Il 20 gennaio 2021, il Presidente eletto Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca, dopo settimane di grande incertezza politica in seguito ai tragici fatti del 6 gennaio. Il ritorno di un Presidente cattolico alla Casa Bianca, dopo John Kennedy, potrebbe rappresentare un nuovo corso per gli Stati Uniti d’America? Abbiamo avuto un dialogo con il Prof. Settimio Stallone, docente di Relazioni Internazionali della Università Federico II di Napoli.
A poche ore dall’insediamento, il Presidente ha firmato il rientro US nell’ OMS ed il rientro negli accordi di Parigi sul clima. Quali saranno le sfide e i rischi che la nuova amministrazione sarà chiamata ad affrontare nel prossimo futuro? Quali potrebbero essere le vie della nuova diplomazia targata Biden? Ne parliamo con il Prof. Settimio Stallone, docente di Storia delle Relazioni Internazionali e Storia delle Organizzazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Nel suo programma elettorale, il Presidente eletto Joe Biden ha inserito il ritorno degli Stati Uniti al JCPOA, l’accordo sul nucleare con l’Iran, firmato nel 2015 dall’amministrazione Obama – di cui lo stesso Biden era parte – fino al ritiro voluto da Donald Trump nel maggio 2018. Come riuscirà Biden a convincere l’Iran a ritornare al precedente accordo e quale potrebbe essere la posizione di Teheran al riguardo?
“Il discorso è complesso ed è difficile fare una previsione. L’Iran è un paese molto debole, alle prese con difficoltà economiche, difficoltà sociali e difficoltà politiche. Gli eventi dell’ultimo anno – l’uccisione del Generale Qasem Soleimani[1]; la controversa e ancora oscura uccisione di uno dei principali scienziati nucleari iraniani, fra l’altro a poche decine di chilometri di distanza da Teheran, in pieno giorno, probabilmente attribuibili ai servizi israeliani[2] – hanno evidenziato la debolezza del regime iraniano in questo periodo. Una debolezza che dipende dall’isolamento internazionale, dalle sanzioni economiche.
L’Iran oggi in Medio Oriente è un paese isolato, tanto è vero che per ragioni economiche, tecnologiche più che politiche ha dovuto rivolgersi alla lontana Cina. L’Iran ha tutto l’interesse che l’accordo torni in vigore anche perché si trova in una condizione di debolezza tale da non poter negoziare.
Biden potrebbe persuadere gli americani del fatto che, sottrarre l’Iran dall’amicizia cinese e dare agli europei un qualcosa che chiedono da tempo e verso cui Trump non aveva dimostrato alcuna disponibilità, può essere una ottima ragione per ritornare ad un accordo imperfetto ma che aveva consentito di normalizzare una condizione di tensione nel Golfo Persico, di cui il sistema ha pagato il prezzo negli ultimi anni. Pensiamo allo Yemen, agli attacchi alle petroliere transitanti nello stretto di Hormuz, pensiamo all’abbattimento dell’aereo ucraino ad opera della contraerea iraniana. Tutti eventi spiacevoli che la comunità internazionale vuole evitare, inaugurando una nuova stagione basata sul multilateralismo dopo Trump. Aggiungo che la politica di Trump nei confronti dell’Iran non è stata totalmente sbagliata, perché ha indebolito l’Iran fortemente, e l’ha messa nelle condizioni di accettare, probabilmente, accordi più stringenti rispetto a quelli sottoscritti con l’amministrazione Obama.”
Di recente anche il Marocco – dopo Sudan, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti – ha avviato un processo di normalizzazione dei rapporti con Israele, aderendo ai cosiddetti “Accordi di Abramo”, frutto della diplomazia Trumpiana. Molti, però, sono i paesi che invocano un ritorno al tavolo delle trattative per quanto riguarda la questione palestinese. Quale pensa sarà la posizione dell’amministrazione Biden?
“Il Marocco è un paese lontano dal Medio Oriente, ha avuto sempre ottimi rapporti con l’Occidente ed è il più stabile dei paesi della area MENA[3]; il Bahrain è un piccolo paese che si distingue per popolazione per maggioranza sciita, che è stato utile sottrarre alla influenza iraniana; Gli Emirati arabi uniti sono sostanzialmente la piazza forte dell’Occidente nel Golfo. Altri paesi seguiranno, penso ad Oman, Kuwait, probabilmente Arabia Saudita.
