La nascita della giurisdizione penale internazionale: il lungo cammino verso lo Statuto di Roma


La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto nei confronti del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin; non possiamo fare a meno di domandarci: come la comunità internazionale è arrivata a perseguire condotte criminali? Quale processo ha portato, nel 1998, alla creazione di un apparato giurisdizionale che abbia lo scopo di perseguire coloro che abbiano commesso gravi violazioni del diritto internazionale? I capi di Stato sono ancora, di fatto, immuni?


Di Giulia del Re

Lo Statuto di Roma e la Corte Penale Internazionale

Lo Statuto di Roma è il documento costitutivo della Corte Penale Internazionale, firmato in occasione della Conferenza Diplomatica dei Plenipotenziari di Roma.
La creazione del primo tribunale penale internazionale permanente è frutto di un percorso lungo e travagliato le cui origini possono farsi risalire alla fine del primo conflitto mondiale, quando il Trattato di Versailles previde che il Kaiser Guglielmo II fosse processato da una corte internazionale.
Il sovrano trovò asilo in Olanda e non fu mai processato, mentre alcuni ufficiali tedeschi vennero perseguiti dinanzi alla Corte Suprema tedesca. Questo evento creò un risentimento indelebile nei confronti degli alleati, i cui ufficiali non vennero mai perseguiti per gli stessi crimini commessi dai tedeschi. Una giustizia per i soli sconfitti.
Ancor più problematico è stato, da questo punto di vista, il fallimento della comunità internazionale di fare giustizia per l’uccisione di massa del popolo armeno in Turchia. Anche dopo il parere della Commissione sulle responsabilità degli autori di Guerra e sull’applicazione delle Sanzioni del 1919, la persecuzione degli ufficiali turchi rei di atrocità a danno degli armeni fu abbandonata e, con il Trattato di Losanna del 1927, i turchi guadagnarono l’amnistia per i crimini commessi; ma il concetto di “crimini contro l’umanità” divenne un argomento di diritto per la prima volta.
Un primo passo per la creazione di un foro per la giustizia criminale di rilievo internazionale fu compiuto nel 1937, quando un Protocollo Addizionale alla Convenzione contro il Terrorismo, adottata con gli auspici della Società delle Nazioni, fu firmato, anche se mai ratificato.

La Seconda Guerra Mondiale: uno spartiacque

Dopo il secondo conflitto mondiale, gli alleati crearono due tribunali internazionali: Norimberga e Tokyo. Questi processi internazionali diedero un contributo indiscutibile all’evoluzione della giustizia penale internazionale, stabilendo, per la prima volta, che Capi di Stato e autorità militari sono chiamati a rispondere di accuse di atti contrari alla morale collettiva, e che agire in nome di un superiore ordine ricevuto non possa essere un argomento che esuli il reo dalle proprie responsabilità. Il Tribunale Militare Internazionale è stato fondato nell’ agosto del 1945, quando le quattro principali potenze alleate- Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti- firmarono l’accordo di Londra e, quale allegato, la Carta di Norimberga, che definiva le funzioni della corte, la sua costituzione e i limiti della sua giurisdizione.
Coerentemente con quanto previsto dal suo Statuto, il Tribunale Militare Internazionale era composto da un giudice per ciascuna delle quattro potenze alleate; la sua giurisdizione era limitata a crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il tribunale fu operativo dal novembre 1945 ad ottobre 1946 e processò ventidue leader politici e militari nazisti, tra cui Hermann Goering, Joachim von Ribbentrop and Alfred Rosenberg, e sette organizzazioni naziste, che furono dichiarate “criminali”, incluse l’unità di leadership del partito nazista e l’unità “SS” per aver condotto il trasferimento forzato, la schiavizzazione e lo sterminio di milioni di persone. Inoltre, le forze di sicurezza naziste (“SD”) e la polizia segreta nazista (“Gestapo”) furono giudicate colpevoli di aver istituito programmi di lavoro schiavisti e deportato numerosi civili in campi di concentramento per motivi legati alla loro razza, opinione politica o orientamento sessuale.
Nel 1946, a Tokyo, venne istituito il Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente. Contrariamente al Tribunale Militare Internazionale, il Tribunale di Tokyo non è stato creato in forza di un accordo internazionale, ma quale strumento necessario al perseguimento degli obiettivi stabiliti dalla Dichiarazione di Potsdam, con cui Cina, Regno Unito e Stati Uniti definivano le condizioni per una resa incondizionata del Giappone ed esprimevano la necessità che tutti i criminali di guerra fossero perseguiti. Nel dicembre 1945, durante la Conferenza di Mosca, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti convennero sui dettagli dell’occupazione del Giappone, conferendo al Generale McArthur l’autorità di supervisionare la resa giapponese e di coordinare l’occupazione dei suoi territori. In virtù dell’autorità conferitagli, McArthur proclamò la nascita del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, la cui giurisdizione riguardava gli stessi reati elencati nella Carta di Norimberga, ma per un periodo di tempo maggiore: dall’invasione della Manciuria del 1931 alla resa del 1945. Il processo si tenne da maggio 1946 al novembre del 1948.
All’imperatore Hirohito e ad altri membri della famiglia imperiale venne concesso di rinunciare alle proprie pretese dinastiche in cambio dell’immunità.
I tribunali di Norimberga e Tokyo diedero un enorme contributo allo sviluppo di un diritto internazionale penale e divennero il modello per una serie di tribunali internazionali che saranno stabiliti all’inizio degli anni ’90; tuttavia, l’assenza di precedenti consolidati, così come il fatto che siano stati istituiti dopo la commissione del fatti, in violazione del principio generale di diritto che vieta l’istituzione di legislazioni ex post facto e, secondo alcuni autori, finanche il principio nullum crimen sine praevia lege poenali, indebolendo, di fatto, la legalità dell’intero processo.

