Migrazioni forzate, emergenza climatica e diritto internazionale: intervista a Cristina Franchini


In qualità di External Relations Associate per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), la dott.ssa Cristina Franchini ha offerto una panoramica delle nozioni giuridiche di rifugiato e sfollato interno con particolare riferimento alla crisi climatica come nuovo fattore alla base delle migrazioni forzate.


Di Valentina Chabert e Alice Stillone

Quali sono i legami tra i cambiamenti climatici e flussi migratori? Possono esistere rifugiati ambientali? Dal punto di vista formale, l’espressione rifugiato climatico appare essere impropria, poiché non è fondata su alcuna norma presente nel corpus giuridico internazionale. Al contempo, essa non riflette il panorama di complessità con cui il clima e la mobilità dell’uomo interagiscono tra loro. Con la crisi climatica in corso, tuttavia, sono aumentate frequenza e intensità con cui si verificano disastri improvvisi, responsabili della fuga di milioni di persone. Spesso si tratta di movimenti di uomini, donne, anziani e bambini all’interno del loro stesso Paese o in quelli confinanti, in un numero che è destinato a salire in modo preoccupante.
Al contempo, nella maggior parte dei casi i territori più esposti dal punto di vista climatico risultano essere anche quelli in cui molto spesso scoppiano conflitti e dove la persecuzione razziale, culturale e politica è più frequente. Per questo motivo, dunque, appare quanto più necessaria una presa di coscienza da parte dell’intera comunità internazionale sulla questione, a partire dalle complessità giuridiche legate allo status di migrante climatico. Di questi temi abbiamo discusso con la Dott.ssa Cristina Franchini, External Relations Associate per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (
UNHCR), che ci ha offerto una panoramica delle nozioni giuridiche di rifugiato e sfollato interno con particolare riferimento alla crisi climatica come nuovo fattore alla base delle migrazioni forzate.

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Cosa si intende per rifugiato e per sfollato interno e a quanto ammonta il numero globale di persone costrette ad abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di guerre e persecuzioni? Quali sono le principali modalità per l’acquisizione di dati relativi a tali fenomeni migratori?

«La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 e il Protocollo di New York del 1967 rappresentano gli strumenti internazionali a carattere universale che danno una definizione di rifugiato, stabilendo i diritti e i doveri dello stesso nei confronti dei Paesi di accoglienza, nonché gli obblighi che gli stati assumono diventandone parte. Sono quindi i pilastri della protezione internazionale dei rifugiati. L’art. 1 A (2) della Convenzione di Ginevra stabilisce che per essere riconosciuta rifugiata, la persona che chiede protezione internazionale si trovi al di fuori dei confini del Paese di cui è cittadina o del Paese di residenza abituale, nel caso sia apolide; che sia impossibilitata ad avvalersi della protezione dello Stato di nazionalità o dello Stato di residenza abituale; che abbia timore di subire persecuzioni nel Paese d’origine per uno dei motivi indicati dalla stessa disposizione (religione, razza, nazionalità, motivi politici, appartenenza ad un gruppo sociale determinato) e, infine, che tale timore sia fondato. Il concetto di “sfollato interno”, invece, non si riferisce ad uno status giuridico specifico, come quello di “rifugiato” che è definito da norme di diritto internazionale, prima fra tutte, appunto, la Convenzione di Ginevra del 1951. Il termine “sfollato interno” è semplicemente descrittivo delle circostanze di fatto dell’individuo e si applica a qualsiasi persona che sia costretta a lasciare la propria casa – indipendentemente dalla causa, ma soprattutto per sfuggire alle conseguenze di un conflitto armato, situazioni di violenza indiscriminata, violazioni dei diritti umani o disastri naturali o causati dall’uomo – ma rimane all’interno del territorio del proprio Paese di origine. Nessun organismo delle Nazioni Unite ha un mandato generale o esclusivo per quanto riguarda gli sfollati interni. L’Assemblea Generale ha autorizzato l’UNHCR a condurre operazioni in determinate circostanze per garantire protezione e fornire assistenza umanitaria agli sfollati interni, chiarendone il ruolo all’inizio degli anni 1990 e stabilendo criteri formali per il suo coinvolgimento.  A livello globale, il Comitato Permanente Inter-Agenzia (Inter-Agency Standing Committee – IASC) ha sviluppato un approccio di coordinamento tra agenzie all’interno del processo di riforma umanitaria per la risposta alla situazione degli sfollati interni, in base al quale l’UNHCR ha assunto la leadership del cluster globale per la protezione e la co-leadership per il coordinamento e la gestione dei campi e degli alloggi di emergenza. Per quanto riguarda la raccolta dei dati, invece, UNHCR rende pubblici quelli relativi alle persone sotto il proprio mandato in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che si celebra ogni anno il 20 giugno, quando viene presentato il rapporto Global Trends. L’obiettivo principale di questo rapporto è l’analisi delle tendenze statistiche delle persone richiedenti asilo, rifugiate, sfollate e apolidi in tutto il mondo, nonché il numero di persone che sono tornate nei loro Paesi o aree di origine. Il rapporto, le cui cifre si basano sui dati riportati dai governi, dalle organizzazioni non governative e dall’UNHCR, viene pubblicato una volta all’anno e riflette l’anno precedente. Questi dati, soprattutto per quanto concerne gli spostamenti forzati dovuti a catastrofi naturali e agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, vanno letti insieme a quelli pubblicati ogni anno da IMDC – International Displacement Monitoring Centre, il cui Il Global Report on Internal Displacement (GRID) è la principale fonte mondiale di dati e analisi sugli sfollati interni costretti a lasciare la propria zona di origine sia a causa di conflitti e violenze sia perché indotti da disastri naturali. Al fine di avere una stima completa e affidabile degli sfollati, per ciascun evento climatico che causa situazioni di sfollamento interno, vengono raccolte informazioni da diverse fonti, ossia autorità governative, agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, tra le quali UNHCR, banche dati globali, organizzazioni della società civile, organi di informazione.»

