Accordo sui migranti tra Italia e Albania: nebbia sull’Adriatico


Annunciato nella serata di lunedì da Giorgia Meloni e dal Primo Ministro albanese Edi Rama, l’accordo sui migranti tra Italia e Albania ha già sollevato un formicaio di reazioni non solamente nella politica italiana. Contrarie le opposizioni e la Chiesa, tensioni nella maggioranza, attendismo dalla Commissione UE, nel frattempo molti aspetti dubbi.


È arrivato un po’ a sorpresa l’annuncio della firma del protocollo d’intesa tra Roma e Tirana sull’esternalizzazione delle domande d’asilo in Albania. L’accordo in 14 articoli della durata di cinque anni rinnovabili, che prevede la costruzione di due centri a Shëngjin e Gjadër, sotto la giurisdizione di Roma e dove verranno trasferiti i migranti salvati da navi italiane, ha già suscitato un polverone di critiche.

A Palazzo Chigi si auspica di arrivare alla piena operatività nella primavera del 2024. “Accordo storico” per la maggioranza (pur con alcuni distinguo), che si scontra con un’opposizione già pronta alle barricate anche in relazione ai passaggi istituzionali che nelle intenzioni dell’esecutivo non sarebbero necessari.

All’intesa dovrà inevitabilmente seguire un’opera di “messa a terra” concreta delle sue disposizioni e, in questo, la grande sfida appartiene agli uffici del Viminale che dovranno riuscire a produrre degli atti che riescano a bilanciare il diritto interno italiano e albanese, il diritto internazionale e quello europeo.

Perplessità

Da più parti sono state sollevate alcune perplessità che mettono in dubbio sia l’efficacia che l’efficienza generale del piano. Al momento siamo in possesso del solo testo del Protocollo, una mera cornice di massima quindi, e molto deve essere specificato e chiarito. Una cosa è sicura, l’impegno di spesa per il Governo Italiano per quanto riguarda la gestione dei centri sarà sostanzioso e ben superiore ai 16,5 milioni di Euro che il l’Italia si è impegnata a versare a titolo di anticipo (per il primo anno). Sono infatti a carico di Roma: le spese per l’allestimento delle strutture d’ingresso e quelle per dedicate al personale albanese incaricato della difesa del perimetro, quelle riguardanti i servizi sanitari, i trasferimenti tra le aree, il recupero eventuale degli “evasi”, i costi riguardanti gli eventuali danni, senza contare la necessità di prevedere il trasferimento temporaneo di personale dell’amministrazione che dovranno concretamente operare in Albania.

Una perplessità riguarda la capacità dei due centri di ridurre la pressione su hotspot e centri di accoglienza situati sul territorio nazionale. L’articolo 4, paragrafo 1, prevede che il numero totale dei migranti presenti contemporaneamente nel territorio albanese non potrà superare le 3000 unità, il che implica che i due centri dovranno avere una capacità di circa 1500 persone ciascuno. Non è poi chiara quanto queste potranno rimanere in Albania. Su questo aspetto i membri del Governo hanno espresso posizioni diverse: il Ministro Piantedosi, ad esempio, ha fatto riferimento alle procedure accelerate alla frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale, che dovrebbero durare massimo 28 giorni, mentre il sottosegretario Fazzolari ha fatto riferimento al periodo di trattenimento massimo che si applica ai Centri per il rimpatrio (CPR) che equivale a diciotto mesi[1]. Quello che è sicuro leggendo il testo del protocollo è che, allo scadere del periodo di trattenimento, le autorità italiane saranno incaricate di trasferire chi non avrà più diritto di permanenza nelle strutture (art. 4, par. 3). Il trattenimento (di qualsiasi natura sia) si configura quindi come un passaggio intermedio la cui utilità non è ben chiara considerato che aventi diritto, e non, a un certo punto si ritroveranno in Italia. Il problema quando si parla di CPR, infatti, è sempre quello dell’incapacità e dell’impossibilità per il nostro Paese di rimpatriare un numero consistente di irregolari. Questo avviene non soltanto per l’altissimo costo economico che grava sulle casse dello Stato, ma anche perché un trasferimento simile richiede degli accordi specifici con i paesi di partenza e al momento non ci sono. L’entrata a regime rischia di creare un ingorgo sulle acque dell’Adriatico meridionale, con profonde conseguenze sulla buona e lineare gestione di quanti avranno il diritto di entrare in Italia al termine dei percorsi da espletare in Albania.

Il Protocollo prevede la piena giurisdizione italiana sui due centri, nei quali dovranno avere luogo le procedure di informazione, identificazione, valutazione della domanda e, in caso di diniego, dovrà anche essere garantito il diritto al ricorso presso il tribunale. Se da un lato le Commissioni territoriali potrebbero essere in grado di operare da remoto, dall’altro la fase successiva all’eventuale diniego, che comporta la possibilità di fare ricorso avverso alla decisione, necessita della presenza di un avvocato e di un tribunale: quale sarà quindi il foro competente? Saranno previsti degli uffici distaccati?
E ancora, il trattenimento all’interno di un CPR (che dovrebbe sorgere a Gjadër) che assume la forma di una detenzione amministrativa, deve comunque essere convalidata dall’autorità giudiziaria. Se non si dovesse riuscire a dare risposta a questi interrogativi si rischia di configurare una violazione delle disposizioni costituzionali rispetto la tutela del diritto di difesa. Infine, esistono all’interno del sistema istituzionale italiano figure che hanno la possibilità di entrare nei centri di detenzione senza preventiva autorizzazione: facciamo ad esempio riferimento ai parlamentari, al garante nazionale delle persone private della libertà personale, ai quali questo diritto di visita deve necessariamente essere garantito.

