La terza guerra mondiale non ci sarà, ma il futuro del Medioriente rimane preoccupante


L’uccisione di Soleimani contribuisce ad accrescere l’instabilità dell’area mediorientale, le cui conseguenze non tarderanno a manifestarsi, in risposta alla sete di vendetta delle varie milizie pro-iraniane sparse nella regione.


 

Milioni di persone si sono riversate nelle strade della capitale iraniana, per porgere l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, ucciso in un raid aereo la notte del 3 gennaio a Baghdad, su ordine degli Stati Uniti. Definito da Khamenei come “”living martyr of the revolution”, Soleimani, generale delle forze Quds, era una figura di spicco non solo a livello nazionale, ma nell’intera regione mediorientale. Osannato da molti, era considerato una sorta di eroe nazionale per aver difeso il paese dalle minacce esterne, primo comandante ad aver ricevuto la medaglia all’onore dell’Ordine di Zulfiqar[1], il più elevato ordine militare iraniano. La risposta iraniana, ossia l’attacco con droni alle basi americane in Iraq, chiamata appunto “Operazione Soleimani martire” non si è fatta attendere e  rappresenta l’ultimo episodio dell’ escalation tra Washington e Teheran, che ha avuto inizio con il ritiro dall’accordo sul nucleare (JPCOA) e la re-imposizioni di sanzioni economiche.

Questo rientra all’interno della strategia di massima pressione esercitata dalla Casa Bianca, il cui obiettivo è quello di obbligare la controparte a sedersi al tavolo dei negoziati in una situazione di debolezza, in modo da poter concludere un accordo diverso da quello stipulato da Obama, estorcendo, però, i massimi vantaggi per gli USA.

L’accordo era stato ampiamente criticato sia dai principalisti (così chiamata la corrente politica conservatrice iraniana che si ispira ai principi della rivoluzione), che avevano accusato Rouhani di aver venduto il paese agli stranieri, sia da Trump, definendo l’accordo “il peggiore mai negoziato” e un “disastro”. Non stupisce, quindi, che alle ultime elezioni parlamentari in Iran, avvenute il 21 febbraio, i principalisti abbiano ottenuto la maggioranza, soprattutto dopo l’esclusione della maggior parte dei candidati riformisti da parte dei Guardiani della Rivoluzione. Questi ultimi hanno il potere di porre il veto sui candidati e ciò ha permesso ai conservatori di ottenere 221 posti su 290 all’interno del Majles[2]. Questo significa che la linea politica perseguita da Teheran, con ogni probabilità, sarà molto più integralista ed aggressiva in futuro, di confronto con l’Occidente più che di cooperazione e dialogo, questi tratti distintivi della presidenza di Rouhani. Non bisogna, poi, dimenticare che l’Iran è un regime rivoluzionario particolarmente aggressivo, tenace e con grandi capacità di creare forze di sicurezza potenti e leali al regime con significative capacità repressive.
Le tensioni a livello internazionale hanno avuto, inevitabilmente, delle ripercussioni a livello interno, ostacolando, ancora di più, il processo verso la democratizzazione. Il warfare economico portato avanti da USA ha portato alla repressione delle opposizioni interne per allontanare il rischio di contro-rivoluzione, come dimostra la violenta risposta del governo alle recenti proteste.

Per capire la rilevanza dell’uccisione del generale iraniano, è, innanzitutto, necessario capire il ruolo primario ricoperto dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Definita l’organizzazione più importante all’interno del paese, sono state fondate nel 1979 e il loro scopo iniziale era quello di “custodire” l’ideologia rivoluzionaria e garantire la sopravvivenza della neonata repubblica islamica nella sua forma politica ed istituzionale, un esempio unico dal momento che attua una sintesi tra una componente islamica, data la supremazia della classe religiosa, e una componente repubblicana. Le Guardie della Rivoluzione sono di gran lunga più influenti dell’esercito regolare ed hanno il compito di mantenere la sicurezza interna ed affrontare le minacce esterne.
Il loro ruolo, poi, è stato rafforzato con la presidenza di Ahmadinejad, iniziata nel 2005, e durante la quale i Pasdaran hanno ricoperto le più importanti posizioni all’interno del governo. [3]
La conduzione delle operazioni non convenzionali è a loro attribuita, attraverso le Forze Quds, di cui Soleimani era a capo. È da attribuire a queste ultime il sistema di alleanze costruito negli anni, grazie al quale Teheran estende la propria influenza nella regione mediorientale. Noto come “asse della resistenza”, comprende la Siria di Bashar-al-Assad, Hezbollah, Hamas, milizie sciite in Iraq e gli Houthi in Yemen.

