi due anni dalla celebre sentenza ci si chiede: qualcosa è davvero cambiato nel rapporto tra carcere e diritti umani nel sistema italiano?


A cura di Domenico Talia

La sentenza 253/19 pronunciata dalla Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis comma 1 o.p. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis c. p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste nonché ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416 bis c. p. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. penit. allorché siano stati acquisiti elementi da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

La questione sottoposta alla Corte ha riguardato tutti i condannati per i reati cd. ostativi che non possono accedere ai permessi premio ove non abbiano prestato un utile collaborazione ovvero nei casi in cui la collaborazione risulti inesigibile.
Il divieto di accesso ai benefici penitenziari, stabilito in tale comma per i reati ostativi di prima fascia è infatti superabile esclusivamente mediante la collaborazione utile con la giustizia di cui al 58 ter o nei casi di collaborazione oggettivamente irrilevante o impossibile sempre che siano stati acquisiti elementi tali da attestare una rottura dei legami con l’organizzazione esterna di appartenenza.

Quando si parla di collaborazione inesigibile si fa riferimento alla collaborazione “impossibile” od “oggettivamente irrilevante”, il concetto di collaborazione impossibile acquisisce un proprio contenuto con la sentenza n. 357/94[1].

In quest’occasione la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 bis ord. penit. nella parte in cui non prevede che i benefici penitenziari siano riconosciuti al condannato quando si sia accertato, con sentenza, la sua limitata partecipazione al fatto criminoso tale da rendere impossibile la collaborazione sempre che si sia esclusa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. 

La sentenza 253/19 si fonda su due ordinanze di rimessione operate dalla Corte di Cassazione e il Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Presupposto della censura – alla luce degli artt. 3 e 27 Cost. – è che l’art. 4 bis o.p. radica in capo ai condannati per i delitti ivi previsti una presunzione assoluta circa il permanente collegamento con l’organizzazione criminale e che la scelta di collaborare con la giustizia viene assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione del beneficio in ragione della sua valenza rescissoria del legame con il sodalizio criminale.

In special modo nel caso di Perugia si ritiene che la preclusione assoluta al beneficio penitenziario leda i principi di uguaglianza e rieducazione oltre che impedire «il vaglio di altri elementi che potrebbero condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosità sociale e di meritevolezza del beneficio[2] ».

A suo tempo la sentenza generò un certo clamore, dato anche dall’equivoco di ritenere che la Corte si fosse pronunciata sull’ergastolo ostativo e non sui reati ostativi in generale, le conseguenti reazioni scomposte della scena politica italiana. Su tutti Matteo Salvini che, definendo indegna[3] la pronuncia, promise di “ricorrere”.

La declaratoria d’incostituzionalità concerne l’art. 4 bis o. p. nel momento in cui esso presume, in caso di mancata collaborazione, la permanenza di legami con la criminalità organizzata ostando alla concessione di benefici come i permessi premio senza valutare l’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di tali collegamenti e il pericolo nel ripristino[4].

Va letto come antecedente di tale pronuncia l’orientamento affermato dalla medesima giurisprudenza costituzionale con la 306/93.  Ivi si osserva che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una “rilevante compressione” delle finalità rieducative della pena.

Secondo il Giudice delle Leggi «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre emerge come davvero preoccupante la tendenza alla configurazione di tipi d’autore per i quali la rieducazione non sarebbe possibile in caso di mancata collaborazione».
La Corte fa notare come non sarebbe incostituzionale la presunzione ex art. 4 bis ma il fatto ch’essa sia assoluta e che in questo modo precluda al non collaborante l’accesso ai benefici previsti dalla 354/75.

Una scelta assunta nel senso della presunzione relativa invece meglio aderisce agli obiettivi di prevenzione speciale e risocializzazione insiti nella funzione che alla pena assegna l’articolo 27 co. 3[5]. Il percorso motivazionale perseguito dalla Corte si snoda lungo tre fondamentali direttrici per le quali si evidenzia la violazione dei principi di ragionevolezza e rieducazione. In primo luogo la norma sottoposta all’esame della Corte strumentalizza il detenuto a finalità investigative aggravando il regime di detenzione senza collegamento con la gravità del reato commesso.

Quindi la preclusione produce una scissione tra gravità del reato e esecuzione della pena violando l’art. 5 CEDU[6] invece la privazione della libertà personale dovrebbe essere commisurata alla gravità del fatto non condizionata dai nova emersi in fase esecutiva.

