I diamanti insanguinati sono ancora attuali


L’estorsione dell’esportazione delle materie prime è un metodo efficiente di finanziamento per il mantenimento dei movimenti ribelli e la prosecuzione di conflitti civili. Ancora oggi i giacimenti di diamanti sono oggetto di predazione da parte di gruppi armati e movimenti ribelli presenti in Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo.
La comunità internazionale prese coscienza del fenomeno con il conflitto angolano e quello sierraleonese negli anni Novanta, dai quali venne coniata la celebre espressione “blood diamonds”, diamanti insanguinati.


 

Angola e Sierra Leone

Le Nazioni Unite hanno definito i diamanti insanguinati quelle pietre provenienti da aree controllate da forze o fazioni contrarie a governi legittimi e utilizzate per finanziare azioni militari in opposizione a tali governi.[1]
La consapevolezza internazionale emerge con il conflitto civile in Angola, durante il quale il movimento ribelle UNITA (União Nacional para a Independência Total de Angola)[2] si era appropriato dei siti diamantiferi nel nord del Paese.

Ad estrarre i diamanti nelle miniere e nei depositi alluvionali era la popolazione civile razziata dai villaggi e tenuta in condizioni di schiavitù. Le pietre estratte venivano affidate a corrieri che le esportavano illegalmente in Namibia, pronte per essere mescolate con le pietre legali e distribuite nei mercati fino ad arrivare ad Anversa[3], facendo incassare le rendite ai ribelli.
I diamanti venivano anche usati come moneta per ottenere armi, munizioni, equipaggiamenti attraverso le reti criminali per proseguire la guerra.
Stessa cosa avverrà durante il conflitto in Sierra Leone: le pietre grezze consentiranno il proseguimento della politica di terrore da parte del RUF (Revolutionary United Front) e la sua lotta per la presa del potere.
La violenza del conflitto sierraleonese era strategica per il movimento: se da una parte il terrore era funzionale a creare caos, dall’altra parte era utile per allontanare la popolazione civile dalle miniere per prenderne possesso.
I civili risparmiati dalla morte e dalle mutilazioni entravano nelle file del RUF; i più forti fisicamente venivano mandati nei siti di estrazione come minatori.
Dalle zone di raccolta le pietre venivano esportate illegalmente in Liberia nelle mani di Charles Taylor che utilizzava i proventi per la sua guerra personale contro Monrovia.[4]

L’ong Global Witness stima che il RUF abbia guadagnato dal traffico illegale di diamanti tra i 50 e i 125 milioni di dollari all’anno per tutto il periodo in cui si sono appropriati delle miniere. L’appropriazione dei siti minerari da parte dei ribelli lasciò la nazione senza una delle sue fonti principali di reddito, mettendo il governo in grande crisi soprattutto nel finanziamento del bilancio militare. All’esercito furono sottratte risorse per contrastare le azioni dei ribelli, di conseguenza molti soldati defezionarono e si unirono a loro.

Il Kimberley Process

L’emergere dei legami tra i diamanti e le guerre civili africane portò all’elaborazione di strategie e politiche per evitare che le pietre venissero immesse sul mercato globale, aumentando le rendite dei ribelli e prolungando le violenze.

Le Nazioni Unite furono le prime a muoversi ponendo l’embargo sui diamanti provenienti da Angola e Sierra Leone che non avessero certificazione garantita.

Il sistema riuscì in parte a bloccare i flussi dei diamanti insanguinati, ma alimentò indirettamente i flussi del mercato nero, togliendo introiti alle casse degli stati, che all’epoca sorvegliavano ben poco la filiera produttiva, lasciando spazio a fenomeni di corruzione.

Nel 2000 un’iniziativa importante fu il Kimberley Process (da qui KP), regime multilaterale di commercio il cui scopo è la prevenzione del traffico dei diamanti insanguinati.

Dal punto del diritto non può essere considerato un accordo internazionale perché è implementato singolarmente da ogni nazione aderente.

I partecipanti sono i maggiori produttori, esportatori e importatori del diamante grezzo, tra i quali siede l’Unione europea che avuto la presidenza sia nel 2007 che nel 2018.

