Libano prossimo fronte? Intervista a Issa Goraieb, editorialista del quotidiano libanese “L’Orient-Le Jour”.


Il conflitto in corso in Palestina rischia di sconfinare da Gaza ed espandersi in tutto il Medio Oriente. Il Libano, dove risiedono i miliziani filo-iraniani di Hezbollah, potrebbe essere il nuovo fronte. Per capire come il Paese dei Cedri sta vivendo questa nuova guerra e quali potrebbero essere le conseguenze di un possibile coinvolgimento di Beirut ne abbiamo discusso con Issa Goraieb, editorialista di punta di “L’Orient-Le Jour“, lo storico e principale quotidiano francofono del Medioriente.


A cura di Domenico Nocerino

L’operazione palestinese “Alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre e la risposta israeliana hanno infiammato ancora una volta il Medio Oriente. Ma il peso, anche psicologico, dell’attacco di Hamas e la violentissima risposta di Tel Aviv che ha provocato migliaia di morti, danno l’impressione di essere dinnanzi a qualcosa di diverso dall’ennesimo capitolo del conflitto tra palestinesi e israeliani, qualcosa di diverso dell’abituale azione-reazione tra le parti.
Poco più di 16.000 morti, secondo le fonti palestinesi, dall’inizio della guerra.
Storie di donne, bambini, anziani, di civili inermi massacrati, storie di ostaggi, storie di scudi umani. E come in tutte le guerre, da una parte ci sono quelli che con un’espressione agghiacciante vengono definite “vittime collaterali”, civili innocenti che perdono la vita senza nemmeno sapere il perché, dall’altra c’è un mondo più o meno sotterraneo, fatto di giochi di potere, di alleanze, di “linee rosse” da non oltrepassare, di contatti, di accordi e di rischi calcolati.
Il rischio maggiore -calcolato o meno – è che che il conflitto possa valicare i confini di Gaza e allargarsi all’intera area mediorientale. L’ipotesi al momento non è così assurda. Se dovesse aprirsi un nuovo fronte, quasi certamente sarebbe quello libanese. Una linea di demarcazione di 79 km, un confine chiamato “Linea blu” separa Israele e Libano. Un confine che negli anni è stato vittima di numerose violazioni da una parte e dall’altra, un confine da sempre, e in particolar modo dopo il 7 ottobre,  terreno di scontro tra le forze israeliane e i miliziani libanesi filo-iraniani di Hezbollah. Beirut assiste con ansia all’evoluzione del conflitto.
Per comprendere come il Libano sta vivendo la guerra a Gaza e quali potrebbero essere le conseguenze di un allargamento del conflitto anche sul proprio suolo, ne abbiamo discusso con Issa Goraieb giornalista ed editorialista di punta presso l’Orient-Le Jour, tra i quotidiani più letti del Paese.

