Sin dagli anni novanta, Al Qaeda ha imposto la sua presenza in Asia sudorientale, creando legami con gruppi terroristici locali, fornendo assistenza finanziaria e tecnica, formando i combattenti nei suoi campi di addestramento in Afghanistan. Il risultato fu la nascita di una sorta di banda di fratelli jihadisti, una rete di mutua assistenza globale per promuovere l’Islam radicale.
Prima di Daesh.
Oltre al legame religioso, Bin Laden aveva altre motivazioni per espandere la propria influenza sul territorio asiatico. Un paese di convenienza, un back office per le operazioni congiunte, facilitate dalla dimensione geografica degli Stati dell’Asia sudorientale unitamente alle scarse capacità di polizia, militari e di intelligence, che limitavano il controllo del governo sulla regione.
L’elevata percentuale di corruzione consentì ad Al Qaeda[1] e altri gruppi terroristici di reclutare membri della società appartenenti a classi medio-alte, comandanti locali di polizia e delle forze militari con una formazione istituzionale in grado di operare in zone più remote con una relativa impunità. A questo si aggiunga la debole regolamentazione finanziaria, specialmente per le banche islamiche e le associazioni di beneficenza, che facilitò i trasferimenti di fondi, il riciclaggio di denaro e la creazione di società frontaliere.
Bin Laden utilizzò spesso le banche islamiche in Malesia e numerose reti di hawala tra il Medio Oriente e l’Asia Sud-Orientale, consentendo il trasferimento di denaro in modo rapido, discreto e senza alcuna traccia. Denaro necessario ad Al Qaeda per acquistare forniture di armi, fabbricate da paesi del Sud-Est asiatico e disponibili sul mercato nero. Infine, la numerosa popolazione islamica concesse ad Al Qaeda di attingere da un vasto bacino di reclutamento[2].
Il panorama politico ed economico che affliggeva la regione asiatica, rese naturale l’espansione di Al Qaeda e uno dei primi legami fu quello con l’ASG. Abdulrajak Janjalani incontrò Bin Laden in Afghanistan. Da questo incontro, il leader dell’ASG fu motivato a formare un gruppo immolato al jihad. Il cognato di Bin Laden, Mohammad Jamal Khalifa, si trasferì nella regione e istituì canali di finanziamento destinati ad ASG ed altre organizzazioni , attraverso un’organizzazione di beneficenza di Zakat. Più tardi, Al Qaeda inviò Ramsi Yousef – autore del primo bombardamento al World Trade Center, nel 1993 – nelle Filippine, per l’addestramento dei ribelli ASG nella fabbricazione di bombe, istituendo una cellula indipendente di Al Qaeda nel paese.
Attraverso questo nucleo operativo, Yousef elaborò il Progetto “Bojinka”, un piano per abbattere undici jumbo jet americani sul Pacifico in “48 ore di terrore”[3]. Fu un’esplosione ad allertare la polizia che riuscì a sgominare il gruppo, ma che non rilevò la connessione con Al Qaeda, tra cui i legami di Yousef e Khalifa con Khalid Sheikh Mohammad, uno degli organizzatori dell’11 settembre. Sebbene JI e Al Qaeda fossero organizzazioni con obiettivi diversi, tra i gruppi vi fu un elevato livello di cooperazione.
Hambali, capo delle operazioni JI, fu uno dei pochi membri non arabi della Shura di Al Qaeda, il suo organo decisionale più alto. I movimenti condividevano anche i campi di formazione a Mindanao e pianificavano congiuntamente le operazioni. Un esempio di questo tipo fu l’incontro a Kuala Lumpur, nel gennaio 2000, a cui partecipò Al Qaeda e diversi membri JI, per studiare l’attacco allo
U.S.S. COLE[1] e l’attentato alle Torri Gemelle[2]. Al Qaeda fornì competenze tecniche anche per gli attacchi di Bali[3], contro le ambasciate statunitensi e israeliane a Manila e aderì al complotto JI per distruggere gli obiettivi statunitensi, britannici, australiani e israeliani a Singapore nel 2001.
L’attacco alle Torri Gemelle fece però da spartiacque e la risposta asiatica a questa comune minaccia fu quella di costruire partenariati anti-terrorismo incentrati sul rafforzamento dei singoli meccanismi di difesa nazionale, adottando misure pratiche per avviare percorsi di cooperazione info-sharing regionale[4].
