Il recente cambiamento di paradigma della cooperazione internazionale ha determinato il passaggio del ruolo del Governo da unico finanziatore dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) ad una funzione di “articolatore di sistema” al fine di coniugare gli sforzi degli attori dello sviluppo tradizionali (Stati, organizzazioni internazionali, società civile) con quelli del settore privato.[1]
La legge di riforma della cooperazione (L.125/2014), il riconoscimento giuridico all’interno dell’ordinamento italiano dello status delle Società Benefit[2] (L.208/2016) e la riforma del Terzo Settore sono stati tre momenti cruciali di rinnovamento che hanno allineato l’Italia ai Paesi più attenti alle pratiche del cosiddetto “Profit for Development”[3].
Al fine di dare slancio alla riforma (L.125/2015), Cassa Depositi e Prestiti è diventata Istituzione Finanziaria per la Cooperazione allo Sviluppo (Ifcs) e a partire dal 1 Gennaio 2016 gestisce il Fondo Rotativo per la Cooperazione allo Sviluppo. La funzione di supporto tecnico-finanziario alle attività di politica estera del Paese è svolta al fine principale di operare attività di blending tra fondi di diversa natura, ampliando così il perimetro delle risorse finanziare utilizzabili.[4]
Battezzato con l’articolo “The fortune at the bottom of the pyramid” (C.K Prahalad e Stuart Hart, 2004), il Business inclusivo, inteso come l’agire aziendale in contesti di povertà, intende diventare uno dei più promettenti driver dello sviluppo internazionale, sia in termini aziendali, sia come nuovo strumento di cooperazione.
Su questi temi, sulle attuali sfide e prospettive future, ci siamo confrontati con il Dott. Fabio Petroni, Director of Programs di E4Impact, Fondazione nata nel 2010 con l’obiettivo di formare imprenditori ad alto impatto sociale in Africa, sostenendo progetti di start up e di business locali[5].
Dott. Petroni, in merito al lavoro che in questi anni la Fondazione ha portato avanti, in che modo possiamo dire che E4Impact incarna il cambiamento di paradigma della cooperazione allo sviluppo?
Direi innanzitutto che nella filosofia della Fondazione non si intende semplicemente aiutare (obiettivo nobile, ma di competenza della ONG), quanto piuttosto mettere in moto le risorse imprenditoriali su entrambe le sponde del mediterraneo. Dato il punto di partenza, la partnership pubblico-privata gioca un ruolo essenziale nel mitigare i rischi imprenditoriali caratteristici di questi scenari operativi. Un esempio concreto: l’acceleratore d’impresa che E4Impact ha lanciato a Nairobi, Kenya, ad inizio 2018, sostenuto dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). In breve:
- E4Impact mobilita gli imprenditori Kenioti in settori rilevanti per il Sistema Italia (agro-alimentare, energia, …), ne rafforza le competenze, seleziona i migliori, così da limitare i rischi connessi ad un investimento;
- Un gruppo di aziende italiane interessate ad investire in Africa mette a disposizione degli imprenditori selezionati che conducano un investimento tramite un fondo gestito da E4Imapact;
- AICS, sostenendo i costi di gestione dell’acceleratore, di fatto rende possibile l’attività di scouting e due diligence di E4Impact, eliminando così l’ostacolo che impedisce alle aziende italiane di investire in Kenya.
Ognuna delle imprese accelerate viene selezionata anche in base al potenziale di impatto sociale e ambientale. Ci attendiamo pertanto che tali aziende siano in grado di andare oltre la sola generazione di occupazione e reddito.
Alla luce di quanto appena detto, qual è il contributo che E4Impact ha dato e può dare nell’ambito dell’attuale scenario della cooperazione internazionale?
Credo si possa dire che la Fondazione sia in grado di agire almeno su tre livelli. In primo luogo il livello culturale. Lavorando allo sviluppo di imprenditori, la Fondazione ha l’opportunità di raccontare l’Africa da una prospettiva che mostra la capacità di innovazione e sviluppo del Continente. Crediamo che questo possa contribuire a costruire nella società italiana un’immagine dell’Africa non solo più positiva, ma anche più aderente alla realtà.