In secondo luogo si osserva che l’applicazione della presunzione nel senso stabilito dalla 354/75 deroghi il potere riconosciuto al magistrato di sorveglianza che deve valutare, in concreto, l’evoluzione della personalità del detenuto secondo i criteri della flessibilità e della progressione trattamentale.

Tale limitazione al potere discrezionale del magistrato di sorveglianza non si accorda[7] a quell’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla sent. 436/99 e giunto sino ai giorni nostri con la 149/18 che ha indicato nella valutazione individualizzata della condizione del detenuto «un criterio costituzionalmente vincolante» in materia di benefici penitenziari in considerazione dell’assunto sotteso all’art. 27 co. 3 secondo cui “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, forsanche il più orribile; ma continua a essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”.

Infine si ritiene che debbano essere scrutinate tutte quelle disposizioni che prevedano presunzioni assolute fondate su generalizzazioni[8], esse vengono considerate illegittime “specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”.

Tale irragionevolezza sussiste «tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa»[9]

 L’approdo cui giunge la pronuncia della Corte è l’evoluzione della presunzione inerente al non collaborante che da “assoluta” sarebbe dovuta divenire “relativa” perché se ne potesse parlare come un superamento.

Problematiche[10] sono ritenute le condizioni che per superare la presunzione relativa sono poste dai giudici costituzionali. Tanto che si è parlato di possibile vanificazione[11] del risultato positivo conseguito. Da un lato è chiaro il tentativo di apertura verso il superamento delle preclusioni assolute, d’altro canto assistiamo ad un rafforzamento del regime probatorio concernente quegli elementi necessari per superare la presunzione relativa (?). 

Infatti, il non collaborante al fine di ottenere il permesso premio dovrà dimostrare positivamente l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Quindi vi è un onere di allegazione come nei casi d’inesigibilità della collaborazione, dall’altro in base alla 253/19 vi è inversione dell’onere della prova se vi sono «dettagliate informazioni negative» fornite dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza al Procuratore nazionale antimafia, il non collaborante dovrà portare prove contrarie a sostegno.

In questo modo la probatio diventa diabolica[12]. La prova contraria diventa inoltre più difficile nel momento in cui il thema probandum viene ampliato e la Corte richiede che venga dimostrata l’insussistenza del pericolo di un ripristino dei legami con la criminalità organizzata tenendo conto delle circostanze personali e ambientali. In realtà quest’aspetto è riconducibile alla regola di giudizio dell’art 30 o.p. che ai fini della concessione del permesso premio prevede un giudizio del magistrato di sorveglianza che accerti “l’assenza di pericolosità sociale del detenuto”.

Quindi ben prima della 253/19 il pericolo di ripristino dei legami con la criminalità organizzata avrebbe ostato alla concessione di benefici. Tracciato lo scenario evocato dalla 253/19 è chiaro quindi come si tenda ad andare oltre il meccanismo di presunzione assoluta ex art. 4 bis, perché incostituzionale, che non è superato del tutto nel momento in cui si prevede un regime di prova contraria così rigoroso tale da far ritenere che si tratti di una presunzione semi-assoluta[13].

Si può superare l’ergastolo ostativo?

Le plurime vicende giudiziarie che hanno portato alla doppia censura dell’art. 4 bis ord. penit. dapprima da parte della Corte EDU e poi da parte della Corte Costituzionale non possono non indurre a una riflessione di sistema sulle ricadute che tale impostazione avrà inevitabilmente nel settore della lotta alla criminalità organizzata, ove lo strumento della collaborazione con la giustizia finora  formidabile[14] per recidere i contatti criminali tra il detenuto e l’organizzazione di riferimento.

La giurisprudenza ha quindi intrapreso un cammino di erosione che non lascia indifferente il legislatore. Esso, infatti, non può esimersi[15] dal conferire coerenza convenzionale all’istituto dell’ergastolo ostativo quindi ha avviato una riflessione attenta, tra le diverse[16], sulla disciplina dell’ergastolo ostativo sin dall’istituzione della commissione Palazzo del 2014.