Il primo passo verso la definizione di un sistema di sicurezza multilaterale di contrasto alla minaccia del terrorismo. Il sudest asiatico è stato il cortile di Al Qaeda, ma l’emergere dello Stato Islamico ha avuto un impatto più drammatico sul territorio. In meno di un anno dalla sua proclamazione, nel 2014, l’ISIS ha eclissato Al Qaeda e le sue reti militanti sud-asiatiche affiliate, come Jemaah Islamiyah (JI), imponendosi come principale minaccia terroristica transnazionale della regione[5].
L’attacco terroristico a Jakarta il 14 gennaio 2016, che ha ucciso otto persone, è stato solo l’inizio della strategia dello Stato islamico creare il caos ed espandersi in Sud-Est asiatico, completando il suo obiettivo di espansione globale. Sebbene gli arresti e la pronta risposta all’attacco del governo la minaccia non è diminuita. I combattenti locali vengono istruiti per rimanere in patria e per effettuare attacchi, creando una “cellula di comando” costituita per attaccare un target specifico.
Piuttosto che creare gruppi strutturati gerarchici, la strategia è quella di formare piccole, medie e grandi squadre che conducono attacchi a basso costo e ad alto impatto. Ancora più minaccioso è l’impegno dello Stato Islamico a inglobare i gruppi locali, incaricati di effettuare controlli militari e amministrativi sul territorio e sulla popolazione o formare i futuri combattenti[6]. Più di 800 asiatici sudorientali (per lo più indonesiani e malaysiani e alcuni provenienti da Singapore e dalle Filippine) hanno raggiunto l’Iraq e la Siria per combattere.
Anche se i numeri di combattenti provenienti dal nord Africa e dell’Europa sono più alti, il numero di combattenti stranieri della regione Asia-Pacifico sta crescendo costantemente. Oltre ai gruppi sud-est asiatici che impegnano fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi, lo Stato islamico ha già creato un nucleo sud-est asiatico in Siria e in Iraq e una base operativa di filippini e malesi a Basilan, nelle Filippine meridionali.
Isnilon Hapilon, vice leader del gruppo islamista militante nelle Filippine, Abu Sayyaf Group (ASG), fornisce orientamenti sia ai filippini che ai malesi. Lo Stato Islamico ha, inoltre ,cercato di trasformare la regione in un wilayat o Provincia del suo Califfato e, a questo fine, ha avviato una unità malese, Katibah Nusantara o unità dell’arcipelago malese (Majmuah Al Arkhabiliy in arabo)[7].
Il timore è che avvenga esattamente come negli anni ’80. Se, all’epoca, asiatici si radicalizzarono e partirono per combattere contro l’occupazione sovietica in Afghanistan, ritornando poi in patria per rinfoltire le fila dei gruppi di azione locale, affiliati ad Al Qaeda; oggi, potrebbe svilupparsi una nuova generazione, esperta di social media, e in grado di trasformare la wilayat, la provincia asiatica, una pericolosa realtà.
I primi segnali di un possibile rischio sono visibili a Mindanao, nelle Filippine meridionali. Dalla prospettiva DAESH, la regione ha una funziona anche strategica, non solo per la sua popolazione prevalentemente musulmana, ma anche le vie di comunicazione marittime risultano di primaria importanza per scopi militari e commerciali. Questo rientra in un disegno che potrebbe concludersi con l’Asia sud-orientale provincia del Califfato, riunendo le varie fazioni militanti che hanno promesso fedeltà a DAESH.
In sintesi, sebbene un wilayat che faccia da importante percorso di transito e fonte di manodopera e sostegno morale per lo Stato Islamico si possa dire ancora in fase embrionale, le tendenze regionali suggeriscono che poca coesione tra i servizi di sicurezza e di intelligence. La crescita costante e apparentemente inesorabile dello Stato islamico in Asia e la persistenza dell’estremismo radicale rimane una fonte importante di preoccupazione soprattutto se legata alle instabilità interna alla regione.
