Samosely: l’Urss si è fermata a Chernobyl


Intervista al regista Fabrizio Bancale, autore del documentario “Samosely- i residenti illegali di Chernobyl”



Introduzione

Il 1986 fu un anno di grandi riforme e animato da un forte spirito di cambiamento per l’Unione Sovietica, sotto la guida “illuminata” del segretario generale Gorbačëv che intendeva realizzare il sogno del “socialismo sviluppato” anche se con grandi difficoltà e all’insegna delle parole chiave Glasnost e Perestrojka.
Gli atteggiamenti e i comportamenti del Partito comunista dell’Unione Sovietica andavano cambiati. Il problema era che la maggior parte dei dirigenti del partito si rifiutavano di riconoscere la gravità dei problemi che l’Urss si trovava a fronteggiare.[1]
E i “problemi” dell’Urss sopracitati sarebbero stati incarnati in un incidente avvenuto lo stesso anno e che avrebbe avuto risonanza mondiale; l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare Vladimir Ilich Lenin di Chernobyl, situata in Ucraina.

Già in precedenza si erano verificati incidenti ed esplosioni nelle centrali nucleari sovietiche ma la copertura mediatica e le lezioni apprese, o meglio non apprese, furono praticamente nulle e lo stesso Gorbačëv riteneva che i rischi maggiori riguardanti il “nucleare” derivassero solo dall’utilizzo militare di quest’ultima fonte di energia. “Di conseguenza Gorbačëv non era più informato di quanto non lo fossero i suoi concittadini”[2].
Il 26 aprile 1986 avvenne l’incidente, causato da incompetenza del personale tecnico e difetti strutturali del reattore stesso che si sarebbe rivelato in seguito il disastro nucleare più grande della storia dell’umanità, nonché il primo del suo genere. Il panico fu generale sia tra i dirigenti locali del partito sia tra militari e civili che anzi furono spesso mandati incontro a morte certa nel tentativo di spegnere le fiamme di quello che si reputava un semplice incendio.
Solo quando le particelle radioattive furono rilevate in occidente, al di là della “cortina di ferro”, l’incidente divenne di dominio pubblico e furono prese le dovute precauzioni tra cui l’evacuazione di centinaia di migliaia di civili da quella che ad oggi è conosciuta come “zona di interdizione”.
Gorbačëv si trovò a fronteggiare l’incarnazione dei problemi che aveva intenzione di abbattere e che forse aveva sottovalutato in quanto a gravità.

L’esplosione nucleare di Chernobyl senza dubbio ebbe un impatto molto profondo su di lui. Non poteva più fare a meno di riconoscere che i difetti del regime non potevano essere corretti da aggiustamenti amministrativi. Carenza di informazione, indisciplina e manipolazione organizzativa erano intrinseci al suo funzionamento. L’atmosfera letale che aleggiava su Chernobyl era la metafora delle condizioni della vita pubblica sovietica.[3]
Il dramma dei civili, esposti per giorni alle radiazioni ed evacuati in seguito senza possibilità di recuperare i propri beni né tantomeno di tornare nella loro terra natia fu sulla bocca di tutto il mondo.
Le conseguenze postume all’incidente, causate dalle radiazioni causarono ulteriore sofferenza a quelle persone oramai reputate “untori” e che con il passare del tempo tentarono di raccogliere i cocci delle loro vite e andare avanti ma non è stato per tutti così. Muovendosi nell’ombra, fuori dai riflettori del mondo, un gruppo di persone animate dall’amore per la propria terra e sprezzanti dell’invisibile pericolo iniziarono a tornare alle loro case e alle loro vite in quella stessa zona di interdizione che ad oggi viene ancora considerata uno dei luoghi più pericolosi e inospitali della terra. Queste persone “dimenticate” vengono chiamate Samosely e sono ad oggi gli unici abitanti “illegali” della zona di Chernobyl.