Issa Goraieb giornalista ed editorialista di punta presso l’Orient-Le Jour

Da oltre un mese e mezzo la guerra sta sconvolgendo ancora il Medio Oriente. Questa volta però sembra che siamo di fronte a qualcosa di diverso. Fin dove si spingerà Israele?
Dire qualcosa di diverso è riduttivo; qualcosa di enorme, di mai visto prima sarebbe più giusto. Ciò che accade oggi è soprattutto qualcosa di decisivo che potrebbe davvero portare la situazione al meglio o al peggio. Perché non si tratta di una semplice rivisitazione, molto più violenta, dello scenario classico ripetuto mille volte in Medio Oriente, dove vediamo un attacco arabo seguito dalla rappresaglia israeliana. Con la sua insospettabile audacia, con la sua portata senza precedenti – e anche, sfortunatamente, con le atrocità commesse contro i civili – l’operazione “Alluvione Al-Aqsa” ha scosso Israele dalle fondamenta. Andava in frantumi quel sentimento di sicurezza inviolabile in cui uno Stato viveva paradossalmente, occupando per decenni territori altrui ed inevitabilmente esposto, quindi; ad atti di resistenza. Ma l’operazione del 7 ottobre ha avuto anche l’effetto di spazzare via tutta la polvere che si era accumulata sul dossier della questione palestinese, assente per troppo tempo dalle preoccupazioni della diplomazia internazionale.
Certo, il risveglio è stato particolarmente brutale per Benjamin Netanyahu che, di questa improbabile sicurezza, aveva fatto proprio la sua dottrina, il suo slogan elettorale, che spiega la sua sete di vendetta e la barbarie della punizione collettiva che infligge alla popolazione.
Il problema è che Bibi (Netanyahu) non si batte solo per quello che crede essere il miglior interesse di Israele. Soprattutto, Bibi lotta per Bibi, per la propria sopravvivenza politica e forse anche per la propria libertà.
Il capo del governo aveva ottimi motivi – diversi da quelli militari – per prevedere una lunga guerra per il suo popolo. Ha dovuto ritardare il più possibile il momento di riferire sulla sua gestione, in particolare sulla sicurezza: il momento di affrontare anche il procedimento giudiziario contro di lui per frode e corruzione. Ben prima del 7 ottobre, aveva tentato senza successo di neutralizzare la Corte Suprema israeliana, cosa che aveva scatenato enormi manifestazioni.
Per quanto riguarda la possibilità di sapere fin dove Israele può ancora arrivare, sembrano possibili solo due strade: o il capo del governo israeliano persiste nella sua corsa a capofitto, oppure deve cercare una sorta di compromesso capace, anche se solo momentaneamente, di salvargli la faccia. Tutto dipenderà da due fattori di pari importanza: la preoccupazione dell’Occidente, e più in particolare degli Stati Uniti, di impedire un’estensione regionale della guerra di Gaza, nonché quella di aiutare Netanyahu a scendere dall’ “albero di cocco” su cui si arrampica; e le pressioni di un’opinione pubblica israeliana combattuta tra la fobia di Hamas, la richiesta di un rilascio tempestivo degli ostaggi e la rabbia contro i suoi leader politici e di sicurezza. La leggendaria e sacra unione degli israeliani durante la guerra è già incrinata, poiché l’opposizione chiede l’immediato addio di Bibi. Il momento della verità è quindi vicino per il sistema politico israeliano, una democrazia singolare che tuttavia si adatta molto bene all’occupazione e alla colonizzazione, al razzismo e all’apartheid per tutto ciò che riguarda le popolazioni palestinesi…

Come il Libano sta vivendo la guerra a Gaza?
Stiamo vivendo questa guerra in Libano nel modo più surreale. È già difficile per un piccolo paese aspirare alla tranquillità quando è affiancato da due vicini tanto aggressivi quanto potenti, in questo caso Israele e Siria. Cosa accadrebbe allora ad un Libano già piegato sotto una valanga di gravi crisi politiche, finanziarie e socio-economiche?
Peggio ancora, cosa accadrebbe a un Paese profondamente diviso in clan politico-settari e il cui Parlamento non è in grado, da più di un anno, di eleggere il Presidente della Repubblica?
Di un Libano che rischia, senza un accordo interno, di ritrovarsi privato anche di un comandante dell’esercito, visto che l’attuale detentore del titolo dovrà andare in pensione il prossimo gennaio? Infine, un Libano la cui autorità legale (un governo che si occupi dell’attualità) non ha problemi a riconoscere pubblicamente di non avere alcun controllo sul corso degli eventi?

Ritiene probabile l’ipotesi dell’apertura di un nuovo fronte con il Libano?
Dal 7 ottobre i libanesi vivono nell’ansia, in attesa della reazione di Hezbollah. I sanguinosi scontri a fuoco oltre il confine hanno alimentato la paura generale e decine di migliaia di abitanti del Libano meridionale hanno cercato rifugio in regioni più sicure. Ma la tensione è diminuita significativamente quando è emerso che, a parte i gesti di solidarietà con Gaza, né Hezbollah né il suo capo iraniano sembravano volere che il conflitto si allargasse. Se ciò dovesse accadere, molto probabilmente sarebbe colpa di Netanyahu.