Gli anni ’90: un nuovo ottimismo verso l’iniziativa del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Gli anni ’90 sono stati di formidabile cambiamento per la struttura della comunità internazionale e nacque un forte sentimento di fiducia verso gli strumenti diplomatici e l’attività delle organizzazioni internazionali, assieme alla volontà di affidare agli organismi internazionali il compito di sovrintendere al rispetto dei principi di diritto internazionale. La fine della Guerra Fredda segnò l’inizio di un periodo di cooperazione tra Oriente ed Occidente impensabile solo pochi anni prima.
Questo era il terreno fertile grazie al quale fu possibile istituire il Tribunale Internazionale per l’Ex- Jugoslavia (ICTY) nel 1993 e il Tribunale Internazionale per il Rwanda (ICTR) nel 1994, entrambi in virtù di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite secondo il meccanismo previsto dal Capitolo VII della Carta ONU.
Il Tribunale per l’Ex Jugoslavia è stato creato in forza della Risoluzione 808 (1993) che proclamava l’istituzione di un organo giurisdizionale internazionale con il fine di perseguire “persone responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio della ex- Jugoslavia a partire dal 1991[1], e la Risoluzione 827 (1993) con cui il Consiglio adottò un rapporto commentato del Segretariato Generale.
La giurisdizione della corte era limitata a gravi violazioni della Convenzione di Ginevra del 1949, violazioni delle norme consuetudinarie sul diritto dei conflitti armati, genocidio e crimini contro l’umanità (Artt. 2- 5 dello Statuto della Corte). Contrariamente a quanto verrà stabilito dallo Statuto di Roma, entrambi i Tribunali per l’ex- Jugoslavia e per il Rwanda hanno giurisdizione concorrente nel perseguimento dei soggetti accusati, ma primato sulle giurisdizioni nazionali: nessun soggetto può essere perseguito da una corte nazionale per i crimini elencati nello Statuto se un procedimento è già in corso dinanzi al foro internazionale; inoltre, il tribunale internazionale può giudicare la stessa persona se questa sia stata oggetto di giudizio da parte di una corte nazionale se il procedimento non sia stato caratterizzato da imparzialità, diligenza ed indipendenza.
Come affermato in occasione del caso Tadic, dato che la Corte è stata istituita in forza di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che ha agito secondo quanto previsto dal Capitolo VII della Carta ONU, tutti gli Stati membri sono chiamati a cooperare con essa e riconoscerne la giurisdizione affinché la pace e la sicurezza internazionale possano essere ristabilite.
Il Tribunale Internazionale per il Rwanda, invece, è stato istituito dalla Risoluzione 955 (1994). Lo Statuto della Corte è stato allegato alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, e presenta vari aspetti in comune con lo Statuto del Tribunale per l’Ex- Jugoslavia; i crimini su cui la corte esercita la propria giurisdizione sono genocidio, crimini contro l’umanità (uccisione, sterminio, schiavitù, deportazione, reclusione, tortura, stupro, persecuzione per ragioni politiche, razziali, religiose e altri atti inumani commessi nel contesto di un attacco sistematico alla popolazione) e violazioni del diritto internazionale umanitario, con specifico riferimento all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. La giurisdizione della Corte era limitata, ratione tempore, ai crimini commessi tra l’ 1 gennaio 1994 e il 31 dicembre 1994.
L’attività di entrambe le corti, quella per l’ex- Jugoslavia e quella per il Rwanda, diede un contributo decisivo tanto alla costituzione di un organo permanente per il perseguimento di crimini di interesse internazionale, quanto alla definizione stessa del contenuto delle fattispecie criminose sotto la propria giurisdizione;  il caso Akayesu è, da questo punto di vista, esemplare: in quella occasione, un Tribunale Internazionale ha, per la prima volta, fornito interpretazione del crimine di genocidio secondo la definizione della Convezione sul Genocidio del 1948.
I Tribunali, però, non furono solo un fulgido esempio dei risultati che è possibile raggiungere adottando un approccio internazionalistico al perseguimento dei più gravi crimini, ma misero anche in luce tutti i limiti di un approccio ad hoc del Consiglio di Sicurezza: l’attività delle Corti fu enormemente dispendiosa e pesò enormemente sui bilanci delle Nazioni Unite e, inoltre, la loro giurisdizione si limitava alle atrocità commesse in circostanze estremamente specifiche, cosicché si sarebbe resa necessaria l’istituzione di ulteriori tribunali ad hoc, per volontà dei membri del Consiglio di Sicurezza, perché i casi futuri potessero essere sottoposti alla giustizia internazionale.
Come la prassi dimostra, la prerogativa di porre il proprio veto, riconosciuta ai cinque membri permanenti del Consiglio, e di paralizzare, così, la costituzione di un tribunale che con la propria attività mettesse a rischio gli interessi di una delle grandi potenze fu un deterrente, per la comunità internazionale, a perseguire un simile modello. Si rendeva necessaria una soluzione più stabile ed imparziale.

