Nota a Sentenza Cassazione Penale, sez. VI ud. 28 ottobre 2022 (dep. il 25 novembre 2022), n. 44057. Per la Cassazione non effettuare una visita medica domiciliare si commette la violazione dell’articolo 328 c.p. Violazione di atti d’ufficio. Omissione.
A cura di Marco Sorvillo
La Corte di Cassazione con la Sentenza suindicata, conferma il reato di cui ex art. 328 c.p. commesso da dal “medico di continuità assistenziale” per non aver effettuato una visita domiciliare ad una paziente impossibilitata a muoversi.
Analisi
Per i supremi giudici, è reato quello commesso dal medico “in servizio di guardia medica” (c.d. continuità assistenziale) che alla chiamata di effettuare una visita domiciliare, manifestando una delle possibili scelte quale quella di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita e invitare l’assistito in ambulatorio, ben potendo di poter adempiere attraverso un semplice consulto telefonico, nel caso di specie, nessuna delle opzioni possibili è stata avanzata, avendo suggerito semplicemente di chiedere l’intervento di un’ambulanza ovvero di rivolgersi il giorno dopo al medico di base.
Il caso
La Corte di Cassazione con sentenza n. 44057/2022 in udienza celebrata il 28 ottobre 2022, ha rigettato il ricorso – perché infondato – avanzato dagli avvocati del medico dell’uomo condannato (in primo grado e in secondo grado) che lo vede autore – mediante la sua omissione – del reato di cui all’art. 328 c.p. “violazione di atti d’ufficio omissione”.
L’episodio vedeva un medico in servizio presso la guardia medica ricevere la richiesta di assistenza nei confronti di una signora anziana con pregressa frattura alle costole, di poterla visitare a causa di gravi difficoltà respiratorie.
La Suprema Corte ha ritenuto il medico di continuità assistenziale colpevole di omissione di atti d’ufficio per essersi rifiutato di recarsi presso il domicilio della signora anziana di cui il figlio aveva denunciato, in una telefonata al 118, gravi difficoltà respiratorie. Si rilevava, lapalissianamente, l’indifferibilità dell’atto da compiersi d’ufficio già ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l’età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la chiara evidenza che il medico doveva visitarla, o comunque, adottare una delle possibili opzioni di soluzione quale consulto medico, ovvero un invito a raggiungere una struttura ospedaliera o ambulatorio ovvero effettuare un consulto medico. La condotta omissiva del medico addetto al servizio di guardia medita ha scaturito l’applicazione della condanna in primo e in secondo grado.
Le motivazioni della Cassazione: il rifiuto quale omissione di atti d’ufficio
Il ricorso avanzato consta di due motivi, il primo denuncia la mancanza nel fatto concreto degli elementi costitutivi del fatto tipico dell’omissione, mentre il secondo motivo oggetto di ricorso è la mancanza del dolo quale elemento soggettivo necessario al fine di configurare la fattispecie delittuosa.
Per ciò che concerne il primo motivo, esso è stato giudicato infondato poiché l’art. 13, comma 3, dell’accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall’utente […] entro la fine del turno al quale è preposto». In aggiunta, altre fonti normative (Manuale per il medico di continuità assistenziale), puntualizza che, il medico «deve valutare, sotto la propria responsabilità, l’opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l’assistito in ambulatorio».
Nel caso de quo, si manifestavano chiaramente tre opzioni secondo cui l’imputato poteva scegliere per adempiere al proprio dovere. Nella sentenza dei supremi giudici, si evidenziava che “la terza possibilità era fuori discussione a causa dell’età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l’intervento era molto anziana, aveva riportato una frattura alle costole e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dal tenore della sentenza di secondo grado emerge come l’imputato non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico […] neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l’alternativa di chiedere l’intervento di un’ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base”.
La Corte di Cassazione enuncia che deve ribadirsi che “la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l’art. 13 dell’accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l’entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594): richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata da A.. L’unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l’imputato non ha addotto – tantomeno documentato – alcun impedimento durante le due fasi del giudizio di merito.”
In merito al secondo motivo, a sostegno della difesa, vi è stata ipotizzata la mancanza del dolo, sostenendo: “occorre che l’agente rifiuti di porre in essere un atto che sa di dover compiere senza ritardo” e che quindi la valutazione fatta dal medico era corretta.
La corte ha rigettato tale secondo motivo perché “l’indifferibilità dell’atto dell’ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto […] che il pericolo fosse venuto meno, per effetto del successivo intervento, in chiave terapeutica, del secondo medico di continuità assistenziale.”
Articolo 328 codice penale: Violazione di atti d’ufficio. Omissione
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta(1) un atto del suo ufficio(2) che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa(3).
Analisi della fattispecie
L’articolo 328 c.p. è rubricato nel Libro Secondo “dei delitti in particolare” al Titolo II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” al Capo I “Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.