Today it is still illegal to live inside the exclusion zone. Despite this, about 130 to 150 people do. Many are women, still farming their ancestral land in their 70s and 80s.
And just outside of the exclusion zone, there are a number of new arrivals.[4]

L’articolo della famosa testata giornalistica BBC sopracitato solleva anche un interessantissimo, nonché recente, sviluppo della questione Samosely, ovvero l’afflusso di nuovi individui poco al di fuori della zona di esclusione di Chernobyl. Persone che sono fondamentalmente in fuga dalla critica situazione Ucraina del Dobass e che li ha in un certo senso costretti a cercare una nuova vita tra le macerie di un vero e proprio “mondo perduto” che per quanto pericoloso e soprattutto proibito si è rivelato l’unica scelta fattibile. Questo però, in un certo senso, li rende profondamente opposti ai Samosely “originali” che sono tornati alle loro terre per scelta e soprattutto per amore di queste ultime. Un amore agli occhi di molti (o per meglio dire, agli occhi di pochi) pericoloso ma che il documentarista Fabrizio Bancale[5] ha sapientemente “fotografato” nel suo documentario “Samosely- gli abitanti illegali di Chernobyl”, andato in onda sulla rete Rai.

[vc_btn title=”Guarda il video” color=”primary” size=”lg” align=”center” css_animation=”bounceInUp” link=”url:https%3A%2F%2Fwww.raiplay.it%2Fvideo%2F2020%2F04%2Fspeciale-tg1-916fa845-9d82-41b2-904b-95157c99a55d.html||target:%20_blank|”]

Qui di seguito verrà riportata l’intervista fatta a Bancale sulla sua esperienza diretta con i Samosely e che ha sollevato degli aspetti sorprendentemente diversi da quelli dell’immaginario comune.

L’intervista

L’Ucraina ha affrontato nel corso del novecento tutta una serie di difficoltà: in primo luogo le due grandi guerre, l’invasione nazista e poi il terrore staliniano. Crede che tutto questo può aver influenzato i Samosely nella loro di scelta restare nella loro terra d’origine?

Sinceramente non so se questo abbia influito e non me lo sono nemmeno domandato. L’attaccamento che ho visto alle loro radici è tipico di una cera cultura, che è anche un po’ la cultura russa. Se andiamo a leggere i classici della letteratura russa, c’è sempre questo senso di appartenenza e questo legame con la terra. Se si pensa ai contadini durante i momenti della Rivoluzione russa, nonostante i numerosi cambiamenti, continuano a sentirsi legati alla terra. Quindi io l’ho guardata sempre da questa prospettiva, come un elemento tipico della cultura russa e sovietica.

L’uscita della serie TV Chernobyl ha risvegliato un certo interesse attorno ai tragici fatti dell’86. Questo rinnovato interesse potrebbe apportare dei benefici alla condizione dei Samosely, o addirittura aggravarne la posizione?

Sicuramente la serie TV ha portato dei benefici a me. Questo perché senza la serie TV non ci sarebbe stato il passaggio del documentario in RAI. Fino a qualche anno fa Chernobyl era considerato qualcosa di superato, che non avrebbe destato l’interesse del mondo occidentale. Per quanto riguarda loro (i Samosely), credo che qualsiasi cosa cambi davvero poco. È gente che ha vissuto per trent’anni isolata dal mondo e dalle istituzioni. Dubito che una serie TV possa realmente cambiare le loro vite. Inoltre parliamo di persone anziane, che nel giro di pochi anni potrebbero scomparire.

Quanti Samosely si contano ad oggi?

È una domanda difficilissima, perché come avrete capito c’è un buco nero attorno al tema dei Samosely e questo è evidentemente voluto. Io prima di andare lì ho provato a documentarmi e vi posso garantire che non esisteva nessuna informazione su internet. Dopo il mio documentario, in concomitanza con l’anniversario dei trent’anni dai fatti di Chernobyl, è cambiata la situazione. Ciò dimostra probabilmente la volontà delle autorità sovietiche e post-sovietiche di non pubblicizzare troppo la presenza di queste persone. Credo che loro in un primo momento siano stati visti come delle “cavie”, per capire gli effetti delle radiazioni. Però sono anche la testimonianza vivente di una gestione non ottimale del problema Chernobyl.