Questa sinergia tra attori internazionali, industrie, società civile ha permesso di sviluppare il Kimberley Process Scheme (KPS), un sistema di garanzie che certifica che i diamanti non provengono da zone di conflitto. I partecipanti sono tenuti a soddisfare i requisiti minimi attraverso la legislazione nazionale, impegnandosi in pratiche trasparenti che certifichino la provenienza dei diamanti grezzi e commerciare solo con i Paesi aderenti al Processo. Si stima che grazie all’implementazione delle misure decise al KP il commercio illegale di diamanti si sia ridotto dal 15% del 2003 all’1% nel 2018.

Le nuove sfide e le azioni in corso

Il KP ha affrontato la questione dei diamanti insanguinati, sviluppando un sistema di controllo della filiera produttiva che sta producendo buoni risultati, ma la volatilità delle miniere e soprattutto dei depositi alluvionali lascia ancora zone d’ombra in cui regnano violazioni dei diritti umani e il deterioramento ambientale.
La scoperta di filoni e giacimenti porta le popolazioni marginalizzate a prenderli d’assalto per guadagnarsi il pane quotidiano, senza assicurazioni e tutele, rischiando la vita in miniere che da un momento all’altro potrebbero crollare. Queste ultime una volta esaurite vengono abbandonate dando origine a fenomeni di erosione del suolo, che tolgono lo spazio a pascoli e ad attività umane.

La cooperazione internazionale ha implementato progetti di sviluppo per il recupero del territorio eroso dall’attività di estrazione, in prima linea l’Unione europea assieme a USAID ha fornito i fondi per la realizzazione tra il 2013 e il 2018 del “Property Rights and Artisanal Diamond Development Project” in Costa d’Avorio[5], erede del programma minerario statunitense implementato tra il 2007 e il 2013 in Repubblica Centrafricana e in Liberia.

Gli obiettivi principali si concentravano sul rafforzamento della filiera rispettando le norme del KP e il miglioramento delle condizioni di vita della comunità estrattrice delle pietre.

Ad oggi la realtà rimane ancora molto complessa, permangono conflitti civili, gruppi di ribelli e criminali che sfruttano la popolazione locale per l’arricchimento personale e per il proseguimento delle loro cause.
Oggetto di attenzioni è attualmente la Repubblica Centrafricana dove si hanno prove che il gruppo armato Seleka sfrutti le risorse diamantifere per mantenere la sua forza. I risultati tangibili ci sono, ma la speranza è che il KP riesca ad evolversi e a trovare un’unanimità nell’affrontare le sfide ancora aperte della filiera di estrazione di diamanti.


Note

[1]“Conflict diamonds are diamonds that originate from areas controlled by forces or factions opposed to legitimate and internationally recognized governments, and are used to fund military action in opposition to those governments”. https://www.un.org/press/en/2000/20001201.ga9839.doc.html
[2] Il movimento nasce da una scissione dei movimenti indipendentisti contro il dominio portoghese. Il suo fondatore, Jonas Savimbi riuscirà a renderlo un gruppo molto organizzato ed efficace, attraverso anche i finanziamenti provenienti dal traffico illegale di diamanti. In seguito all’indipendenza del Paese portò avanti una lunga guerra civile contro il governo legittimo di Luanda.
[3] È considerata la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti. Quasi la totalità dei diamanti grezzi estratti nel mondo viene lavorata nella città belga che rifornisce le gioiellerie di tutto il mondo.
[4] Il RUF aveva legami con Charles Taylor, il quale dopo la prima guerra civile (1989-1997) divenne presidente della Liberia. Taylor supportò Foday Sankoh nella creazione del movimento ribelle sierraleonese per poter mettere le mani sulle risorse diamantifere del Paese vicino.
[5] https://www.opiniojuris.it/guerra-civile-evitata-durante-le-elezioni-in-costa-davorio/ per un approfondimento sulla situazione in Costa d’Avorio


Foto copertina: Minatori di diamanti a Kono, Sierra Leone, Africa occidentale

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