Chi guarda dall’esterno fa fatica a comprendere la natura di Hezbollah. Come se nel Libano ci fosse uno Stato nello Stato. Ci può spiegare questa situazione?
Come si potrebbe descrivere, come direste voi, questo Stato nello Stato?
La formula è ormai superata, è storia antica; e anche se questo significa cadere nell’umorismo nero, la questione ora è se rimane ancora uno spazio molto piccolo per lo Stato libanese nel dominio di Hezbollah. Alla fine della guerra civile libanese, e mentre il paese era sotto l’occupazione siriana, questa milizia era l’unica autorizzata a detenere le proprie armi, con il pretesto della resistenza all’occupazione israeliana. Avvenuto nel 2000, il ritiro unilaterale israeliano è stato giudicato incompleto dalla Siria e da Hezbollah, che ha consentito a quest’ultimo di mantenere intatto il proprio arsenale, modernizzandolo i modo spettacolare. Coinvolta in vari omicidi tra cui quello dell’ex primo ministro Rafik Hariri, la milizia ha da allora continuato ad estendere la propria influenza sul personale politico libanese, promuovendo e proteggendo la corruzione, infiltrandosi nell’amministrazione e controllandola attraverso gli alleati interposti che sono i principali ingranaggi del potere. Ha addirittura preso su di sé la decisione vitale della pace o della guerra, incrociando le armi con Israele nel 2006, inviando i suoi uomini a combattere in Siria e nello Yemen, nonostante la politica ufficiale di neutralità proclamata dal governo di Beirut.

Se Hezbollah decide di entrare in guerra per sostenere Hamas, crede che il Libano resti compatto o c’è un rischio di una nuova guerra civile?
Non sarà certamente Hezbollah a decidere di entrare in guerra; lo farebbe solo su ordine esplicito dell’Iran o se fosse Israele a costringerlo facendo il primo passo. Hassan Nasrallah è senza dubbio consapevole che la sua stessa comunità (i musulmani sciiti) soffre come tutte le altre dell’impoverimento dei libanesi e che non è intenzionata a ripetere la costosa esperienza del 2006. Ma se purtroppo l’irreparabile dovesse ancora accadere, il Libano non si troverebbe senza dubbio più diviso di quanto lo sia già, tra sovranisti filo-occidentali e sostenitori dell’asse siro-iraniano. Per il momento, i due schieramenti hanno più o meno lo stesso peso politico e parlamentare. Ma lo squilibrio tra forze militari e paramilitari, dovuto al formidabile arsenale di cui dispone Hezbollah, è così enorme che riduce notevolmente i rischi di una guerra civile. Quanto all’esercito regolare, che sta sopportando anche lui i rigori della crisi finanziaria, non dimenticheremo che è composto tutto sommato…da libanesi di ogni appartenenza religiosa: che sarebbe quindi soggetto a scissioni se dovesse intervenire a favore di un campo o dell’altro. In ultima analisi, se la guerra dovesse inevitabilmente scoppiare, la questione è sapere in quale stato di salute si troverebbe Hezbollah, e con esso la sua capacità di dettare i propri desideri in Libano…

La Missione UNIFIL a guida italiana da anni cerca di mediare tra le parti. Come viene percepita la presenza militare italiana dai libanesi? L’UNIFIL non è propriamente un mediatore tra Israele e Libano ma una forza di osservazione e di mantenimento della pace la cui missione principale è aiutare il governo libanese a ristabilire la propria autorità nella regione di confine. Resta il fatto che fin dalla sua creazione nel 1978 si è dimostrato prezioso per il Libano, come testimone delle violazioni del cessate il fuoco e garante dei principi delle Nazioni Unite. In genere la sua presenza è percepita favorevolmente dalla popolazione locale, tranne talvolta nei villaggi controllati da Hezbollah. Oltre alla missione militare, il contingente italiano, che conta un migliaio di uomini, offre agli abitanti del Sud numerosi servizi sociali e culturali e gode quindi di particolare simpatia.