I Samosely hanno individuato un responsabile per i tragici avvenimenti di Chernobyl?

Sinceramente non lo so, anche perché non gliel’ho mai domandato. Non mi interessava del resto il loro punto di vista politico, essendo fondamentalmente un documentario di tipo antropologico atto a raccontare la storia di queste persone che contro ogni aspettativa continuano a vivere in un luogo dove non dovrebbe esserci nessuno. Quello che so è che puntano il dito contro il governo sovietico per la gestione dell’evacuazione e nel documentario si evince in varie dichiarazioni.

Da dove nasce l’idea di girare il documentario?

Mi chiamò un amico di nome Massimo Staiti, un giovane produttore di Milano con cui avevo già collaborato e mi propose di andare lì a girare un documentario in occasione dell’anniversario del disastro di Chernobyl. Io risposi “no grazie”, perché pensavo “lì ci andrà mezzo mondo, con mezzi infinitamente superiori ai nostri”. Poi mi ha detto “c’è un mio amico fotografo che ha fatto delle foto a Chernobyl, perché non vieni a Milano a vedere i suoi scatti? Magari ti viene un’idea particolare”.
Così vado a Milano e vedo gli scatti di Giancarlo Pagliara. Tra questi c’erano dei primi piani di vecchietti e gli chiedo “e questi chi sono?” e lui mi racconta brevemente la storia dei Samosely.
Dopo gli chiesi “ma tu hai la possibilità di mettermi in contatto con loro?” e lui disse di si. Così mi venne spontaneo “partiamo domani!”. Per me questa storia meritava di essere raccontata, già solo per il fatto che delle persone vivessero a pochi metri dal reattore di Chernobyl.

Ha ricevuto pressioni da parte delle autorità locali?

Ho avuto dei permessi speciali per arrivare lì, quasi come dei permessi militari.  Avevamo il divieto di avvicinarci alla zona rossa, la più vicina al reattore. Si può pensare che questa sia la più radioattiva in assoluto, ma in realtà quella più pericolosa è il “cimitero dei mezzi”, dove sono depositati tutti i veicoli di soccorso e militari presenti nelle prime fasi dell’incidente. Chiaramente trovandoci lì ci siamo spinti fino in fondo. Così un giorno sentiamo dalla radio del nostro camioncino delle comunicazioni tra i servizi segreti e i check-point militari che dicevano “bloccate la troupe Bancale”. Per cui l’ultimo giorno noi siamo dovuti fuggire. C’è stato anche un inseguimento e ci siamo dovuti nascondere tra gli alberi per non farci prendere. Ci volevano sequestrare le riprese, perché ci eravamo spinti fino alla zona rossa.

Dall’idea che si è fatto, quanto è grave il problema delle radiazioni?

Dire che non c’è un problema, è superficiale: c’è sicuramente un livello di radiazioni superiore alla norma. L’idea che mi sono fatto io, è che le radiazioni hanno avuto un impatto micidiale all’inizio ed è testimoniato dalla morte dei primi soccorritori. Però l’essere umano si è in qualche modo adattato e con esso la fauna e la flora del posto.

Il suo documentario racconta di una Chernobyl diversa e stravolge la narrazione di un luogo pericoloso ed inabitabile, in cui non c’è spazio per la vita. Crede che dietro la vicenda dei Samosely c’è un disegno, oppure la loro condizione di marginalità è un fatto casuale?