Gli Accordi di Abramo hanno una loro importanza. Trump se li è giocati, diciamo, come ultima carta della sua politica estera prima delle elezioni. Trump ha svolto una politica di grande vicinanza con Israele grazie anche al genero Jared Kushner.
Questa politica continuerà, credo, seppur con minore attenzione da parte di Biden. Non dobbiamo dimenticare, che storicamente, i presidenti democratici si dedicano particolarmente ai temi domestici, i quali, in questo momento, sono tanti e anche di difficile soluzione.
Sulla questione palestinese, ahimè, credo che il popolo palestinese non abbia molto da aspettarsi. Ormai la questione palestinese è diventata secondaria nel rapporto tra paesi arabi e Israele[4].
Israele ha, di fatto, risolto i problemi legati con il terrorismo interno, o comunque proveniente da Gaza e dalla Cisgiordania, in un contesto in cui l’Iran è debole e la Siria, praticamente non esiste più o comunque è uno stato che esiste sulla carta. Sarebbe il caso che l’Europa si muovesse pensando, soprattutto sotto il profilo umanitario e assistenziale, alle sofferenze delle popolazioni della striscia di Gaza, in particolare, ipotizzando di varare politiche di assistenza volte a privare Hamas e Hezbollah, nel sud del Libano, di quello che è un bacino sempre florido da cui attinge il terrorismo internazionale e mediorientale.”
L’insofferenza di Trump verso gli alleati europei – in particolare verso la Germania – di questi ultimi quattro anni ha stravolto l’equilibrio prestabilito nelle relazioni transatlantiche. Lo scontro politico e commerciale con l’Unione Europea ha coinvolto indirettamente la stessa NATO, creando non poche tensioni tra gli alleati. Pensa che Biden riuscirà a ricucire lo strappo tra le due sponde dell’Atlantico? Potremmo aspettarci una maggiore attenzione statunitense alla geopolitica dell’area europea e mediterranea ovvero toccherà all’Europa assumere un ruolo di maggiore autonomia e responsabilità?
“Non credo che Biden cambierà molto la politica di Trump nei confronti dell’Europa. Cambieranno le forme, ma la sostanza credo che non cambierà. Sia pur con i modi sbagliati, l’amministrazione Trump ha sollevato dei problemi esistenti. L’Europa spende poco per la difesa, soprattutto paesi molto ricchi come la Germania. Che un paese come la Germania spenda meno del 2% del PIL all’anno nella difesa, è particolarmente grave. Gli Stati Uniti vorrebbero che la Germania fosse in Europa quello che per loro è il Giappone in Asia. La politica di Trump era una politica pre-Covid e l’Europa, probabilmente, per i prossimi dieci anni, sarà alle prese con la ricostruzione della propria economia e della propria società.
Biden chiederà un maggiore impegno all’Europa, nei nodi fondamentali della politica estera. L’Europa negozierà questo maggiore impegno con un maggior coinvolgimento in alcuni dossier importanti per la presidenza americana, il primo è l’Iran, come abbiamo detto, e l’altro è la Cina.
Un altro punto è la NATO. Questa deve assolutamente riformarsi. Dobbiamo capire cos’è questa NATO. È una struttura militare integrata di cui gli Stati Uniti si servono per mantenere un coordinamento in Europa, soprattutto nei confronti della Russia, oppure può diventare qualcos’altro? Negli ultimi mesi della presidenza Trump si è preso in considerazione il recupero di quella vecchia NATO asiatica degli anni ’50 e ‘70, la SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) che potrebbe vedere la politica estera americana dotarsi di due pilastri politici, economici e militari in Asia e in Europa, atti a contenere i due veri pericoli per il mantenimento della supremazia americana nel mondo, ovvero Russia e Cina.”