Ma al di là del poco probabile confronto diretto tra Iran e Stati Uniti, le conseguenze più gravi della morte di Soleimani potrebbero verificarsi a livello regionale. Il Medioriente costituisce un sistema regionale unico, poiché costituito da confini nazionali porosi e dall’alta permeabilità esterna, eredità degli interventi imperialisti e dell’imposizione di confini non curanti delle identità trans-nazionali. [4] La regione, centro delle crisi mondiali e teatro di prolungati conflitti, è, quindi, già altamente instabile e rischia di diventare incandescente dopo l’omicidio del “martire”.
Inoltre, la cosiddetta “nuova guerra fredda” in Medioriente ha polarizzato il sistema regionale in due fronti contrapposti, attraverso la politicizzazione delle differenze settarie per fini politici. L’asse della resistenza (Iran, Siria, Hezbollah e Hamas) e l’asse sunnita moderato pro-Occidente formato da Arabia Saudita, Egitto, che, tacitamente, include anche Israele e il suo supporto al progetto statunitense di pax americana nella regione.[5]
L’avvenimento, paradossalmente, è avvenuto nel momento in cui si intravedevano delle possibili distensioni tra Arabia Saudita ed Iran. Il tentativo di ridurre le tensioni è avvenuto poche settimane dopo l’attacco alle petroliere saudite nel Golfo Persico, che ha svelato la vulnerabilità delle monarchie del golfo di fronte all’efficace capacità militare asimmetrica sviluppata da Teheran, vulnerabilità aggravata dalla riluttanza statunitense ad intervenire e vendicare le azioni in nome degli alleati sauditi.  Mohammad bin Salman, erede al trono saudita nonché ministro della difesa, si è detto favorevole ad una risoluzione politica e pacifica dell’escalation con l’Iran, poiché il “confronto militare porterebbe l’economia globale al collasso[6], nel momento in cui le monarchie del golfo cercano la stabilità. La stabilità, infatti, appare un requisito fondamentale per attrarre i flussi di investimenti esteri, di vitale importanza per la crescita dell’economia dei paesi del Golfo, anche in vista dei futuri eventi mondiali, l’Expo che avrà luogo a Dubai, e il G20 in Arabia Saudita. Inoltre, il tentativo statunitense di creare un’alleanza in chiave anti-iraniana con Israele ed Arabia Saudita appare fallimentare, tanto più che il cosiddetto “piano di pace” palestinese è stato contestato da Lega Araba e Organizzazione per la cooperazione islamica con sede a Riyadh. [7]