Nella relazione di tale commissione si avanza una proposta tesa al superamento della presunzione assoluta ex art. 4 bis, essa troverebbe “motivazione principale nell’insostenibilità della presunzione assoluta di mancato realizzarsi del fine rieducativo della pena o dei progressi nella rieducazione ritenuti rilevanti dalla legge ai fini dei benefici penitenziari, per il mero sussistere di una condotta non collaborante ai sensi dell’art. 58 ter o. p.”[17]

La presunzione nell’ottica della Commissione dovrebbe essere “relativa”, si tiene ferma la possibilità di concedere benefici penitenziari e liberazione condizionale ai detenuti collaboranti o la cui collaborazione sia inesigibile[18], a ciò si aggiungeva l’ipotesi in cui “la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici”[19]

Nella relazione che apre la proposta della Commissione Palazzo si rileva efficacemente l’automatismo adottato dal 4 bis per cui la collaborazione implica una rottura dei legami con la criminalità organizzata mentre la non collaborazione sia indice di volontà di mantenere tali legami, in realtà una condotta collaborativa potrebbe esser frutto di valutazioni soltanto utilitaristiche mentre un atteggiamento opposto rappresenta invece solo esercizio del diritto di non collaborare.

Tale diritto è garantito in sede processuale in applicazione del principio del “nemo tenetur se detergere”, è quindi inammissibile, a detta della commissione, che nella fase esecutiva al suo esercizio consegua un regime detentivo aggravato.

 La proposta elaborata dalla Commissione Palazzo non è però stata accolta dal legislatore che nella legge delega n.  103/17 all’articolo 1 comma 85 lett. e al fine della riforma penitenziaria  ha previsto l’adozione di disposizioni atte “all’eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o ritardano l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato nonché revisione della disciplina di preclusione di benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo” eccezion fatta per i condannati per reati di mafia o terrorismo”.

Ma dopo aver prospettato il proprio intervento nell’originario schema di decreto legislativo non ha sfruttato tali facoltà a seguito di un lungo e approfondito esame da parte del Parlamento. La stessa Corte di Strasburgo menzionava la legge delega del 2017 come espressione della recente tendenza sviluppatasi a livello interno e tesa a mettere in discussione la presunzione assoluta di pericolosità[20], tale tendenza non ha però avuto successivo riscontro. 

Anzi il catalogo dei reati di cui al 4 bis non solo è invariato ma è stato ampliato con la 3/2019 cosiddetta spazza-corrotti. Ora il nuovo orientamento affermato con la 253/19 – che riguarda tutti i reati di tipo ostativo – dalla giurisprudenza costituzionale impone al legislatore di riprendere il cammino di riforma[21] degli automatismi e delle preclusioni che la legge delega n. 103/17 intendeva avviare, in maniera ancora più ampia e nel quadro dei principi tracciati dal dialogo tra le Corti di Roma e Strasburgo.

Il cammino di riforma sembra non essere davvero iniziato ne tantomeno appare una strada percorribile tenendo conto dell’opinione pubblica e di quella delle forze politiche che siedono in parlamento.


Note

[1] Il testo integrale della sentenza è disponibile in ww.giurcost.org
[2] Cit. Tribuna di Sorveglianza di Perugia, ord. n. 725/2019
[3] Adnkronos, “Salvini,permessi a chi ha massacrato?”, 23/10/19
[4] Cfr. M. Pellissero, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni,limiti e potenzialità di sviluppo della sent. 253/19 in www.lalegislazionepenale.eu,2020
[5] Cfr. A. Blasco, op. ult. cit.
[6] Cfr. M. Pellissero, op. ult. cit.
[7] G. Dodaro,L’onere di collaborazione con la giustizia per l’accesso ai permessi premio ex art. 4 bis ord. penit. di fronte alla Costituzione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. Fasc. 1/2020 p. 0259B
[8] Cfr. A. Blasco, op. ult. cit. par.3.3.2
[9] Corte Cost. sent. n. 253/19, Considerato in diritto,punto 8.3
[10] In tal senso M. Bortolato,Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora,ma la strada è ancora lunga in DPP,2020
[11] In tal senso M. Pellissero,op. ult. cit. par.5
[12] M. Ruotolo,Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sentenza n. 253/19 della Corte Costituzionale in SP,2019.
[13] Così M. Ruotolo, op. ult. cit.
[14] In questo senso si veda A. Blasco, op. ult. cit.par. 6
[15] E. Sylos Labini, Il cielo si tinge di Viola:verso il tramonto dell’ergastolo ostativo in L’archivio penale,2019, par. 6
[16] Per un accurato approfondimento si veda anche Neppi Madonna,Riv. It. Proc. Pen, p. 1509 ss.
[17] http://www.ristretti.it/commenti/2014/febbraio/pdf6/commissione_palazzo.pdf
[18] E. Dolcini, La pena perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale,p.19 ss,2019
[19] Sul punto anche Flick in E. Dolcini op. ult. cit. par. 2.4
[20] A. Blasco,op. ult. cit.
[21] M. Pellissero,op. ult. cit. par. 7


Foto copertina: Immagine web

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