Accanto a guerre, violenze e persecuzioni, è ormai assodato come la crisi climatica costituisca un ulteriore fattore alla base delle migrazioni forzate. In che modo siccità, alluvioni e catastrofi naturali impattano sul numero di rifugiati e sfollati interni? E quali sono le aree maggiormente interessate da tale fenomeno?

«L’emergenza climatica non sta solo cambiando il nostro pianeta, ma ha anche un impatto devastante sulle persone, amplificando la frequenza e l’intensità dei disastri che determinano le migrazioni forzate. La crisi climatica può infatti innescare lo sfollamento, agendo come un moltiplicatore di fattori di rischio, esacerbando le tensioni esistenti e aumentando il potenziale di conflitti. Il clima e le condizioni meteorologiche estreme, insieme a conflitti, stanno infatti provocando sempre più sfollamenti in tutte le regioni. L’80% degli oltre 100 milioni di rifugiati e degli sfollati nel mondo proviene dai Paesi più vulnerabili al clima. Nell’ultimo decennio, si stima che più di quattro rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni su cinque abbiano avuto origine da Paesi che sono altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Il legame tra cambiamento climatico e sfollamento è chiaro e crescente. Lo vediamo nel Corno d’Africa, dove le persone sono costrette a fuggire a causa di una combinazione di conflitti e siccità. Lo vediamo anche nel Sahel, regione caratterizzata dall’interazione tra conflitti, violenze, crisi climatica, il degrado ambientale, insicurezza alimentare, dove registriamo oltre cinque milioni di persone sfollate e rifugiate. L’emergenza climatica può inoltre peggiorare le condizioni di vita nei Paesi di accoglienza, sia per le persone costretta alla fuga che per le comunità ospitanti. Lo possiamo osservare in Pakistan, che con 1.5 milioni di rifugiati, è il terzo Paese di accoglienza al mondo e, al contempo, è tra i Paesi più esposti all’emergenza climatica. Le piogge e le inondazioni della fine di agosto del 2022 hanno causato almeno 1.700 morti e 12.800 feriti, tra cui almeno 4.000 bambini. Circa 7,9 milioni di persone sono state sfollate a causa delle inondazioni. Tra le province più colpite, ci sono quelle che ospitano anche 800.000 rifugiati afgani.
In questi contesti, come in altre zone vulnerabili all’emergenza climatica, l’UNHCR sta mettendo in atto soluzioni per intensificare la risposta alla crisi climatica, in particolare per ridurre i rischi che i cambiamenti climatici comportano per i rifugiati e gli sfollati interni.»

La Convenzione di Ginevra del 1951 costituisce il pilastro normativo su cui si regge la protezione internazionale dei rifugiati. Può tuttavia tale Convenzione fornire un’adeguata tutela anche agli individui che fuggono a causa dell’emergenza climatica?