La guerra commerciale con la Cina è stata il punto nevralgico dell’agenda politica trumpiana. Alcuni osservatori hanno lanciato l’ipotesi che la politica di Biden non si discosterà tanto dalla via del suo predecessore. Quale pensa possa essere, dunque, la postura di Washington verso l’espansionismo di Pechino in futuro?
“È difficile dire quello che potrà essere il rapporto US-Cina. La Cina sarà molto importante per la amministrazione Biden. Dovremmo, però, pensare che quella di Biden sarà una amministrazione di transizione e nei quattro anni del post-Covid, è difficile che ci siano grandi novità. Entrambi i players, americani e cinesi, non hanno alcun interesse a innalzare le tensioni. Aggiungo, inoltre, che la Cina non è pronta militarmente, scientificamente, tecnologicamente a reggere un confronto duro con gli Stati Uniti.
Biden, d’altra parte, non ha alcun interesse ad aumentare le tensioni con la Cina in un periodo in cui deve risolvere tanti e gravi problemi interni e in un periodo in cui gli USA non sono in condizioni di forza. Ricordiamo che, quando gli Stai Uniti hanno attraversato momenti difficili della loro storia, come negli anni della guerra in Vietnam, hanno portato avanti una politica estera conservativa e distensiva.
L’auspicio è che Biden cambierà approccio, nel senso che cercherà di coinvolgere gli europei e i partner asiatici. Naturalmente la struttura militare e politica US continuerà a prepararsi nel caso del peggior scenario possibile, ovvero di uno scontro con la Cina. Ragion per cui, continueranno i preparativi militari per contenere l’espansione cinese nel Pacifico, continuerà il corteggiamento americano verso alcuni paesi che oggi non digeriscono l’ascesa cinese, Corea del Sud, Giappone, Australia, in un certo senso Taiwan.
Il nodo su cui secondo me si dovrebbe insistere, più che la guerra commerciale, sarebbe quella di far capire ai cinesi che se vogliono essere parte, attiva e positiva, della comunità mondiale devono rispettarne le regole. Della necessità di alcune riforme interne, volte a far sì che la società cinese possa almeno lontanamente avvicinarsi agli standard, in campo di diritti civili e politici, esistenti in Occidente. Purtroppo, la Cina oggi è lontanissima da questi standard, non solo se paragonata agli Stati Uniti, ma anche se paragonata alla Russia e stiamo parlando di un paese autocratico.”
In che modo la nuova amministrazione Biden gestirà i rapporti con due players molto attivi nello scacchiere internazionale: Russia e Turchia?
“La Russia è una grande incognita. Io credo che Biden punterà a continuare ad isolare la Russia rispetto al contesto internazionale. Temo, purtroppo, che l’Europa finirà col seguirlo. Soprattutto perché verrà meno la guida della Cancelliera Merkel. L’Europa si troverà, quindi, con un vuoto pesantissimo. Sono un sostenitore del fatto che l’Europa debba recuperare la Russia in qualche modo, preoccupandosi anche di quella che sarà la Russia del dopo Putin.
Gli americani non devono commettere l’errore di pensare alla Russia come l’URSS della fine degli anni ’80, quando usarono con Gorbačëv la politica del bastone e della carota per vincere la Guerra Fredda. Qui non c’è nessuna Guerra Fredda da vincere. Al contrario, la stabilizzazione della Russia è un obiettivo che la Comunità Internazionale deve assolutamente perseguire. Certo, c’è il difficile caso dell’Ucraina da risolvere. Non dimentichiamo, però, che la Russia è stata utile all’Occidente nella guerra tra Armenia e Azerbaijan e per risolvere la situazione in Siria, gestita da russi e turchi.
La Turchia è un problema regionale molto importante. Credo che la politica estera turca di questi anni, della profondità strategica e della proiezione turca in Asia centrale, Caucaso, Medio Oriente, Africa settentrionale e Balcani, andrà progressivamente attenuandosi, dopo uscita di scena di Erdoğan. Perché la Turchia non ha i mezzi economico-finanziari per portarla avanti. La Turchia non ha le risorse naturali che rendono “ricca” la Russia, né tantomeno, ha la potenza economica, scientifica e tecnologica della Cina. Erdoğan ha portato la Turchia ad essere una potenza regionale di tutto rispetto. Tuttavia, non credo che, nel medio e lungo periodo, la Turchia rappresenterà un problema. Sono quasi convinto che il post Erdoğan la vedrà, per così dire, rientrare nei ranghi.”
