[dropcap]Più di 500[/dropcap] le donne partite dall’ “Occidente” per unirsi allo Stato Islamico, almeno dieci sono state le italiane sedotte dalle promesse fatte loro da una propaganda strategicamente costruita con questo specifico obiettivo. I ruoli, sempre più rilevanti, ricoperti dalle donne, hanno contribuito alla rapida ascesa di IS, tanto da essere diventate indispensabili, sia nelle aree di conflitto che in “Occidente”, in quanto giocano un ruolo fondamentale per la longevità e l’organizzazione dello Stato.
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Nonostante la retorica di Daesh sia inserita in un quadro altamente patriarcale che stabilisce rigidi limiti al ruolo delle donne nella società e in casa, nello Stato Islamico le donne hanno assunto negli anni ruoli sempre più rilevanti. Per l’Occidente sono “le spose jihadiste” ma loro si definiscono “muhajirat” ossia le migrati; sono infatti più di 500 le donne occidentali che hanno deciso di abbandonare il proprio paese per migrare nelle terre di Daesh in Siria e in Iraq. Cosa le spinge a migrare? Tra le principali cause alla base della radicalizzazione ci sono sicuramente le fallimentari politiche di integrazione delle comunità islamiche in occidente, particolar modo nel vecchio continente. La mancata integrazione e la continua sensazione di non poter esprimere liberamente il proprio credo (partendo dall’indossare il velo) genera un senso di oppressione e marginalizzazione avvertito soprattutto dalle seconde generazioni, perennemente in bilico tra cultura di derivazione e cultura d’accoglienza.
Sapere che esiste una terra governata secondo la legge islamica della sharia, nella quale il loro senso di marginalizzazione sociale possa essere completamente soppiantato da un senso di appartenenza le spinge all’hijra, l’emigrazione.
Ma non è solo questo: le motivazioni che spingono alla radicalizzazione possono essere talmente tante che è impossibile definire degli idealtipi. Molte sono le giovani donne occidentali convertite all’Islam spinte dalla ricerca di tratti distintivi che la massificazione e il consumismo occidentale hanno annientato, assemblando gli attori sociali in una totalità di uguali.
Indiscusso è il ruolo che ricopre la propaganda ideologia nel processo di radicalizzazione delle donne: la narrazione ideologica del gruppo veicola una possibilità di emancipazione femminile evidenziando le opportunità offerte dal Califfato. La campagna mediatica di IS nei confronti delle donne è gestita da un corpo propagandistico noto come Zora Foundation (attiva dal 2014) che si dedica esclusivamente alle donne, destinatarie e promotrici della propaganda, con l’obiettivo di convincere altre donne a compiere l’hijra.
La campagna mediatica di IS si può definire dal basso verso il basso, questo perché i simpatizzanti di Daesh entrano in contatto e diffondono la propaganda jihadista attraverso il web e social media, senza la necessita (almeno iniziale) di entrare in contatto con la leadership del gruppo terroristico, diventando destinatari e promotori al tempo stesso. Il ritrovarsi in comunità on line per condividere idee ed obiettivi comuni è un tentativo di riproduzione di quell’interazione che avveniva nelle Moschee all’epoca di Al Qaeda ma in maniera decisamente minore.
L’ambiente digitale, ad esempio, è sfruttato per condividere consigli su cosa portare e come affrontare il viaggio per raggiungere la Siria. Già nelle prime riviste di propaganda in lingua inglese e francese (Dar al Islam, Dabiq e Rumiyah) erano dedicati spazi d’informazione esclusivi per le donne. Le sezioni erano variamente intitolate: “To Our Sister” o “For Woman” ed erano scritta da una donna, Umm Summayyah al-Muhajirah[1], con l’obiettivo di creare contenuti sostenendo la prospettiva femminile.
La strategia persuasiva di questa propaganda è supportata da narrative e immagini volte a rappresentare lo Stato Islamico come un luogo privilegiato, un’oasi felice nella quale sentirsi libere e crescere i propri figli con la benedizione di Allah, tutto questo fa apparire la scelta di aderire all’estremismo islamico come un normale cambiamento di stile di vita. Umm Sumayya al-Muhajirah ha contribuito regolarmente a scrivere su Dabiq articoli del genere, spesso difendendo i fatwa più controversi dell’organizzazione come l’asservimento donne prigioniere o la poligamia.
Il messaggio ideologico dietro l’esortazione a migrare preme soprattutto sul ruolo assunto dalle donne nell’assicurare la longevità del Califfato: oltre al reclutamento, le donne nel Califfato possono diventare infermiere, insegnanti e traduttrici, ma il loro compito principale resta quello di dare alla luce le successive generazioni di jihadisti per garantire la conservazione nel tempo dello Stato Islamico. Il loro contributo è riconosciuto dalla comunità e dai vertici del gruppo terroristico: non sono mancati nei discorsi del leader al-Baghdadi, incitamenti rivolti a compiere la hijra, intesa come loro dovere religioso. Il bisogno di realizzazione di una vita matrimoniale, magari non appagata in occidente, ha spinto molte giovani ragazze a partire per la Siria con la promessa fatta dalle loro reclutatrici di sposare un buon marito.