«L’espressione “rifugiato climatico” viene spesso utilizzata in modo non tecnico per far emergere le necessità di protezione delle persone che sono costrette a lasciare il proprio Paese nel contesto delle conseguenze dell’emergenza climatica e dei disastri naturali. Nel diritto internazionale, tuttavia, non esiste alcuna norma che definisca tali bisogni di protezione specifici. In queste circostanze, sebbene il diritto internazionale non contempli forme di tutela specifiche, le persone possono essere considerate rifugiate ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 quando i criteri da essa previsti siano soddisfatti. Merita, a questo proposito, accennare alla portata innovativa del caso Teitiota contro Nuova Zelanda che ha di fatto confermato l’esistenza di un possibile rischio personale dovuto alle conseguenze dell’emergenza climatica. Il caso, giunto davanti al Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, riguarda il ricorso presentato da un cittadino di Kiribati contro la decisione delle autorità giudiziarie neozelandesi che non gli riconoscevano il diritto di asilo. Il ricorrente lamentava come l’impatto delle conseguenze provocate dall’innalzamento del livello del mare, ossia la progressiva erosione della costa, la scarsità d’acqua dolce per l’allevamento e l’agricoltura e la salinizzazione dei terreni, avrebbero compresso il suo diritto alla vita, di cui all’art.6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Sebbene la pronuncia non sia stata favorevole al signor Teitiota, in quanto non sono state rilevate prove sufficienti a dimostrare l’esistenza di un pericolo immediato per la sua vita, tuttavia il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha affermato un importante principio, ossia che gli effetti dell’emergenza climatica possono minacciare i diritti previsti dal Patto internazionale per i diritti civili e politici, incluso il diritto alla vita, innescando così obblighi di non-refoulement ed il diritto ad una forma di protezione in caso di danno imminente. Questa giurisprudenza sarà fondamentale per creare le basi per forme di alternative di protezione a quella disposta dalla Convenzione di Ginevra del 1951, nel caso in cui la situazione personale non integri i requisiti specifici di cui all’art. 1(A)2 di suddetta convenzione, ma sussista ugualmente un rischio in caso di rientro nel Paese di origine.»

Data l’assenza del riconoscimento della categoria del rifugiato climatico nel diritto internazionale, come si possono interpretare le linee guida dell’UNHCR per la promozione e il chiarimento degli ambiti di applicazione della Convenzione di Ginevra?

«Come sopra accennato, le persone possono essere considerate rifugiate ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, qualora la loro situazione personale integri i requisiti di cui all’art. 1(A)2 che definisce come rifugiato la persona che abbia un fondato timore di persecuzione per uno o più motivi previsti dalla stessa norma e le autorità del Paese di origine non possano o non vogliano fornire protezione. A questo proposito, nell’ottobre del 2020 l’UNHCR ha pubblicato delle considerazioni legali[1] in merito alle richieste di protezione internazionale presentate nel contesto degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e dei disastri naturali. Tale strumento è utile agli operatori del diritto al fine di poter valutare correttamente i bisogni di tutela anche in queste circostanze, partendo dalla considerazione che l’emergenza climatica interagisce con altri fattori che determinano gli spostamenti forzati. L’indicazione rivolta a chi si trovi a valutare una domanda di protezione internazionale presentata nel contesto degli effetti negativi di cambiamenti climatici è di affrontare tali richieste di protezione evitando di concentrarsi in maniera restrittiva sull’evento climatico in sé, ma di svolgere un’indagine approfondita sull’interazione degli effetti negativi della crisi climatica e dei disastri naturali con le altre cause che determinano gli spostamenti forzati, quali situazioni di conflitto, violenza, pratiche persecutorie, di discriminazione o esclusione sociale nei riguardi di determinate categorie o gruppi di persone. Seguendo tale approccio, risulterà che, sebbene non tutte le persone costrette alla fuga in un contesto di cambiamenti climatici e disastri soddisfino la definizione di rifugiato, molte fra di esse potrebbero avere motivi validi per temere persecuzioni per chiedere e ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Per esempio, sulla base delle condizioni politiche, sociali ed economiche di un Paese colpito da un disastro ambientale, determinate categorie di persone, già marginalizzate o in condizione di vulnerabilità, come le donne, i bambini, gli anziani, le persone disabili, la popolazione indigena ed altri gruppi minoritari, potrebbero essere particolarmente a rischio. Alcuni gruppi di persone – quali attivisti, ambientalisti e giornalisti – potrebbero inoltre essere presi di mira, così come determinate parti della popolazione potrebbero essere escluse in maniera discriminatoria dagli interventi di prevenzione o di mitigazione del rischio, generando un fondato timore di persecuzione. Il degrado ambientale potrebbe anche diventare una vera e propria arma di oppressione nei confronti di alcune parti della popolazione, qualora le risorse naturali o le terre ancestrali venissero deliberatamente distrutte per perseguitare parti della popolazione. Ancora, l’insicurezza alimentare e il mancato accesso al cibo come conseguenza di carestie ed altri disastri naturali potrebbero essere alla base di un fondato timore di persecuzione, nel caso in cui le privazioni fossero realizzate in maniera discriminatoria nei confronti di parte della popolazione. Infine, lo status di rifugiato potrebbe essere riconosciuto anche laddove gli effetti negativi del cambiamento climatico o dei disastri ambientali interagissero con conflitti e violenza, esacerbandola e rendendo per questo lo Stato incapace di proteggere le vittime, con conseguente fondato timore di persecuzione per uno o più motivi di cui all’art. 1(A)2 della Convenzione del 1951.»