Un ulteriore aspetto interessante è quello che si sviluppa attorno alle parole della Premier che ha escluso che “donne in gravidanza, bambini e altri soggetti vulnerabili” verranno sbarcati e trattenuti nei due centri. Pur non trovando traccia nel protocollo di questa disposizione, ci si può immaginare che le persone salvate saranno fatte sbarcare in due porti diversi (uno in Italia e l’altro in Albania), sulla base della propria condizione personale, il che comporterebbe degli sbarchi selettivi, già criticati dalla Commissione Europea a novembre 2022, nonché si inficerebbe l’equità dell’accesso alla protezione internazionale.

Inoltre, la mancanza di chiarezza rispetto all’applicazione concreta di questo principio solleva il dubbio rispetto al trattamento, ad esempio, delle unità familiari e dei minori non accompagnati la cui età non sia accertata. Il Decreto 133/2023 ha previsto all’articolo 5 che tramite équipes multidisciplinari si debba garantire l’accertamento dell’effettiva minore età. Di conseguenza, lo sbarco in questi casi specifici, dove dovrà avvenire? Sarà prevista una “navetta” del migrante tra le due sponde del mare? Come è possibile associare il tempo massimo di permanenza nella struttura di prima accoglienza per la procedura accelerata alla frontiera (28 giorni) con il periodo massimo entro il quale l’accertamento deve avere luogo (60 giorni)? In ogni caso, sembrano profilarsi all’orizzonte una quantità molto alta di ricorsi di fronte all’autorità giudiziaria.

La Ratifica

Il Ministro per i rapporti col Parlamento, Sen. Luca Ciriani, ha escluso la necessità di un passaggio formale di ratifica, in quanto il Protocollo avrebbe le sue basi su due precedenti accordi: il trattato di amicizia e collaborazione del 1995 e il protocollo tra i due ministeri dell’interno sul contrasto al terrorismo e alla tratta degli esseri umani del 2017. Questo aspetto troverebbe conferma all’interno dell’articolo 13 che, in materia di entrata in vigore, non parla di scambio di strumenti di ratifica ma di mero scambio di note. Nelle intenzioni dell’esecutivo, cioè si tratterebbe di un protocollo applicativo-tecnico di un precedente trattato che fungerebbe da ombrello escludendo il passaggio attraverso le Camere.
L’accordo del 1995, infatti, al suo articolo 19 prevedeva un impegno delle parti al controllo dei flussi migratori[2] “anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi” e alla stesura di “un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini […] al mercato del lavoro stagionale”. Secondo il Ministro quello attuale sarebbe, quindi, un accordo di cooperazione rafforzata che nell’ambito proprio dell’articolo 19.

Vi è però un ulteriore aspetto di criticità che chiama in causa la stessa lettera della Costituzione. L’articolo 80, che disciplina la ratifica dei trattati internazionali, stabilisce l’obbligatorietà dell’autorizzazione delle Camere per tutti quegli atti che abbiano natura politica e prevedano, tra le altre cose, oneri di natura finanziaria. In questo caso, siamo di fronte alla coesistenza di entrambe le condizioni. Da un lato è impossibile negare la valenza politica del Protocollo, anche in virtù dell’enfasi con la quale Giorgia Meloni ne ha sottolineato l’importanza durante la conferenza stampa. Dall’altro, al netto della gratuità dell’affitto delle due aree, diverse sono le voci di spesa che il Protocollo sembra stabilire. Mentre si attende che questo nodo venga sciolto, è stato richiesto da più parti un’informativa al Governo e, stando a indiscrezioni, Giorgia Meloni dovrebbe intervenire tra due settimane (ma senza votazione).

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Reazioni

Se il partito della Premier rivendica la storicità dell’accordo, critiche sono state sollevate non soltanto dall’Opposizione ma anche dalla Chiesa e mal di pancia si sono registrati anche all’interno della Maggioranza per un accordo che è stato gestito in prima persona dalla Premier. Ricostruzioni poi smentite da Palazzo Chigi che ha rivendicato il coinvolgimento dei due soci di Governo (Tajani e Salvini). Al di là delle ricostruzioni, però, il dato politico è importante. Il Presidente del Consiglio si è intestata una “vittoria” utilizzabile in chiave propagandistica per le Europee dell’anno prossimo. Diverso è il discorso se si guarda all’efficacia dell’accordo e su cui i dubbi sono molti e legittimi.

Le opposizioni invocano, con toni diversi ma egualmente accesi, il passaggio parlamentare. Calenda, forse il più morbido, sottolinea l’inutilità di massima ma non rileva una violazione del diritto UE e internazionale. Tema ripreso, invece dal PD e dalla Segretaria Schlein. Magi da Più Europa paventa la nascita di una Guantanamo italiana. Anche il Movimento 5 Stelle accusa la Premier di utilizzare l’accordo come strumento di distrazione.

Dura anche la Chiesa che, per voce del Cardinale Zuppi, Presidente CEI, interpreta la firma del Protocollo come “una resa” che rappresenta l’ammissione dell’incapacità di gestione della questione migratoria.
Attendista invece la posizione della Commissione UE che ha chiesto chiarimenti e maggiori informazioni a Roma.


Note

[1] Termine aumentato all’attuale durata dal Decreto-Legge 124/2023 attualmente in conversione al Senato (AS 927 https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/57659.htm )
[2] Non va però dimenticato il contesto nel quale il trattato era nato, caratterizzato dal collasso dello stato albanese dopo il periodo comunista e dalla diaspora verso l’Italia.


Foto copertina: Giorgia Meloni e il Primo Ministro albanese Edi Rama firmano l’accordo sui migranti tra Italia e Albania