Tornando, infine, alla politica interna, la società americana sembra più che mai polarizzata e divisa. Molti i temi che hanno sconvolto la democrazia US: prima le proteste dei Black Lives Matter; la discutibile gestione della pandemia; infine, il tentativo di sovvertire il risultato elettorale, con l’assalto dei supporters di Trump a Capital Hill. Come riuscirà Biden a “guarire” un paese così profondamente ferito?
“Penso che la politica estera di Biden sarà una politica di transizione, che non ricorderemo per grandi iniziative. Biden dovrà prestare particolare attenzione alla politica interna, perché questa la premessa affinché gli Stati Uniti, nel post Biden, possano svolgere una grande politica estera. La questione razziale negli USA, purtroppo, è sempre esistita. Ricordiamo, ad esempio, la rivolta di Los Angeles negli anni ’90[5]. Questo è un problema innato nella società americana ed è curioso constatare che riguarda soprattutto la popolazione afroamericana. Ad esempio, sappiamo che la popolazione ispanica ha votato in maggioranza per Trump alle ultime elezioni. L’idea di sovvertire i risultati è qualcosa a cui nessuno ha mai creduto, nemmeno nel Partito Repubblicano. Va detto che Trump ha ricevuto 75 milioni di voti, che non sono pochi. Ciò dimostra che c’è stata una grande partecipazione politica della opinione pubblica americana, che è generalmente molto disinteressata verso la politica. Direi, comunque, che Trump appartiene al passato. Nessuno crede che possa creare un suo partito o ricandidarsi.
Il Trumpismo è una cosa diversa da Trump. Biden dovrà “strizzare un occhio” alle correnti più moderate, lasciando quel “sottobosco” che potrebbe creare problemi di ordine pubblico, qualcosa che somigli più all’attentato di Oklahoma City[6]. Quello che abbiamo visto a Capital Hill è stato l’aspetto esteriore di un movimento più profondo, ed è, forse, l’aspetto anche meno pericoloso. Questo [movimento] potrebbe determinare negli Stati Uniti una stagione di terrorismo interno, simile a quello che l’Europa ha vissuto negli anni ’70, quando le speranze di cambiamento del ’68 non si erano realizzate. E le speranze di cambiamento connesse a Trump, molto diverse, non si sono realizzate. Quell’America profonda, la grande provincia potrebbe generare dei mostri che potrebbero provocare episodi del genere. Quello che è auspicabile è che gli americani capiscano che l’unità è sempre stata la loro forza e questo Biden lo ha sottolineato nel suo discorso del 20 gennaio. La forza degli Stati uniti è sempre stata la loro unità, che ha permesso di vincere la Seconda Guerra Mondiale, di vincere la Guerra Fredda e di diventare la principale potenza del mondo.”
Note
[1] Per approfondire https://www.opiniojuris.it/qassam-soleimani-medio-oriente/
[2] Per approfondire la questione iraniana https://www.opiniojuris.it/uno-sguardo-a-teheran-intervista-mauriello/
[3] Per saperne di più sulla questione https://www.opiniojuris.it/le-implicazioni-sul-sahara-occidentale-della-normalizzazione-dei-rapporti-tra-marocco-e-israele/
[4] Vedi anche https://www.opiniojuris.it/la-fine-dei-giochi-per-la-solidarieta-pan-araba-laccordo-di-abramo-e-la-normalizzazione-con-israele/
[5] Una serie di sommosse a sfondo razziale scoppiate nella città di Los Angeles il 29 aprile 1992 e cessate il 4 maggio dello stesso anno.
[6] L’attentato di Oklahoma City è stato un attacco terroristico commesso il 19 aprile 1995 contro l’edificio federale Alfred P. Murrah, nel centro di Oklahoma City. Causò la morte di 168 persone. Riconosciuto colpevole Timothy McVeigh, veterano della guerra del Golfo.
Foto copertina: Il Presidente Joe Biden. TheWhiteHouse