In Thailandia e in Malesia, la dimensione della violenza musulmana si è acutizzata ed ha assunto profondità religiosa. Nelle Filippine, da circa due mesi Abu Sayaf ha occupato la città di Marawi, a sud del Paese. La situazione più critica resta però quella indonesiana, legata alla minaccia del radicalismo islamico e al pericolo persistente del fenomeno della radicalizzazione. L’Indonesia potrebbe fornire, infatti, un contesto adatto alla rivitalizzazione dell’attivismo JI che, pur diretto a perseguire la lotta islamista nazionale, punta all’istituzione di un Califfato pan-regionale come obiettivo finale. In sintesi, sono tre le minacce-chiave[8] che l’Asia sudorientale potrebbe affrontare il giorno dopo la caduta dell’ISIS.
Le minacce
Minaccia n. 1: l’esportazione del modello ISIS in Asia e ipotetica coalizione multinazionale di gruppi locali che hanno giurato fedeltà al Califfo e al Califfato. Il modello ISIS è già evidente in Libia e Yemen. Lo Stato Islamico ha già riconosciuto due wilayats (province) nelle Filippine meridionali: uno sotto Isnon Hapilon, conosciuto come Wilayat Filippine, e un altro sotto Abu Abdillah, Wilayat dell’Asia orientale.
Minaccia n. 2: riallineamento post-ISIS. DAESH nasce da una scissione interna ad Al Qaeda, ritenuto troppo debole e privo di una visione globale per la creazione di un Califfato islamico. Quello che ISIS ha dimostrato è che può esserci un’alternativa all’Al Qaeda, ma se il modello ISIS non sopravvive è probabile nel prossimo futuro possa emergere una nuova dimensione terroristica, contemplando la fusione di più gruppi. Questa possibilità non può essere respinta, specialmente nella regione del Sud-Est asiatico, dove al Qaeda e DAESH hanno una forte influenza.
Minacce n. 3: i rimpatri asiatici sudorientali. Con la dichiarazione dello Stato islamico nel 2014, molti asiatici sudorientali hanno raggiunto la Siria e l’Iraq, per combattere sotto l’ombrello ISIS contro il regime di Assad in Siria e contro gli Sciiti. La maggior parte dei combattenti dell’Asia sudorientale, proveniente dall’Indonesia e dalla Malaysia, sostiene lo Stato islamico, un numero minore combatte invece per Jabhat al-Nusra[9].
Alla luce di tali minacce, l’Asia dovrebbe ripartire dal ruolo delle istituzioni regionali e potenziare la capacità di governance locale, favorendo una maggiore consapevolezza militare e di polizia dei principi del liberalismo democratico, dei diritti umani e del generale contesto socio-economico. Un punto che riteniamo non debba essere trascurato è anche l’uso di soft power dell’intelligence asiatica per:
- alienare e screditare interpretazioni perverse dell’Islam e disegni associati all’estremismo pan-regionale;
- abilitare i leader musulmani moderati per una maggiore negoziazione e tolleranza religiosa, facilitando delegazioni interreligiose nel Sud-Est asiatico;
- individuare possibili alternative per ridurre la spinta del sentimento pan-regionale da e “verso l’esterno”;
- promuovere riforme carcerarie e ridurre il potenziale delle carceri da sfruttare come hub di reclutamento o di radicalizzazione[10].
L’impatto della minaccia di Daesh è però diverso in tutto il sud-est asiatico. La strategia intrapresa dagli Stati per attenuare l’impatto del terrorismo e dell’estremismo a fronte di una crescente minaccia posta da Daesh può essere suddivisa in due livelli distinti. Il primo livello è attraverso il ruolo del quadro istituzionale regionale ASEAN.
Il secondo livello è attraverso le risposte intraprese dai paesi dell’Asia sudorientale nei parametri dello stato[11]. Questa è una risposta sfumata e differenziata. Mentre tutti i paesi dell’Asia sudorientale sono parte di ASEAN come istituzione, l’efficacia che le risposte statali accoppiate con accordi bilaterali e trilaterali selezionati tra e fra gli Stati hanno avuto un impatto dominante sulle strategie per attenuare il terrorismo e l’estremismo.
In quanto entità collettiva, i paesi dell’Asia sudorientale continuano a presentare una risposta diversa e diversificata alla minaccia del terrorismo. La diversità dei mezzi attraverso i quali i paesi dell’Asia sudorientale rispondono alla minaccia è spesso legata al livello attraverso il quale i paesi sono a sua volta colpiti dagli sviluppi. Si consideri la Cambogia, il Vietnam, il Laos e il Myanmar, che non sono stati colpiti dallo stesso livello di violenza affrontato dall’Indonesia, le Filippine e la Tailandia.