Tuttavia, data l’attuale posizione iraniana all’interno dello scacchiere internazionale, che è particolarmente critica, non è da escludere che la sua azione diventi molto più aggressiva rispetto al passato, nel tentativo di espandere l’influenza nella regione e proteggere il regime rivoluzionario. Negli anni, a causa del senso di isolamento a livello internazionale e alle scarse capacità militari di tipo convenzionale, ha costruito una rete di partner e proxies per difendersi dalle minacce esterne, in linea con ciò che Teheran definisce “forward-defence policy” strategia per cui le potenziali minacce si affrontano fuori dai confini nazionali, attraverso proxy actors, approfittando di situazioni di conflitto altrove, senza danneggiare direttamente l’Iran e la sua popolazione.[8] L’asse della resistenza, pilastro della sua strategia regionale, è la diretta conseguenza di questa strategia. Attraverso la fitta rete di alleati regionali, costituita per lo più da attori non statali, potrebbero avvenire le eventuali rappresaglie contro l’azzardo statunitense.
Secondo Lina Khatib, è altamente improbabile che l’Iran utilizzi il suolo siriano o libanese per condurre la sua vendetta contro USA.
Nonostante i toni fortemente violenti usati dal segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, “una scarpa di Soleimani vale più della testa di Trump. La giusta punizione è attaccare le forze, le basi e le navi militari statunitensi”,[9] il raggio d’azione di Hezbollah è abbastanza limitato. Il Libano si trova ancora nel bel mezzo di una “rivoluzione”, ossia di proteste di massa anti governative, che coinvolgono anche gli esponenti del Partito di Dio. Inoltre, all’interno del Libano non sono presenti basi statunitensi.
Per quanto riguarda la Siria, l’attacco ad una base americana avrebbe dei gravi risvolti poiché, a rendere complicata (e altamente improbabile) questa opzione è il fatto che nelle basi americane in Siria sono presenti anche forze multinazionali che fanno parte della coalizione anti-ISIS.[10]

Il primo probabile teatro di scontro, quindi, sembra essere l’Iraq.  Per Khomeini, l’Iraq costituiva il luogo ideale per estendere la rivoluzione. Difatti, la maggioranza sciita costituiva l’esempio perfetto di mustazafeen, oppressi, poiché poveri e marginalizzati economicamente e politicamente durante il regime baathista.
Già in subbuglio per via delle proteste anti-governative che sono scoppiate ad ottobre e che sembrano non placarsi, le recenti tensioni tra Iran e Stati Uniti hanno aumentato il disordine politico iracheno. Dopo la caduta del regime di Saddam, il conseguente vuoto di potere ha permesso a Teheran di estendere la sua influenza sul paese vicino.
La pesante interferenza negli affari interni iracheni appare evidente dagli slogan cantati dai manifestanti “out, out Iran; free, free Baghdad”[11] . La frustrazione popolare riguarda, in particolare, il potere pressoché illimitato esercitato dalle milizie pro-iraniane, di cui le Brigate Hezbollah, Kata’ib Hezbollah, costituiscono un esempio interessante.
Le Brigate, il cui fondatore, Abu Mahdi al-Muhandis, è stato ucciso con il raid aereo statunitense insieme a Soleimani, riconoscono l’ayatollah Khamenei quale loro leader spirituale ed allineano i loro obiettivi a quelli della Repubblica Islamica.

L’Iraq, quindi, rischia di essere terreno di scontro tra potenze rivali e vari attori regionali, andando a minare, ancora una volta, il già fragile tessuto politico ed economico iracheno, in cui la popolazione civile pagherà le conseguenze di spietati giochi internazionali.


Note

[1] https://en.radiofarda.com/a/soleimani-receives-iran-s-highest-military-medal-from-khamenei/29814571.html

[2]https://www.cfr.org/in-brief/have-latest-elections-strengthened-irans-hard-liners

[3] https://www.cfr.org/backgrounder/irans-revolutionary-guards

[4] Hinnebush R., “The International Politics of Middle East” Manchester University Press, 2003

[5]Hinnebusch R., “The Sectarian Revolution in the Middle East”, in Revolutions: Global Trends & Regional Issues, Vol 4, n. 1, 2016

[6] https://www.aljazeera.com/news/2019/09/saudi-arabia-mbs-war-iran-collapse-global-economy-190930011429697.html

[7] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/golfo-chi-non-vuole-lescalation-25005

[8] International Crisis Group, “Iran’s priorities in a turbulent Middle East”, Middle East Report n°184, 13 aprile 2018

[9] https://english.almanar.com.lb/906820

[10]https://www.chathamhouse.org/expert/comment/how-soleimani-assassination-will-reverberate-throughout-middle-east

[11] https://en.radiofarda.com/a/iraq-protests-slogans-reflect-anti-iran-sentiment/30246333.html


Foto copertina: Mariam Soliman


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