Attraverso tre pubblicazioni, affronteremo il caso del più grave attacco al cuore dello Stato subito dalla Repubblica Italiana.
Il rapimento e l’omicidio del Presidente della Dc Aldo Moro rappresentano, ancora oggi, il punto di scontro massimo tra gli organi democratici del Paese e le frange più estremiste della parabola della lotta armata italiana. Il contesto anticipatore, la politica morotea e l’avvicinamento all’area comunista della sinistra democristiana gettarono su Moro l’insana immagine del destabilizzatore di importanti equilibri politici internazionali. Per la prima volta nella storia repubblicana del Paese si tentò di costruire l’ormai non più rimandabile “alternativa democratica” con l’inclusione del più grande partito comunista dell’Europa Occidentale nel governo italiano. Un tentativo di modernizzazione del sistema politico, che avrebbe incluso nell’esecutivo maggior rappresentanza del tessuto sociale, represso nel sangue: il primo atto della crisi del Terzo sistema partitico italiano che culminerà nel 1992 con l’inchiesta Mani pulite.
A cura di Gianmarco Castaldi
Ogni passaggio storico-politico, caratterizzato da fumosità diffuse, più o meno importante, che ha attraversato gli anni del Terzo sistema partitico ha spesso avuto una delimitazione, sia in termini storici che giuridici, poco definibile.
Così è stato per il “Piano Solo”; così è stato per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli; così è stato per il rapimento e l’uccisione del Presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, il più oscuro evento tragico della Prima repubblica che ha travolto l’Italia durante la primavera del 1978.
La storia del consolidamento democratico del più importante Paese di frontiera del blocco occidentale, secondo solo alle due Repubbliche tedesche – Federale a ovest e Democratica a est – in termini di pericolosità di collisione durante la Guerra fredda, non ha come attori principali drammatici fatti singoli ma un unico quadro di insieme, che ha assunto nel tempo toni talvolta esplicativi altre volte poco chiarificatori. In particolare, il collante magmatico che ha segnato in parte questo periodo, e che proprio tra il 1977 e il 1978 raggiunse il suo apice di fragorosa forza, è la cosiddetta “Strategia della tensione”. In maniera diffusa, tale spacco storico viene delimitato tra due date simbolo: il 12 dicembre 1969, anno della bomba esplosa all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano in piazza Fontana, e il 2 agosto 1980, giorno dell’esplosione di un ordigno nella sala d’aspetto della stazione dei treni di Bologna. In buona sostanza si trattava di un piano strategico e occulto, più o meno definito dal punto di vista temporale, che aveva l’obiettivo di trasportare le posizioni convogliate sui due opposti estremismi (destra-sinistra), in crescita già dalla fine degli anni sessanta, al centro del sistema politico italiano.
All’interno di questo nodo centrale della matassa convivevano i partiti più vicini alle posizioni filo-atlantiste o comunque anticomuniste: su tutti, la Democrazia cristiana. Il modus operandi prevedeva l’utilizzo di metodi tipici del terrorismo politico per alimentare la paura di una presa del potere da parte dei neofascisti da un lato e dei comunisti dall’altro; schieramenti entrambi coinvolti, già dalla fine della Seconda guerra mondiale, in uno scontro fazioso, violento e ideologico tutto novecentesco.
Oggi le principali accuse fanno riferimento a una regia della “Strategia della tensione” attribuibile ai cosiddetti “corpi separati” dello Stato o comunque a pezzi di servizi segreti deviati, non solo italiani ma anche e soprattutto internazionali.
Le motivazioni alla base dello sviluppo delle condizioni favorevoli all’attuazione del progetto eversivo della tensione risiedono in primo luogo in un cambio progressivo ma rapido delle condizioni della società italiana al termine degli anni sessanta.
Il boom economico degli anni cinquanta era ormai finito da tempo.
La situazione economico-sociale agropastorale antecedente alla ricostruzione del Dopoguerra aveva ceduto, negli anni del centrismo democristiano, il passo a una industrializzazione massiccia che aveva portato con sé gioie e dolori del progresso. Nel decennio successivo, le condizioni disumane dei lavoratori nelle fabbriche unite agli strascichi di un risentimento verso la nuova democrazia da parte di chi aveva pronosticato un futuro diverso per l’Italia dopo Mussolini trovarono sfogo, durante l’anno simbolo della contestazione – il 1968 –, negli scontri di piazza tra alcune frange delle masse popolari e l’ordine pubblico. Una situazione cocente che destò non poche preoccupazioni ai “corpi separati” sul piano delle derive possibili di un inasprimento delle lotte dei lavoratori e degli studenti.
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Dal punto di vista politico, sul piano interno, la bomba di piazza Fontana arrivò in seguito a una parziale e iniziale crisi dell’esperimento moroteo del Centro-sinistra – una soluzione governativa che comunque durerà, non senza difficoltà, fino al 1976 circa – . Questa formula riformistica aveva tranquillizzato fino ad allora la regia occulta in quanto, pur contenendo al suo interno le posizioni non del tutto rassicuranti del Psi, aveva contribuito in un certo senso a consegnare al Partito comunista italiano una relegazione permanente, almeno in quel periodo, nell’area dell’opposizione. Un fallimento notevole invece, date le condizioni sociali esacerbate nel biennio ’68-’69, avrebbe probabilmente gettato le basi per un pericoloso spostamento su posizioni comuniste, o peggio ancora sovietiche, delle masse popolari italiane.
Questa situazione maturò inoltre in un contesto di grande riflessione internazionale soprattutto nell’area politica di sinistra. In modo particolare, all’interno della grande famiglia dei marxisti-leninisti, specialmente nelle forme intellettuali e politiche extraparlamentari, cominciò a consolidarsi l’innesto di una via alternativa alla pacificazione per il raggiungimento della società socialista.
La novità, quindi, si irretì tutta sulla presa in carico, non più esclusivamente teorica, di un processo rivoluzionario di cambio sociale, economico e politico.
E la rivoluzione, come è noto, si fa con le armi.
Restano comunque interrogativi di fondo che riguardano la consapevolezza dei politici italiani, non solo democristiani, dell’attività carsica dei “corpi separati”. Un’attuazione quindi del costrutto teorico per cui in seguito a un diffuso disordine, architettato sull’onda della già crescente massa eversiva e attribuito in maniera esclusiva agli estremismi violenti, il centro ideologico e la moderazione ritornerebbero gli unici rappresentanti dell’ordine democratico.
Foto copertina: Aldo Moro