Nel tentativo di creare una risposta regionale, la dichiarazione ASEAN sull’azione comune contro il terrorismo e la dichiarazione sul terrorismo sono state adottate rispettivamente ai vertici ASEAN nel 2001 e nel 2002[12]. La dichiarazione ASEAN sull’azione comune contro il terrorismo e la dichiarazione sul terrorismo sono stati apparentemente fatti in risposta agli attacchi terroristici del settembre 2001 e agli attentati a Bali il 5 ottobre 2002.
Nel 2013, invece, è entrata in vigore la Convenzione ASEAN sul Terrorismo che mira a fornire un quadro per la cooperazione regionale al fine contrastare, prevenire e sopprimere il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni e per approfondire la cooperazione tra le forze dell’ordine e le autorità competenti, nell’obiettivo di garantire una risposta collettiva. Principio dello sforzo ASEAN è di non interferire nell’azione dello Stato.
Rispettare i confini e i parametri dello Stato, combattendo la minaccia di un gruppo transnazionale è, infatti, la sfida ineluttabile che oggi affronta la regione[13].
[1] Commissionato nel 1991 ai cantieri Ingalls di Norfolk ed entrato in servizio l’8 giugno 1996, il 12 ottobre 2000 il cacciatorpediniere era ormeggiato nel porto di Aden, in rifornimento dopo una navigazione nel Golfo Persico, quando un’imbarcazione si avvicinò ed esplose con grande violenza
[2]Cfr. Williams, Clive, “The Question of ‘Links: Between Al-Qaeda and Southeast Asia”, After Bali, (Singapore, Institute of Defense and Strategic Studies, 2003), 83.
[3] L’attentato di Bali del 2002 si è verificato il 12 ottobre 2002 nella zona turistica di Kuta, sull’isola indonesiana di Bali. L’attacco terroristico è stato il più sanguinoso atto nella storia dell’Indonesia, con un totale di 202 persone uccise,di cui 164 erano stranieri e 38 indonesiani. Inoltre, 209 persone sono rimaste ferite negli attacchi.
[4]Cfr. Abuza, Zachary, Militant Islam in Southeast Asia, Boulder, Lynne Rienner Publishers, 2003, pp. 100-102;
[5]Cfr. A. S. Hashim, The Impact of the Islamic State in Asia, S. Rajatatnma School of International Studies, 2015, https://www.rsis.edu.sg/wp-content/uploads/2015/02/PR150211_The_Impact_of_the_Islamic_State_in_Asia.pdf;
[6] Aaron Y. Zelin, The Islamic State’s Archipelago of Provinces, The Washington Institute, November 14, 2014, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/theislamic-states- archipelago-of-provinces;
[7]Cfr. Zakir Hussain, How ISIS supporters passing through Singapore were nabbed, Straits Times, 2016, http://www.straitstimes.com/singapore/the-isis-four-singaporestopped-and- sent-back;
[8]Cfr. The Evolving Terrorist Threat to Southeast Asia, NATIONAL DEFENSE RESEARCH INSTITUTE , 2009, https://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/monographs/2009/RAND_MG846.pdf;
[9]Cfr. http://thediplomat.com/2017/07/southeast-asia-braces-for-the-post-islamic-state-era/;
[10]Cfr. The Evolving Terrorist Threat to Southeast Asia, NATIONAL DEFENSE RESEARCH INSTITUTE, 2009, https://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/monographs/2009/RAND_MG846.pdf;
[11]Cfr. ASEAN Convention on Counter-Terrorism Completes Ratification Process, http://asean.org/asean-convention- on-counter-terrorism-completes-ratification-process/;
[12] J. Jerard, Daesh and the Alchemy of Strategy: Southeast Asia Threat and Responses by the Region and ASEAN, http://www.kas.de/wf/doc/kas_46739-1522-2-30.pdf?170223030612;
[13]Cfr. ASEAN Convention on Counter-Terrorism Completes Ratification Process, http://asean.org/asean-convention- on-counter-terrorism-completes-ratification-process/.
Copertina : Columbia.edu