Il secolo della Turchia: come l’AKP ha cambiato la Repubblica di Atatürk


Il 29 ottobre 2023, la Repubblica di Turchia ha festeggiato il centenario della propria nascita. Tuttavia, a un secolo di distanza, lo Stato fondato da Atatürk ha subito cambiamenti radicali. Tra involuzione autoritaria e ritrovata centralità internazionale, la trasformazione dello Stato turco porta un nome specifico: Recep Tayyip Erdoğan, guida dell’AKP e leader della Turchia da oramai più di vent’anni.


A cura di Filippo Fedeli

«Congratulazioni per il secolo della Turchia. Che la vittoria della grande Turchia sia di buon auspicio»[1].  Queste le parole pubblicate sul profilo Twitter di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani del trionfo nel ballottaggio delle presidenziali, tenutosi lo scorso 28 maggio, contro lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu.
A vent’anni di distanza dalla sua prima nomina a primo ministro, Erdoğan è stato nuovamente confermato alla presidenza dello Stato turco, con un consenso che, seppur diminuito rispetto alle elezioni del 2018, rimane comunque molto alto. Durante il suo lungo mandato, il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) ha cambiato radicalmente il volto della Turchia, smantellando quasi totalmente il sistema istituzionale, laico e con lo sguardo rivolto a Occidente, messo in piedi da Mustafa Kemal Atatürk a partire dal 1923, anno della fondazione della Repubblica.

Erdoğan al potere: i primi anni

Nato nel febbraio 1954 a Kasımpaşa, quartiere popolare di Istanbul, Recep Tayyip Erdoğan iniziò la sua carriera politica nelle file del Partito della Salvezza Nazionale di Necmettin Erbakan e proseguita, dopo lo scioglimento del partito da parte della Corte costituzionale, nel Refah Partisi, con cui fu eletto sindaco di Istanbul a marzo 1993. Una volta messo al bando pure il Refah a seguito del golpe post-moderno (1997), Erdoğan decise di fondare un proprio partito: fu così che il 14 agosto 2001 nacque l’AKP, che trionfò nelle elezioni dell’anno successivo[2].
La schiacciante vittoria dell’AKP (che ottenne il 34% dei voti, equivalente al 67% dei seggi) è dovuta a più ragioni. In primo luogo, si poneva in discontinuità con i partiti turchi tradizionali, considerati dalla popolazione i veri autori della crisi economica e dell’instabilità politica che caratterizzarono gli anni ’90 in Turchia. Secondo, nonostante la chiara ispirazione islamica del suo partito, Erdoğan riuscì a presentarsi come un leader inizialmente moderato, liberale, europeista e filo-occidentale, conquistando un elettorato oltremodo ampio ed eterogeneo[3].

I primi anni furono, in effetti, all’insegna del successo. Anzitutto, l’AKP riuscì a ottenere eccellenti risultati economici: l’inflazione passò dal 55% (2001) al 10% (2005), il PIL crebbe dello 0,4% e la disoccupazione diminuì. Questo contribuì alla nascita di una nuova classe sociale, composta da una rete di piccole e medie industrie (le “tigri anatoliche”), che tutt’oggi costituisce lo zoccolo duro dell’elettorato dell’AKP. Inoltre, vennero riprese le trattative di adesione all’Unione Europea, avviate nel 1999, presentando come condizioni le riforme imposte da Bruxelles[4].

Ci fu dunque una superproduzione di nuove leggi (oltre 400 dal 2003 al 2005), quasi tutte indirizzate nei confronti del vero obiettivo dell’AKP: eliminare il ruolo politico dell’esercito e della magistratura (controllata dall’esercito), garanti dei principi kemalisti. Venne allora ridotto il potere del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che da “guardiano dello Stato” fu retrocesso a organo consultivo; il bilancio della Difesa venne sottoposto al controllo del Parlamento e furono aboliti i Tribunali per la sicurezza dello Stato, composti dai soli militari. La risposta dell’esercito arrivò ad aprile 2007, quando lo Stato maggiore emise il cosiddetto “Comunicato di mezzanotte”, in cui si accusava l’AKP di mettere in pericolo la laicità dello Stato, in quanto partito fondamentalista, e che l’esercito era pronto a intervenire. Lo scontro, che divenne istituzionale, si risolse solamente tra il 2009 e il 2010, con lo scoppio degli scandali giudiziari Ergenekon e Bayloz, grazie a cui vennero epurati i più alti gradi delle forze armate e sostituiti con personalità fedeli all’AKP[5].

