Nel centenario dell’atto che segnò l’ascesa al potere di Mussolini, un’analisi senza sottovalutazioni o infingimenti potrebbe contribuire a chiarire la reale portata di quell’evento.
La campagna elettorale più insolita della storia repubblicana si è conclusa a ridosso di un anniversario evocato e in taluni casi persino agitato durante la competizione fra ai partiti. Infatti se c’è un tema ricorrente nella comunicazione politica, questi è senz’altro il fascismo e la sua evoluzione.
Il pericolo sempre dietro l’angolo. Una categoria dello spirito che non abbandonerebbe gli italiani condannati, o così almeno sembra, a pericolose revanche di un’epoca lontana, ma che a parere di alcuni continuerebbe a non passare.
In certi casi perché Mussolini ed il fascismo rappresentano un efficace strumento di promozione editoriale, in altri un utile argomento per delegittimare gli avversari politici oppure per assegnare patenti di affidabilità. Comunque la si voglia vedere, nel centenario della marcia su Roma, è possibile constatare la difficoltà a storicizzare gli avvenimenti fra le due guerre e come sia ancora più difficile condurre un’analisi realistica dei fatti, a maggior ragione in un periodo di campagna elettorale come quello che ci siamo lasciati alle spalle. Pur avendo le caratteristiche dell’atto insurrezionale, almeno così lo definì anni dopo Mussolini, la marcia su Roma si risolse in un sostanziale compromesso fra il futuro duce e le forze politiche liberali che poi lo sosterranno nel suo primo governo. Certamente ebbe un grandissimo significato nell’immaginario dei fascisti dell’epoca, che intravidero quell’atto con la conquista simbolica di Roma, città decadente e oggetto degli strali delle reprimende mussoliniane. Il vecchiume, la mentalità parassitaria e sorniona che si respirava nella capitale del regno non poteva che essere invisa agli alfieri della nuova Italia nata dalla guerra e che credevano realmente di aver posto fine in quel modo a sessant’anni di vizi e degenerazioni di un sistema che aveva tradito lo spirito del Risorgimento. Anche successivamente al delitto Matteotti, gli intransigenti, soprattutto i più giovani e scalmanati, ansiosi della svolta rivoluzionaria del fascismo che tardava ad a materializzarsi, si richiamavano esplicitamente all’evento che aveva portato a Roma le camice nere ed i suoi quadriumviri, dato che Mussolini vi giunse in vagone letto da Milano solamente il giorno successivo per ricevere, intrappolato in un improbabile frac e con le ghette, il formale incarico del Re di dar vita ad un nuovo esecutivo: Mino Maccari, ad esempio, giovane direttore della rivista fiorentina Il Selvaggio utilizzò come motto sottostante la testata “marciare non marcire”. Oppure si pensi alle suggestioni di un giovane intellettuale fascista, Camillo Pellizzi, che descrivendo lo stato d’animo di coloro che avevano partecipato alla marcia, evidenziava come Roma venisse associata al luogo in cui si barattavano onori e prebende nei ministeri, comandando senza forza e subendo senza dignità. Inoltre non si potrebbe comprendere pienamente la portata dell’evento senza riavvolgere il nastro della storia ai mesi che lo precedettero, ovverosia al fallimento dello sciopero generale iniziato il 31 luglio 1922 ed indetto dall’Alleanza del lavoro, poi chiamato “legalitario” per il suo contenuto di protesta nei confronti delle violenze squadristiche e che rappresentò l’ultimo, disperato tentativo di fermare l’avanzata inesorabile del fascismo verso la conquista del potere. I sindacati (la Cgdl socialcomunista, le federazioni autonome dei lavoratori e dei portuali, la Uil formata da repubblicani ed ex interventisti, l’Usi anarchica) attraverso una mobilitazione dal basso intendevano dare una prova di forza che al contrario finì con l’offrire l’occasione al movimento mussoliniano, per assestare la spallata finale agli avversari e spazzare via così gli ostacoli residui. L’assalto a Palazzo Marino poi, del ras Cesare Forni fu una sorta di prova generale della Marcia su Roma, dimostrando plasticamente sia l’impotenza degli avversari di classe che la connivenza delle autorità e soprattutto di quei ceti medi emergenti che scorgevano in Mussolini l’unico baluardo in grado di scongiurare una deriva bolscevica per l’Italia. Così come non può essere dimenticato il livello di mobilitazione che le masse avevano raggiunto nel biennio rosso e della diffusa violenza politica, oramai consuetudine dei primi anni del dopoguerra italiano. Arditi del popolo che si fronteggiano con gli arditi nazionalisti, legionari fiumani e futuristi, reduci e squadristi che infiammavano un confronto politico così esasperato da provocare morti e feriti. Una contestualizzazione doverosa per tentare di comprendere come si giunse al 28 ottobre 1922. Il comportamento della Corona e dello stesso Ministero degli Interni, consapevoli già dai primi mesi del ‘22 che il fascismo potesse aprirsi la strada verso il potere nazionale attraverso la più classica delle strategie insurrezionali, ovverosia la conquista della capitale. Su questo aspetto restano emblematiche le segnalazioni del generale Emanuele Pugliese, chiamato poi a difendere il 28 ottobre la città con la divisione di cui era comandante, giunte già alcuni mesi prima e nella quali si esprimevano delle preoccupazioni su un possibile blitz militare degli squadristi da contrastare efficacemente. Il pericolo non venne percepito adeguatamente oppure come è più plausibile, dopo aver più volte rassicurato il re Vittorio Emanuele III, si comprese che Mussolini puntasse a scardinare il Parlamento e le sue prassi, considerate dal capo del fascismo come oramai obsolete. Il sovrano del resto, rifiutandosi di firmare lo stato d’assedio così come richiesto dal Presidente del Consiglio Luigi Facta e costringendolo alle dimissioni oltre a togliere qualsiasi ostacolo all’ascesa di Mussolini, contribuì a creare una profonda rottura con la prassi costituzionale fin lì consolidata. E la marcia, che il fascismo iniziò a celebrare ogni 28 ottobre, poté così effettivamente svolgersi soltanto il 30, quando Mussolini ottenne l’incarico e le porte della Capitale si aprirono all’ingresso di alcune migliaia di camicie nere che, sino ad allora erano state bloccate dalle forze armate fuori dalla città, poterono sfilare dalla statua del Milite Ignoto sino al Quirinale per tributare un doveroso saluto a Vittorio Emanuele III per poi successivamente ritirarsi nelle loro sedi. La storia della marcia segnala quindi in maniera inesorabile quanto le classi dirigenti dell’epoca peccarono di miopia e peggio ancora di sottovalutazione dell’avversario allorché l’opera buffa, secondo la definizione che ne diede Gaetano Salvemini, si tramutò in tutt’altro. D’altronde ogni grande evento storico avrebbe potuto virare se alcuni uomini avessero deciso in maniera diversa da come effettivamente decisero. Per tali ragioni se ci è impossibile tracciare analogie con la realtà odierna appare quanto mai doveroso interpretare gli avvenimenti senza inutili riferimenti al passato, tentando finalmente di storicizzare fatti di cento anni fa.