Fino al matrimonio, queste donne sono ospitate in ostelli che garantiscono loro vitto e alloggio fino a quando non gli sarà assegnato un marito-tutore.
Il reperimento di materiale jihadista in rete, per quanto contenga guide dettagliate, non basta per raggiungere senza problemi le terre del Califfato. La presenza di una fitta rete logistica in occidente garantisce l’instaurazione di un rapporto personale con i sostenitori. Questa rete satellite, non svincolata dal nucleo propagandistico centrale, fa da recettore di feedback ed assuefazione al dialogo estremista. Tra i profili femminili più attivi nel reclutamento di altre donne in rete ricordiamo la scozzese Aqsa Mahmood, ex studentessa di radiologia di 21 anni, che scrive sotto lo pseudonimo di Umm Layth, Glasgow; la più nota jihadista italiana Maria Giulia Sergio, oggi Fatima Az-Zahra, il cui processo di radicalizzazione è stato sostenuto dal contatto virtuale con Bushra Haik, nata a Bologna e ora residente in Arabia Saudita, la le più capaci reclutatrici dello Stato Islamico.
Ulteriore supporto alla narrazione ideologica delle donne nel Califfato c’è una posizione del tutto nuova per Daesh: l’opportunità per le donne di imbracciare le armi. Una sorta di emancipazione femminile che contrappone al tradizionale femminismo islamico[2] un più radicale femminismo jihadista[3].
Uniche nel mondo musulmano sono le due brigate “al-Khansaa” e “Umm al-Rayan”, una vera e propria unità di polizia religiosa, che munita di kalashnikov e acidi ha il compito di vigilare le città di Raqqa e Mosul per individuare le infedeli e punire qualsiasi comportamento ritenuto contrario all’Islam. Manifesto del femminismo jihadista è un documento in arabo fatto circolare in rete dalla brigata di al-Khansaa (2015) dal titolo “Le donne dello Stato Islamico: un manifesto e un caso di studio”.
Nonostante a nessuna donna sia permesso di partecipare ai combattimenti, lo Stato Islamico ammorbidisce le sue posizioni conservatrici quando obbliga le obbliga a prende parte alla guerra difensiva quando questa è necessaria, per questo motivo IS è il gruppo terroristico che più di tutti ha avidamente investito nel rilanciare il modello di muhajida[4]. Questa posizione ha allarmato Al-Qaeda, tanto da intervenire, con il magazine Beituki per ridimensionare il ruolo delle donne Il fenomeno delle combattenti donne e tutta la propaganda femminile non si è mai fermata e continuerà ad evolversi e cambiare in base ai futuri bisogni strategici dell’organizzazione. Questa words cloud mostra le parole più utilizzate negli articoli delle sezioni dedicate alle donne delle tre riviste Dabiq, Dar al-Islam e Rumiyha, ormai fuori produzione e soppiantate dal magazine Al Naba in lingua araba.
La società interconnessa, struttura portante del capitalismo digitale e dell’economia della condivisione, è terreno fertile per le strategie di propaganda ideologica, capace di condizionare profondamente le percezioni individuali e collettive.
Le rappresentazioni fondate sul potere delle immagini e sulle narrazioni condizionano non solo immaginari e opinione pubblica, ma anche e soprattutto i decisori. L’Isis è principalmente un sistema mediatico efficace e competente che usa le tecnologie mediali come strumento di guerra. La comunicazione emozionale di IS produce in chi legge un’interferenza tra rappresentazioni e realtà: si pone come Stato modello che meglio rappresenta gli ideali della popolazione di fede islamica e presentando il proprio dominio come possibilità di salvezza.
La pervasività dell’immagine, su cui punta la propaganda ideologica di IS può raggiungere ogni persona ed entrare in ogni casa attraverso la rete, sgretolando ogni meccanismo in grado di garantire il legame e la cooperazione sociale, con l’obiettivo di minare la fiducia nei valori occidentali di libertà, uguaglianza e fratellanza che l’Europa post-cristiana fa ormai fatica a veicolare in maniera solida, avendo perso lo slancio da cui si è originata.
Note
[1] Emblematica è l’intervista a Umm Basir al-Muhajirah, la moglie di Amedy Coulibaly uno degli attentatori di Charlie Hebdo contenuta nel numero 7 di Dabiq. La donna invita le sorelle ad aiutare e sostenere i mariti, i fratelli, i padri e i figli e a essere forti e coraggiose nel sostenere gli uomini della loro famiglia nel loro sforzo verso Allah. Umm Sumayyah Al-Muhājirah, The Rwin Halves of the Mihajirin, Dabiq, n°8, (2015), pp.32-37.
[2] Il femminismo islamico cerca di reinterpretare le fonti sacre per dimostrare l’uguaglianza tra donne ed uomini difronte ad Allah ed ottenere così più ampi diritti.
[3] Europol Specialist Reporting, Women in Islamic State Propaganda. Role and Incentives.
[4] Mujahidat è la forma femminile plurale di mujahid ; la forma singolare femminile è mujahida
Foto copertina: Frame tratto dalla serie Tv “Kalifat”, prodotta da Mohammed Kloob, Tusse Lande, Maggie Widstrand, Raya Aburub, Ulla Fluur e distribuita da Netflix.
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