Processo che venne favorito anche grazie all’alleanza tra Erdoğan e l’imam Fethullah Gülen, a capo del movimento Hizmet (Servizio): un vero e proprio impero costituito da scuole e istituti religiosi diffusi in tutto il mondo, che con il tempo era arrivato a controllare, nella sola Turchia, 15 università, 50 ospedali, circa 1000 scuole superiori, nonché giornali, tv e radio; riuscendo, inoltre, a infiltrarsi nell’amministrazione pubblica, nella magistratura, nella polizia e persino nell’esercito. Il movimento gülenista aveva acquisito così tanto potere che, a un certo punto, lo scontro con l’AKP divenne inevitabile. L’Hizmet fu così incluso, dopo una lotta interna caratterizzata da scandali e accuse reciproche – e culminata con il (presunto) tentato golpe del 15 luglio 2016 -, tra le organizzazioni terroristiche, con il nome di FETÖ (Fethullahçı Terör Örgütü)[6].

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Il problema curdo e la svolta autoritaria

Un altro aspetto peculiare della Turchia a guida AKP è il rapporto con la popolazione curda. Dopo oltre vent’anni di guerriglia contro il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), Erdoğan si convinse dell’inefficacia della linea dura e cominciò a seguire una “politica di apertura” – annullamento del divieto di parlare curdo in pubblico; creazione di un canale televisivo in curdo; apertura di dipartimenti universitari in lingua curda -, che portò a un effettivo periodo di pace durato fino al 2015 (tant’è che i curdi non parteciparono neppure alle proteste di massa di Gezi Park del 2013). Tuttavia, la situazione andò deteriorandosi, fino alla ripresa delle ostilità, per vari motivi: primo, la causa nazionalista curda riprese vigore grazie ai successi delle YPG (Unità di Protezione Popolare) in Siria contro lo Stato islamico; secondo, Erdoğan aveva bisogno dei voti degli ambienti nazionalisti in vista del referendum costituzionale del 2017. Ciò bastò all’AKP per decidere di interrompere la tregua con i curdi, alleandosi invece con gli ultranazionalisti dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista)[7].

L’accordo con il partito di Devlet Bahceli è, probabilmente, uno degli ultimi tasselli che hanno segnato l’involuzione autoritaria del partito di Erdoğan e, dunque, della Turchia stessa. Processo suggellato definitivamente dall’approvazione del già menzionato referendum costituzionale dell’aprile 2017, che non solo ha modificato il sistema della Repubblica di Turchia da parlamentare a presidenziale, ma ha anche accentrato i poteri nella figura del presidente e indebolito il ruolo dei giudici.

Svolta autoritaria affiancata da una sempre più crescente islamizzazione della vita pubblica, colpo di grazia nei confronti dei principi e delle regole che fanno riferimento alla volontà di Atatürk. Il primo provvedimento in questo senso, adottato nel 2008, fu la reintroduzione dell’uso del velo (vietato nel 1982) nelle università e nei luoghi pubblici. Venne poi incoraggiata la frequentazione dei licei imam hatip (le scuole religiose in cui vengono formati gli imam), il cui numero proliferò fino a contare oltre un milione di istituti nel 2015. Inoltre, gli uffici governativi e gli spazi pubblici furono dotati di locali per la preghiera e vennero aumentate le tasse sugli alcolici per scoraggiarne il consumo[8].

La politica estera: dalla Profondità Strategica alla Patria Blu

Per quanto concerne la politica estera, la rivoluzione nell’approccio geopolitico della Turchia porta il nome di Ahmet Davutoğlu. Ex professore universitario di Relazioni Internazionali, diventò consigliere di Erdoğan durante il primo governo AKP (2002-2007). Nel 2009 gli fu affidato il ministero degli Esteri, mentre nel 2014 assunse la carica di primo ministro.
Secondo Davutoğlu, la Turchia avrebbe potuto ambire al ruolo di grande potenza solamente sfruttando a pieno la sua “Profondità Strategica” verso i paesi vicini, con i quali condivide strette affinità storico-culturali[9]. La penisola anatolica, al centro di tre bacini geostrategici (terrestre, marittimo e continentale), avrebbe dovuto sfruttare la propria posizione geografica, perseguendo una politica estera proattiva e multilaterale con gli Stati limitrofi, in modo da avere “zero problemi con i vicini”. Sarebbe stato dunque fondamentale stringere buone relazioni con tali paesi, dando priorità a quelli a maggioranza musulmana (come Siria, Iraq e Iran), senza però trascurare quelli a maggioranza cristiana (quali Grecia, Bulgaria e Armenia). Secondo tale retorica, Davutoğlu credeva che fosse necessario superare il tradizionale isolazionismo kemalista (il cui motto, “peace at home, peace in the world”, ha contraddistinto la politica estera turca per tutto il periodo repubblicano fino agli anni 2000) e creare uno spazio di interessi economici comuni. Ciò sarebbe stato possibile solo ricalibrando le priorità strategiche di Ankara e abbandonando la logica bipolare caratteristica della Guerra Fredda, dunque svincolandosi dai legami troppo stretti che si erano venuti a creare con l’Europa e gli Stati Uniti.