Il comma primo disciplina il reato di rifiuto di atti urgenti, la cui rilevanza è limitata a tassative ragioni d’urgenza di compiere l’atto tra cui rientrano ad esempio i sequestri, obblighi amministrativi o confisca ecc.; il comma secondo invece, punisce invece la condotta di omissione non motivata di atti richiesti.
Si tratta quindi di un reato “di pericolo”, ovvero è un tipo di reato in cui l’offesa è rappresentata nella messa in pericolo del bene giuridico per cui, la tutela penale risulta anticipata.
Il reato oggetto di analisi, è inserito all’interno del Titolo II ovvero “dei delitti contro la pubblica amministrazione” vale a dire il reato commesso da chiunque offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. Mentre per “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione” si riferisce all’ipotesi che questi non possono essere compiuti da chiunque ma soltanto da chi – all’interno della p.a. – rivesta una particolare qualifica giuridica, come ad esempio un medico presso una struttura pubblica ospedaliera.
Il bene giuridico tutelato è duplice: da un lato, oggetto di tutela è l’interesse del cittadino, che verrebbe leso in caso di ingiustificato ritardo o ingiustificata omissione da parte della pubblica amministrazione; mentre dall’altro lato il bene giuridico tutelato nella fattispecie di omissione degli atti d’ufficio è il buon andamento della Pubblica Amministrazione, principio specificato anche all’interno della carta costituzionale all’art. 97 “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
Trattasi di un reato proprio, ovvero tale delitto può essere posto in essere solo dal soggetto attivo che riveste una particolare qualificazione giuridica.
L’elemento oggettivo del reato quale condotta di cui all’articolo 323 del codice penale, è rappresentata dalla condotta perpetrata attraverso la messa in atto del rifiuto o dell’omissione degli atti d’ufficio, ovvero, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ha intenzionalmente rifiutato il compimento degli atti del proprio ufficio ovvero ha dolosamente mancato di rispondere alla richiesta di un privato.
La condotta posta in essere è di tipo omissivo, consiste quindi in un “doppio non facere”: da un lato l’atto d’ufficio richiesto; dall’altro le specificazioni delle motivazioni del ritardo.
Affinché si possa parlare di omissione di atti d’ufficio, è necessario che sussista un obbligo, in capo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio.
Mentre per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, è rilevante il dolo generico ovvero la semplice rappresentazione e volizione di voler commettere il reato, comunemente definita atteggiamento con coscienza e volontà di voler commettere un’omissione di un atto d’ufficio che si è consci del fatto che è dovuto. Nel caso in esame è chiaramente cognizione piena di aver arrecato – attraverso la propria condotta – un’omissione di assistenza dovuta e che è risultata lesiva nei confronti della persona offesa.
Considerazioni conclusive
Pertanto, in conclusione si può affermare che i Supremi Giudici hanno confermato che le azioni del soggetto agente del reato di cui all’art. 328 del codice penale è applicabile al medico che mediante la sua condotta omissiva, omette di prestare assistenza richiesta da un soggetto in condizioni di necessaria assistenza.
Cass. pen., sez. VI, ud. 28 ottobre 2022 (dep. 25 novembre 2022), n. 44057
Presidente Costanzo – Relatore Di Giovine
RITENUTO IN FATTO
- Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di (Omissis), in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riduceva la pena principale e la pena accessoria inflitte all’imputato per omissione di atti d’ufficio (art. 328 cod. pen.), per essersi, in qualità di medico di continuità assistenziale, rifiutato di recarsi presso il domicilio di una paziente di età avanzata, impossibilitata a muoversi e di cui il figlio, nella telefonata al 118, aveva denunciato gravi difficoltà respiratorie.
- Avverso la sentenza l’imputato, per il tramite del suo difensore, avvocato (Omissis), presenta ricorso, articolandolo in due motivi
2.1. Nel primo motivo deduce errata applicazione dell’art 328 cod. pen. sul piano della tipicità oggettiva e correlato vizio di motivazione. Premesso che in base alla normativa regolamentare e agli accordi collettivi, non sussiste un obbligo di visita domiciliare, essendo la relativa decisione rimessa alla discrezionalità del medico, che la esercita in base alla valutazione del caso concreto, secondo il ricorrente la sentenza della Corte d’appello avrebbe contraddittoriamente usato l’argomento del c.d. “codice bianco”, speso nei giudizi di merito per evidenziare l’assenza di gravi rischi per la salute della donna. In motivazione sarebbe stata infatti valorizzata la testimonianza della centralinista del 118, la quale aveva precisato che a tutte le chiamate viene assegnato tale codice, e si sarebbe invece taciuto che dalle risultanze processuali era emerso che il collega di (Omissis)., recatosi presso il domicilio della donna dopo il diniego di quest’ultimo, aveva confermato, all’esito della visita, il “codice bianco” e dunque la bontà della diagnosi fatta da (Omissis)., secondo cui non sussisteva un rischio di danni gravi per la salute.