Se sono andato lì, è perché avevo la vostra stessa percezione. Nel documentario non dico “loro mangiano funghi”, ma li faccio vedere. Quando ero con loro ho pensato “i funghi li mangiamo insieme. Il pesce dobbiamo andarlo a pescare insieme”. Per quanto mi riguarda tutto questo ha fatto crollare il nostro immaginario collettivo. Non tendo ad essere un dietrologo, non penso che ci sia un disegno dietro. Penso che ci sia stata una gestione sbagliata del problema e poi la volontà di mettere a tacere un po’ tutto.

Pensa quindi che l’Ucraina abbia ereditato dall’Urss la tendenza a voler oscurare la faccenda?

Se fosse diversamente, avremmo avuto molte più informazioni sui Samosely. Non esistono dati ufficiali al riguardo. Mi sembra evidente la volontà di non parlarne. La cosa interessante è che per loro il tempo si è fermato, infatti continuano a parlare di sé come se facessero parte dell’Unione Sovietica. Nel documentario c’è una signora che racconta di aver ricevuto un’onorificenza dell’Unione Sovietica per il lavoro diligente svolto dalla sua fabbrica. Per me questo è già un film dell’Unione Sovietica. Questo è ciò che mi ha affascinato di più, di aver fatto un salto con la macchina del tempo per andare in un mondo che scomparirà. Quasi tutti alla fine delle interviste mi abbracciavano e mi dicevano “fai conoscere la nostra storia”.
Per uno che fa il mio lavoro è il massimo, perché mi hanno dato una responsabilità, quella di raccontare la loro storia. Un altro fatto antropologicamente interessante è che alla domanda “non hai paura di restare?”, hanno risposto tutti allo stesso modo: per loro sono le persone andate via ad essere già morte, perché sono state costrette ad abbandonare la loro terra e le loro case.


Note

[1] R. Service, “Storia della Russia nel xx secolo”, Editori Riuniti, Novembre 1999, Roma, cit., p. 470

[2] Ivi., p.467

[3] Ivi., p.468

[4] https://www.bbc.co.uk/news/resources/idt-sh/moving_to_Chernobyl

[5] Fabrizio Bancale è nato a Napoli nel 1974. Laureato in Giurisprudenza con una tesi sulla “Tutela dei minori nel sistema audiovisivo nella Comunità Europea”, ha lavorato come assistente alla regia sia a cinema che a teatro. Ha diretto i cortometraggi Gulasch (Premio del pubblico e della critica al Festival Lo Sbarco dei Corti); Girotondo; Prima che il gallo canti (Premio Rai Fiction al Festival Internazionale di Sabina). Ha diretto alcuni spettacoli teatrali fra i quali Guardami da Il letto di Giuseppe Manfridi (2002) – Teatro Bellini; Box, (2002) – Teatro Elicantropo; OFF di Mario Gelardi (2003) – Teatro Il Primo e Festival di Benevento. Ha lavorato a Cinecittà dove, in qualità di regista/programmista ha curato le trasmissioni televisive: Sinners (in onda su Sky Cinema Max); Non aprite quella porta(Sky Cinema Max); Borderline – il seme della follia (Sky Cinema Max); Ciak Motori (Sky Nuvolari). Nel 2005 ha firmato la regia delle controcopertine della trasmissione Economix (RAI 3). Con La Panamafilm ha firmato la regia di molti lavori fra i quali il documentario Il Ring Scomparso (miglior documentario al Napoli Film Festival 2010). Nel 2008 ha curato la regia della puntata pilota della Sit-com Family frame, selezionata al Roma Fiction Fest. http://www.italiandoc.it/area/public/wid/UONE/scheda.htm


Foto copertina: Leonid e Ekayerina, foto fornite dall’autore.


[trx_button type=”square” style=”default” size=”large” icon=”icon-file-pdf” align=”center” link=”https://www.opiniojuris.it/wp-content/uploads/2020/08/L’Urss-si-è-fermata-a-Chernobyl-Minervini-Basile.pdf” popup=”no” top=”inherit” bottom=”inherit” left=”inherit” right=”inherit” animation=”bounceIn”]Scarica Pdf[/trx_button]