In secondo luogo a livello di Sistema Paese. La Fondazione parla un linguaggio imprenditoriale, diverso da quello dell’aiuto, e nasce come un’iniziativa dell’Università Cattolica e di alcune grandi imprese italiane, da Securfin a Eni, da Bracco a Salini Impregilo. Entrambi questi aspetti collocano la Fondazione in una posizione privilegiata sia per dialogare con le aziende, sia per disegnare dei modelli di collaborazione che vadano oltre la filantropia e che tocchino il core business. In tal senso la Fondazione organizza con grande frequenza degli executive forum durante i quali aziende italiane e africane esplorano opportunità di collaborazione. Nel mese di febbraio 2018, hanno avuto luogo due forum di questa natura, uno dedicato al Sudan e uno allo Zimbabwe, due paesi che proprio in questi mesi stanno aprendosi all’occidente e che hanno visto la partecipazione di numerose imprese. Nei prossimi mesi sarà la volta di Ruanda e Angola. Da ultimo, ma non meno importante, il livello dell’impatto sociale. Formare imprese sostenibili vuol dire innescare un meccanismo di notevole amplificazione dell’impatto. Ogni azienda è destinata a creare occupazione, quindi reddito, quindi consumo, quindi ulteriore occupazione e così via. Inoltre, si tratta di un impatto duraturo in quanto un’azienda, a differenza di un progetto, non finisce quando i fondi sono stati tutti spesi, ma prosegue (si spera!) nella sua vita e passa di generazione in generazione.
Quali sono, secondo Lei, le sfide più importanti che il settore privato si trova ad affrontare oggi? Quale valore aggiunto può avere la partnership pubblico-privata nell’ambito della “nuova” cooperazione allo sviluppo?
Credo si possa dire che uno dei fattori che maggiormente limitano la partecipazione del settore privato è la poca chiarezza su cosa ci si aspetti da un’azienda quando si tratta di cooperazione allo sviluppo. Le ONG quando approcciano le aziende o cercano competenze da spendere nei bandi dell’Agenzia, oppure sperano di poter raccogliere un sostegno economico. Ora, le aziende spesso non comprendono la logica dei bandi di cooperazione e non dispongono di fondi extra large per sostenere iniziative di solidarietà. In ogni caso, laddove il coinvolgimento c’è, questo rischia sempre di attestarsi sul piano della filantropia, positivo, ma marginale rispetto agli obiettivi dell’impresa. Perché un’azienda prenda parte seriamente ai processi della cooperazione allo sviluppo, questa deve essere uno strumento utile, da un lato, a mitigare i rischi connessi all’ingresso in un nuovo mercato e, dall’altro, a garantire che tale ingresso sia pienamente sostenibile e abbia un consistente impatto sociale. A questo punto ritorniamo all’esempio dell’acceleratore di E4Impact in Kenya. Se il no profit è in grado di creare opportunità di investimento e/o di mercato e se il settore pubblico mitiga parte del rischio imprenditoriale, le aziende interverranno.
Un asset importante per le imprese italiane che investono all’estero è sicuramente il know how, strategico tanto per le imprese italiane, quanto per i paesi in via di sviluppo. A tal proposito cosa ci ha insegnato in questi anni E4Impact sull’imprenditorialità africana ed in che modo il know how italiano può contribuire allo sviluppo del tessuto imprenditoriale africano?