In altre parole, la Turchia doveva riscoprire la propria natura geopolitica e riacquistare un proprio spazio d’iniziativa indipendente; non necessariamente allontanandosi dalla NATO – di cui Ankara è un membro dal 1952 -, ma allo stesso tempo adottando una politica “di buon vicinato” volta a costruire relazioni bilaterali stabili, di natura politico-economica, con tutti quei paesi riconducibili all’alveo geoculturale che un tempo faceva parte dell’impero ottomano. Da ciò deriva, infatti, il termine “neo-ottomanesimo”, che diventerà la base ideologica della politica estera turca, suggerendo una tensione sempre più convergente fra Islam e Vatan (Patria).

Sebbene nei primi anni abbia portato a dei discreti successi (tra cui i riavvicinamenti con Siria e Iran, difficilmente pensabili fino a qualche anno prima, ma anche un improbabile dialogo con la Russia, culminato con l’acquisto dei missili S-400 nel 2017), la dottrina della Profondità Strategica fallì miseramente con lo scoppio delle Primavere arabe e, in particolare, con l’aggravarsi della crisi siriana. Davutoğlu – che fu costretto a dimettersi dal ruolo di primo ministro nel 2016 – non fu in grado di fronteggiare tutta una serie di crisi che compromisero fortemente la sicurezza nazionale della Turchia: non solo la politica degli “zero problemi” non aveva contribuito a creare buoni rapporti con i paesi vicini, ma aveva condotto alla creazione di Stati governati dal caos e in alcuni casi ostili (come l’Egitto dopo il golpe di al-Sisi ai danni di Morsi, o la formazione di un proto-Stato curdo nella Siria settentrionale).

Convinto che la Turchia fosse ormai giunta sull’orlo del baratro (anche a seguito della scia di attentati, sia di matrice jihadista che curda, che hanno colpito il territorio turco tra il 2015 e il 2016), Erdoğan si convinse che sarebbe stato necessario assumere un atteggiamento più assertivo e pragmatico per risollevare la propria nazione dalla crisi in corso. Questa convinzione risponde alla logica della “difesa avanzata”, secondo cui Ankara non avrebbe più dovuto aspettare che le minacce raggiungessero le proprie frontiere, ma sarebbe dovuta andare ad affrontarle ovunque esse si fossero nascoste[10]: è proprio in questo senso che va interpretato il coinvolgimento militare turco in paesi come Siria, Iraq e Libia.

Tuttavia, oltre a un maggiore impiego di hard power in contesti ritenuti sensibili per la sicurezza nazionale, a partire dal 2016 la Turchia entrò in una nuova fase della sua geopolitica: quella caratterizzata dalla dottrina della Patria Blu (Mavi Vatan), concetto coniato nel 2006 dall’ex ammiraglio Cem Gürdeniz e divenuto negli ultimi anni espressione di una vera e propria agenda politico-militare[11].

Secondo Gürdeniz, sostanzialmente, alla Turchia manca una cultura marittima e, infatti, la sua dottrina fa riferimento all’importanza dello spazio marittimo turco – che comprende i fiumi e i laghi, le acque territoriali, la zona economica esclusiva e la piattaforma continentale -, nonché allo sviluppo di un’efficiente industria bellica, in particolare della marina militare, e di piattaforme per lo sfruttamento energetico. La Patria Blu ha quindi una dimensione aggressiva e, rispetto alla Profondità Strategica, presuppone uno scontro con i vicini, in particolare con Grecia e Cipro. L’area di giurisdizione marittima rivendicata dalla Turchia, infatti, si sovrappone a quelle che, secondo il diritto internazionale, spettano ad Atene e Nicosia, provocando non poche tensioni con i paesi rivieraschi del Mediterraneo orientale che, in più di un’occasione, hanno portato a sfiorare lo scontro militare.

È dunque alla luce della Patria Blu che va letta la firma del memorandum of understanding, concluso nel 2019 tra Ankara e il Governo di Accordo Nazionale libico (GNA), sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive[12]. In cambio, Erdoğan ha offerto il supporto militare al tripolino al-Sarraj (alla guida del GNA), contro le milizie del generale Haftar, leader della Cirenaica giunto alle porte di Tripoli. In questo modo la Turchia è riuscita ad assicurarsi una posizione di preminenza in Libia, che, oltre al potenziale sfruttamento delle risorse energetiche presenti nel paese, permette ad Ankara di proiettarsi sul resto del continente africano e giocare un ruolo di primaria importanza nel Medioceano.