2.2. Nel secondo motivo deduce erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione, relativamente all’elemento soggettivo del reato, osservando che per la sussistenza del dolo occorre che l’agente rifiuti di porre in essere un atto che sa di dover compiere senza ritardo, ciò che nella fattispecie secondo la valutazione del ricorrente, ex post rivelatasi peraltro corretta, non era.
- Il ricorrente presenta altresì una memoria di replica alle deduzioni del Procuratore Generale in cui insiste per l’accoglimento del ricorso.
- Il procedimento è stato trattato in forma cartolare, ai sensi dell’art. 23, comma 8, dl. n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla I. 18 dicembre 2020, n. 176, e dell’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla I. 25 febbraio 2022, n. 15.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso non si confronta con le puntuali deduzioni contenute nella sentenza di appello ed appare, sotto questo profilo, generico, oltre che manifestamente infondato.
- Con il primo motivo si denuncia la mancanza, nel fatto concreto, degli elementi costitutivi la tipicità oggettiva della fattispecie di omissione di atti d’ufficio (art. 328 cod. pen.).
2.1. Sul punto e muovendo dall’individuazione di quello che va ritenuto, in concreto, l’ “atto dell’ufficio” la cui omissione è suscettibile di assumere rilievo penale, il ricorrente correttamente afferma che la visita domiciliare rappresenta soltanto una delle opzioni attraverso le quali il medico di continuità assistenziale può adempiere al suo dovere, ben potendo egli – laddove non la ritenga necessaria – limitarsi ad un consulto telefonico. Infatti, vero è che l’art. 13, comma 3, dell’accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo (ai sensi dell’art. 48 legge 23 dicembre 1978, n. 833) con d.P.R. 25 gennaio 1941, n. 41, postula un apparente automatismo ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall’utente […] entro la fine del turno al quale è preposto». Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d’altronde logico, il medico «deve valutare, sotto la propria responsabilità, l’opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l’assistito in ambulatorio» (così, il Manuale per il medico di continuità assistenziale approvato dal Comitato permanente aziendale- Azienda USL della (Omissis). Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno l’imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta. Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell’età e delle condizioni della paziente (la signora per la quale era richiesto l’intervento era molto anziana, aveva riportato una frattura alle costole e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale), dal tenore della sentenza di secondo grado emerge come l’imputato non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico: «(Omissis). neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l’alternativa di chiedere l’intervento di un’ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base». Deve ribadirsi che la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l’art. 13 dell’accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l’entità della patologia dichiarata (Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, Rv. 226594): richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata da (Omissis). L’unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l’imputato non ha addotto – tantomeno documentato – alcun impedimento durante le due fasi del giudizio di merito. 2.2. La censura del ricorrente riguarda, infatti, soltanto la mancanza del requisito dell’urgenza, insito nella necessità – secondo il dettato dell’art. 328 cod. pen. – che l’atto vada «compiuto senza ritardo». Premesso che, sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l’evidente erroneità di quest’ultima (in tal senso, ex aliis: Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012, dep. 2013, Tomas, Rv, 255715; Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922; Sez. 6, n. 34047 del 14/01/2003, Miraglia, cit.), si rileva che nel giudizio in esame, tale potere è stato esercitato dal giudice dell’appello, là dove scrive: «È evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall’utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie ir un contesto di età avanzata e frattura alle costole». Il ricorrente reputa tale motivazione apparente e contraddittoria, posto che – osserva – la valutazione dell’imputato, che aveva evidentemente escluso l’urgenza della visita, era risultata ex post corretta, essendo stata validata dal collega di (Omissis)., che, all’esito della visita, aveva confermato il codice bianco assegnato dalla centralinista la quale diramava le telefonate in entrata al 118. Quest’ultima notazione tralascia però di considerare – ed in ciò consiste il profilo di inammissibilità del ricorso – come su questo aspetto il giudice di appello abbia fornito una risposta puntuale, con motivazione completa ed esente da vizi di illogicità. In sentenza si trova infatti replicato che, in tanto il suddetto codice bianco era stato confermato, in quanto il secondo medico, che si era recato a seguito della inerzia dell’imputato a casa della donna, diagnosticandole una bronchite, aveva prescritto «idonea terapia». Dunque, premesso che l’omissione di atti d’ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito – ricostruzione, non sindacabile dalla Corte di cassazione – tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell’assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva, a nulla rilevando la sua successiva neutralizzazione ad opera di un terzo (nella specie, il secondo medico contattato).
- Per la stessa ragione, manifestamente infondata risulta altresì la deduzione formulata nel secondo motivo di ricorso, tesa a negare la sussistenza del dolo, poiché l’imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l’atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna. Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l’indifferibilità dell’atto dell’ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l’età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata. Né, come ovvio, può incidere sull’elemento soggettivo, elidendolo, la circostanza che — sempre sulla base della ricostruzione fattuale del giudice di appello, insindacabile in quanto compiutamente e coerentemente motivata — il pericolo fosse venuto meno, per effetto del successivo intervento, in chiave terapeutica, del secondo medico di continuità assistenziale.
- Da quanto precede deriva che il ricorso è inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 28/10/2022.
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