La Corte Penale Internazionale

Istituita nel 1998, la Corte Penale Internazionale fu concepita come un organo giurisdizionale indipendente, con il potere di perseguire colpevoli di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio (Articolo 5 dello Statuto di Roma) in modo leale, imparziale ed indipendente. La relazione tra la Corte Penale Internazionale e le corti nazionali è incardinata sul principio di complementarità, cosicché la giustizia internazionale interviene quando manchi la volontà o sia comunque impossibile perseguire i crimini elencati a livello nazionale. La Corte internazionale è, perciò, un tribunale di ultima istanza.
Il suo rapporto con le Nazioni Unite è dettagliatamente definito da un accordo ad hoc siglato nel 2004, secondo il quale l’organizzazione «riconosce la Corte quale istituzione giurisdizionale indipendente e permanente che […] gode di personalità giuridica internazionale»[2] e dichiara che «Le Nazioni Unite e la Corte rispettano i reciproci status e mandati»[3].
Il preambolo allo Statuto di Roma dichiara che la giustizia è un mezzo per il mantenimento della pace e della sicurezza e che gravi crimini non possano rimanere impuniti perché essi «minacciano la pace, la sicurezza e il benessere del mondo»[4].
La più alta aspirazione della comunità internazionale, quando un organo giurisdizionale permanente fu creato, era quella di «mettere fine all’impunità di coloro hanno perpetrato questi crimini e, così, contribuire alla loro prevenzione»[5]. Con questo obiettivo in mente, e per garantire l’esistenza di un meccanismo in virtù del quale anche gli Stati che non avessero riconosciuto la giurisdizione della Corte fossero, in qualche modo, ad essa soggetti, gli autori dello Statuto di Roma formularono l’Articolo 13(b), che conferisce al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il potere di rinviare un caso alla Corte; in assenza di una simile previsione, l’attività della Corte sarebbe stata limitata al perseguimento dei soli crimini commessi entro i limiti del territorio di uno Stato parte dello Statuto, di uno Stato che avesse accettato la giurisdizione della Corte o di un cittadino di questi Stati.
Nonostante i rimedi che gli autori dello Statuto di Roma hanno tentato di concepire al fine di assicurare una vera universalità e imparzialità della giustizia penale internazionale, numerosi sono gli esempi che evidenziano tutti i limiti di un simile meccanismo. A seguito dell’occupazione dell’Afghanistan da parte delle forze statunitensi, ad esempio, il Procuratore capo della Corte avviò, nel 2017, un’inchiesta che avrebbe avuto lo scopo di indagare tanto sulle attività dei talebani affiliati alla rete Haqqani e ai loro servizi segreti, quanto sulle attività delle truppe americane e della CIA. La reazione statunitense fu durissima e si risolse in una serie di azioni che, di fatto, paralizzarono l’operato della Corte: furono bloccati i visti di ogni dipendente della Corte Penale Internazionale e furono minacciate sanzioni contro funzionari