Conclusione

A cento anni dalla fondazione della Repubblica, e in concomitanza con il ventesimo anniversario del suo primo mandato, è possibile affermare come Recep Tayyip Erdoğan sia riuscito a plasmare la Turchia a sua immagine e somiglianza.

In primo luogo, da un punto di vista interno. L’AKP è infatti riuscito nel suo obiettivo principale, cioè inibire il potere dei militari e dei giudici, custodi in ultima istanza dei principi kemalisti (soprattutto quello di laicità), per poi accentrare la maggior parte dei poteri nella figura del suo leader con il referendum costituzionale del 2017. Processo di involuzione autoritaria che si è accompagnato a una sempre più costante islamizzazione della vita pubblica, caratterizzato da provvedimenti come l’abolizione del divieto di indossare il velo nei luoghi pubblici o la riconversione in moschea della Basilica di Santa Sofia[13].

In secondo luogo, da un punto di vista esterno, abbandonando la logica isolazionista tipica del kemalismo, nonché la politica filo-occidentale che ha contraddistinto la Turchia per tutto il periodo della Guerra Fredda. Solo in questo modo Ankara avrebbe potuto svincolarsi dalla “gabbia occidentale” e perseguire una politica estera autonoma, sfruttando la propria “profondità strategica” verso tutti quei paesi che facevano parte dell’impero ottomano. Principi che tutt’oggi rimangono fondamentali nell’approccio geopolitico della Turchia, con la sola differenza che, se la Profondità Strategica suggeriva di stabilire relazioni basate su mutui interessi economico-commerciali con paesi culturalmente affini, la dottrina della Patria Blu risponde alla logica della “difesa avanzata” e impone di perseguire gli interessi nazionali attraverso una politica particolarmente assertiva, che non esclude l’utilizzo della forza militare.


Note

[1] R. T. Erdogan, maggio 29, 2023, Twitter, https://twitter.com/RTErdogan/status/1662956788314931201?cxt=HHwWgoCwxeyYgZQuAAAA.
[2] M. Guidi, Atatürk Addio. Come Erdogan ha cambiato la Turchia, Bologna, Il Mulino, pp. 61-64.
[3] S. Çağaptay, Erdogan, Il Nuovo Sultano, Torino, Edizioni del Capricorno, 2018, pp. 101-108.
[4] M. Guidi, op. cit., pp. 69-73.
[5] Ivi, pp. 65-69 e pp. 73-78.
[6] M. Guidi, op. cit., pp. 83-88; S. Çağaptay, op. cit., pp. 132-134 e pp. 158-161.
[7] S. Çağaptay, op. cit., pp. 161-162 e pp. 172-173.
[8]  V. Giannotta, Erdogan e il Suo Partito AKP. Tra Conservatorismo e Riformismo, Roma, Castelvecchi, 2018, pp. 52-55; M. Guidi, op. cit., pp. 78-81.
[9] Si veda AA. VV., La Profondità Strategica Turca nel Pensiero  di Ahmet Davutoğlu, Pergine Valsugana, Vox Populi, 2011.
[10]  E. Areteos, Mavi Vatan and Forward Defense. The Sinuous Journey of a Republican and Imperial Hybridization, agosto 8, 2020, Diplomatic Academy of University of Nicosia, https://www.unic.ac.cy/da/wp-content/uploads/sites/11/2020/07/Mavi-Vatan-and-Forward-Defence-Evangelos-Areteos.pdf.
[11] M. Ansaldo (intervista a C. Gürdeniz), La Patria Blu nel Mondo Post-Occidentale, in “Limes – Rivista Italiana di Geopolitica”, 2020, n.7.
[12] G. Ferraglioni, Libia-Turchia, Accordo ai Confini dell’Europa: l’Intesa economica e militare tra al-Sarraj ed Erdogan, dicembre 1, 2019, OPEN, https://www.open.online/2019/12/01/libia-turchia-accordo-ai-confini-europa-intesa-economica-e-militare-tra-al-sarraj-ed-erdogan/.
[13] A. Perteghella, Turchia: Tutti i Significati della Riconversione di Santa Sofia, luglio 24, 2020, ISPI, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/turchia-tutti-i-significati-della-riconversione-di-santa-sofia-27067.


Foto copertina:Turkish President Recep Tayyip Erdogan addresses provincial chairmans of ruling Justice and Development Party (AKP) next to giant pictures of himself (R) and of former Turkish president Kemal Ataturk, in Ankara, Turkey 10 October 2019. Turkey has launched an offensive targeting Kurdish forces in north-eastern Syria, days after the US withdrew troops from the area. EPA/STR Il secolo della Turchia: come l’AKP ha cambiato la Repubblica di Atatürk