L’Italia dispone di eccellenze in diversi settori chiave per lo sviluppo dell’Africa Sub-Sahariana: agricoltura, allevamento, filiera alimentare, ma anche moda ed energia, per fare alcuni esempi. In tal senso, molti imprenditori africani guardano all’Italia con grande interesse, anche in ragione dell’ottima reputazione di cui gode il Made in Italy su tutto il continente. Possiamo identificare due aspetti che rendono il know how italiano particolarmente attraente. In primo luogo la tecnologia, finalizzata al raggiungimento di alti standard qualitativi e di produttività. Ad esempio, in Africa è noto che in Italia la resa per ettaro della terra coltivata è doppia rispetto a Germania e Francia. Ogni qual volta possibile, l’imprenditore agricolo ghanese, keniota, etiope opterà per la tecnologia italiana. Il freno alla diffusione della tecnologia italiana, che spesso non raggiunge le PMI africane, è rappresentato dalla portata (troppo grande) degli strumenti finanziari tesi a sostenere le esportazioni. Se si trovasse il modo di potenziare i sistemi di credito all’esportazione per le aziende italiane, queste potrebbero penetrare molto più in profondità nel tessuto economico sub-sahariano, permettendo a tante PMI di prendere il volo e moltiplicare grandemente il loro impatto sociale. In secondo luogo la cultura imprenditoriale. Il modello delle PMI italiane affascina molti dei paesi dell’Africa Sub-Sahariana, in special modo quelli anglofoni. Questo modello, presenta un volto molto affine alle aspirazioni degli imprenditori africani, che vogliono essere vicini al territorio, costruire insieme alle comunità, e lavorare in squadra con altre aziende. Questo asset “culturale” assicura alle imprese italiane un vantaggio comparativo realmente importante.
Ci salutiamo con una domanda più personale, tra tutti i progetti di start up che ha seguito, quale le è rimasto più nel cuore?
Sono tante le aziende a cui mi sono appassionato, ma vorrei citare Farmer’s Hope[6] di Osei Bobie Ansah, Ghana. Farmer’s Hope produce bio-fertilizzanti. Credo che la storia imprenditoriale di Bobie abbia due aspetti eccezionali che catturano bene quell’immagine dell’Africa capace di innovare, di cui si è detto. In un contesto come quello ghanese, in cui si fa largo uso di fertilizzanti chimici che danneggiano e impoveriscono il suolo, si tratta di un prodotto di grande importanza. Inoltre, in Ghana, il mercato dei fertilizzanti è pesantemente sussidiato. In molti casi le aziende agricole possono ottenerli gratuitamente. Ovviamente, questo vale solo per pochi brand internazionali che offrono prodotti di derivazione chimica. Tra questi non figura Farmer’s Hope. In un mercato come questo, una piccola impresa che non ha accesso ai sussidi è destinata al fallimento quasi certo: come convincere un agricoltore ad acquistare qualcosa che potrebbe avere gratuitamente? Bobie, invece, è riuscito ad imporsi sul mercato con un prodotto che riesce a garantire una resa del suolo talmente superiore a quella garantita dai fertilizzanti chimici, da essere vantaggioso anche se questi ultimi sono offerti gratuitamente. Questo è stato l’esito di anni di ricerca e sviluppo, di tentativi e fallimenti, che sono passati anche per la fabbricazione “in house” di vari macchinari per la produzione. Ad oggi, però, Farmer’s Hope è il primo produttore di bio-fertilizzanti in Ghana, e, a riprova del potenziale dell’azienda, ha ottenuto un grande investimento per sviluppare la sua attività in Nigeria e Burkina Faso.
[1] https://www.conferenzacoopera.it/gruppi-di-lavoro/settore-privato/
[2] Questa è una nuova forma giuridica di impresa, introdotta a partire dal 2010 come Benefit Corporation negli USA. Si tratta di società che integrano nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società. Una Società Benefit è un nuovo strumento legale che crea una solida base per l’allineamento della missione nel lungo termine e la creazione di valore condiviso. (http://www.societabenefit.net/cosa-sono-le-societa-benefit)
[3] Si rimanda al concetto di Business Inclusivo di cui sotto.
[4] Per blending si intende l’unione di risorse finanziarie di diversa natura. (https://www.cdp.it/clienti/government-pa/cooperazione-internazionale/cooperazione-internazionale.kl)
[6] http://www.farmershopegh.com/
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