e contro gli Stati che avessero cooperato con le indagini. Alla fine del 2022, una richiesta di riapertura del procedimento è stata avviata dal nuovo Procuratore Capo, proprio mentre l’inchiesta sui crimini commessi dalle forze russe in Ucraina viene avviata; tuttavia, sembra difficile immaginare come grandi potenze possano, da un lato, salutare con entusiasmo la prospettiva di una giurisdizione universale che persegua il Presidente russo Vladimir Putin e, allo stesso tempo, limitare così fortemente l’operato dello stesso organo giurisdizionale quando questo è chiamato ad avviare un’inchiesta contro di loro.
Di quale fiducia potrà godere un simile meccanismo se i fatti avvalorassero l’idea, già largamente diffusa presso i membri della comunità internazionale, che la giustizia sia tanto più “giusta” per coloro che hanno la forza politica per imporre le proprie volizioni? Il pericolo, già denunciato da organizzazioni non- governative come Amnesty International e Human Rights Watch, tra le altre, è quello di una giustizia che si veda legate le mani dalla politica: in particolare in occasione dell’occupazione dell’Iraq da parte delle forze di coalizione a guida USA, numerose ONG hanno inoltrato appelli tanto al governo statunitense, affinché istituisse una commissione d’inchiesta indipendente, quanto alla Corte Penale Internazionale stessa, senza alcun esito. Le violazioni dei diritti umani commesse nella prigione di Abu Ghraib sono finanche provate da documentazione fotografica che il mondo intero ha potuto vedere, oltre che da dettagliati report prodotti da team di ricerca indipendenti.
Se oggi parte della comunità internazionale è entusiasta all’idea che un organo sovranazionale possa perseguire eventuali atrocità commesse da un Capo di Stato, laddove appare improbabile che la giustizia nazionale voglia o possa operare in modo indipendente, bisogna essere perplessi all’idea che ciò accada su pressione delle stesse forze che hanno così efficacemente evitato di sottoporsi a quella stessa giurisdizione; e ciò non per un astratto senso di giustizia, quanto per la credibilità dell’intero sistema. Il rischio è quello di minare la fiducia di cui gode l’intero sistema e appare difficile immaginare che simili criticità possano superarsi in altro modo se non dimostrando che tutte i crimini verranno perseguiti con eguale convinzione, e che non vi saranno passaporti di immunità.


Note

[1] (1993) United Nations Security Council’s Resolution 808; disponibile a https://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Statute/statute_808_1993_en.pdf
[2] (2004) Negotiated Relationship Agreement between the International Criminal Court and the United Nations, Article 2 Paragraph 1; available at https://legal.un.org/ola/media/UN-ICC_Cooperation/UN-ICC%20Relationship%20Agreement.pdf
[3] Ibidem, Paragraph 2 
[4] (1998) Rome Statute, Preamble; available at https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/RS-Eng.pdf
[5] Ibidem


Foto copertina: La Corte Penale Internazionale