L’uccisione di Mahsa Amini da parte della polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab ha provocato un’ondata di proteste in tutto il Paese. Internet è stato bloccato e si teme una violenta repressione da parte delle forze governative.
Il 13 settembre Mahsa Amini, ventiduenne, è stata arrestata a Teheran dalla polizia morale iraniana per non aver indossato l’hijab in maniera corretta. Mahsa è morta tre giorni dopo essere stata arrestata, in ospedale, dopo essere entrata in coma. La sua morte ha provocato numerose proteste che, a partire dal Kurdistan iraniano, dove Amini viveva, si sono propagate in tutto il Paese in poco tempo.
L’obbligo dell’hijab
Indossare l’hijab divenne obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979 e, in base all’articolo 638 del codice penale iraniano, le donne che appaiono in pubblico senza l’hijab sono condannate ad una pena che va dai 10 giorni ai 2 mesi o una multa tra i 50 mila e i 500 mila rial.
Il regime ha poi istituito un’unità paramilitare, Gasht-e-Ershad, conosciuta come “polizia morale” il cui compito è salvaguardare l’ordine ed imporre il codice di comportamento islamico.
Con il governo ultraconservatore di Ebrahim Raisi, la polizia morale ha intensificato i controlli ed è stato emanato un nuovo decreto che prevede, oltre a misure più restrittive, anche l’uso del riconoscimento facciale per identificare le donne che hanno un codice d’abbigliamento “improprio”. [1]
Il decreto, approvato il 15 agosto, ha provocato numerose proteste e critiche sui social, in cui alcune donne postavano video mentre rimuovevano il velo con l’hashtag #NoToHijab.
Blocco totale di internet
Il governo iraniano ha bloccato la connessione internet e interrotto Instagram e WhatsApp per “ragioni di sicurezza”. Già durante le proteste del 2019, le autorità iraniane avevano interrotto l’accesso ad internet per evitare la diffusione delle violente repressioni contro i manifestanti. Secondo Amnesty International, circa 321 persone sono state uccise dalle forze di sicurezza iraniane durante le proteste di massa scoppiate nel novembre del 2019. [2]
La paura è che, anche in questa occasione, il blocco alla connessione serva per perpetuare maggiori violenze. Si contano già 31 morti (ma solo 17 secondo le stime governative).[3]
Il governo iraniano sta cercando di far passare le proteste come un assalto all’Islam. Questo serve ovviamente per creare indignazione ed evitare che altri musulmani, sia all’interno del Paese sia all’estero, appoggino il movimento.
Nei video che circolano online, i manifestanti gridano “Zen, Zindagi, Azadi” (donna, vita, libertà)[4] o, ancora, “morte all’oppressore, che sia il re o il Leader Supremo[5]”, riferendosi sia alla monarchia repressiva dello Scià pre-1979 sia all’attuale politica repressiva di Khamenei.
La sola lente religiosa per spiegare le proteste in corso, pertanto, non è sufficiente. Non si manifesta contro l’hijab come simbolo religioso, ma contro l’imposizione statale e la dominazione dei corpi delle donne, in particolare, e di tutti i cittadini, in generale.
Note
[1] https://www.theguardian.com/global-development/2022/sep/05/iran-government-facial-recognition-technology-hijab-law-crackdown
[2] https://www.amnesty.org/en/documents/mde13/2308/2020/en/
[3] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-62994003?at_medium=RSS&at_campaign=KARANGA
[4] https://twitter.com/MEMOrganization/status/1571880602999070720
[5] https://twitter.com/alexshams_/status/1571984546115252230
Foto copertina: Il 13 settembre Mahsa Amini, ventiduenne, è stata arrestata a Teheran Iran