Quali sono le principali attività dell’UNHCR per la tutela di coloro che sono costretti a spostarsi a causa dei cambiamenti climatici?

«In quanto organizzazione dedicata alla tutela delle persone rifugiate, sfollate interne e apolidi e sulla base dell’impegno nei processi di applicazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l’azione per il clima, già da tempo una priorità per l’UNHCR, è stata ulteriormente rafforzata. Nel gennaio 2020, l’Alto Commissario ha nominato Andrew Harper come consulente speciale per l’azione sul clima, al fine di intensificare gli sforzi per affrontare l’emergenza climatica e garantire una migliore tutela alle persone costrette alla fuga nel contesto degli effetti della crisi climatica e dei disastri naturali. Nel dicembre 2020, inoltre, è stato approvato un nuovo quadro strategico per l’azione sul clima, che definisce la risposta dell’UNHCR all’emergenza climatica fondata su tre pilastri. L’UNHCR è innanzitutto impegnato sul piano dell’advocacy per assicurare una corretta interpretazione e applicazione dei quadri normativi per la tutela delle persone costrette alla fuga con rifermento all’impatto dell’emergenza climatica. L’impegno per il clima di UNHCR si sviluppa quindi nella gestione operativa del proprio mandato, al fine di una migliore programmazione per la preparazione e riduzione dell’impatto ambientale, attraverso l’analisi del rischio ambientale e la conseguente adozione di azioni concrete volte a tutelare sia le persone che l’ambiente. Il terzo pilastro, infine, si concentra sul maggiore accesso all’energia pulita, una migliore pianificazione degli insediamenti delle persone displaced che prevedano condizioni di alloggio durature e una gestione sostenibile delle risorse idriche. Si lavora, pertanto, sulla prevenzione e sulla preparazione per anticipare e rispondere ai crescenti eventi climatici, al fine di essere proattivi nella risposta agli spostamenti indotti dal clima. Infine, UNHCR si impegna a migliorare la sostenibilità ambientale all’interno delle proprie operazioni e i propri uffici, in funzione di mitigazione con azioni volte a ridurre le emissioni di gas serra. Infine, attraverso la partecipazione a vari fora internazionali, come le COP, ossia le conferenze delle parti della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l’UNHCR guida e promuove un’azione climatica che include le persone rifugiate, sfollate e apolidi, garantendone la protezione sulla base dei loro bisogni specifici, e si impegna a dare voce ai Paesi e alle comunità che li ospitano, tra i più colpiti in modo sproporzionato dell’emergenza climatica, nonostante siano quelli che vi abbiano contribuito meno.»


Note

[1] https://www.refworld.org/cgi-bin/texis/vtx/rwmain/opendocpdf.pdf?reldoc=y&docid=63c978084


Foto copertina: A young Ethiopian refugee collects a mattress at a transit site in Hamdayet, Sudan. ; A worsening crisis is unravelling in northern Ethiopia, where clashes between the Ethiopian army and forces from the Tigray region are driving thousands of people to flee – more than half of them children. Since the violence began in early-November 2020, more than 33,000 people have fled into Sudan in search of safety, overwhelming the current capacity to provide aid. The majority have crossed at Hamdayet border point in Kassala state and others at Lugdi in Gedaref state. The transit centre at Hamdayet is designed to accommodate 300 refugees but is currently struggling to deal with some 6,000 people. UNHCR