Nel suo editoriale del 22 novembre dal titolo “Graines de furie” (Semi di furia) ha scritto: “Abbiamo pensato abbastanza all’enorme carico di odio, di furia vendicativa, che tutte queste terribili uccisioni inevitabilmente produrranno?”. Il tema dell’odio che genera odio ci porta a pensare che non ci sarà mai pace in Medio Oriente…
Sì, è indiscutibile che la barbarica crudeltà ha piantato, da entrambe le parti, i semi di un odio forse inestinguibile. Tuttavia, è proprio per questo motivo che è urgente affrontare la radice del problema, vale a dire il diritto dei palestinesi, come degli israeliani, a vivere in sicurezza nei loro Stati. Astenersi dal farlo, ritardarlo, sia per negligenza che per malizia, significherebbe dare a intere generazioni di vendicatori il tempo di germogliare e svilupparsi; questo condannerebbe la regione a una guerra di mille anni. Il frastuono della battaglia deve essere sostituito dalla voce della ragione.

Si aspetta di più dalla Comunità Internazionale?
Naturalmente, per la buona ragione che i leader di quella che chiamiamo comunità internazionale sono in gran parte responsabili del caos in Palestina. Vogliamo dimostrarlo solo con il numero di risoluzioni delle Nazioni Unite rimaste lettera morta, con la palese parzialità delle potenze occidentali a favore di Israele e con la loro insensibilità alla sofferenza del popolo palestinese. Tuttavia, questi stessi poteri dispongono dei mezzi di persuasione necessari per far ragionare gli estremisti di entrambe le parti.

Quale ruolo le grandi potenze regionali (Egitto, Turchia, Iran e Paesi del Golfo) e mondiali (Usa, Russia e Cina) stanno giocando in questo conflitto?
Quando gli Stati Uniti danno l’impressione di disimpegnarsi dal Medio Oriente, è abbastanza normale che altre potenze agiscano per colmare il vuoto: in particolare la Russia, che interviene militarmente in Siria o la Cina, che si dedica con successo alla penetrazione commerciale. Meglio ancora, quando tutte queste grandi potenze si dimostrano incapaci di concordare un Nuovo Ordine, sono le potenze minori – ma non per questo meno influenti – che mirano a rimodellare e gestire da sole il proprio ambiente. Due progetti imperiali, quello turco e quello iraniano, che rappresentano i due rami sunnita e sciita dell’Islam, sono quindi in costruzione nel Vicino e Medio Oriente. Spesso rivali, si uniscono in questo momento nella stessa e minacciosa condanna di Israele; Ankara e Teheran si affermano così come i primi difensori della causa palestinese, spogliando questo ruolo dei paesi arabi monopolizzati dai loro stessi problemi, e alla loro testa un’Egitto di fronte all’ascesa dell’islamismo e dipendente dall’assistenza americana. Resta il colossale potere finanziario ma anche morale che è l’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi musulmani. La crisi di Gaza ha costretto il principe ereditario MBS a rallentare drasticamente il processo di normalizzazione con Israele già portato a termine da altri regni arabi del Golfo. Ma è proprio il piccolo Qatar, spesso ribelle alla leadership saudita, ad affermarsi ancora una volta come la vera ed imprescindibile stella diplomatica di tutta questa parte del globo. Vero e proprio fenomeno geopolitico, questo ricchissimo Emirato è riuscito nella vera impresa di mantenere buone relazioni con l’Iran ospitando al tempo stesso una delle più grandi basi militari americane e di finanziare Hamas rendendosi utile, se non indispensabile, a Israele. Il Qatar è il principale responsabile degli scambi di ostaggi e prigionieri avvenuti. Un giorno potremmo essergli debitori per la riconversione degli estremisti palestinesi.

Quella dei due Stati è una soluzione praticabile per questo conflitto?
Praticabile? La soluzione dei due Stati dovrà esserci perché di fatto non ce n’è un’altra! L’idea di una Palestina giudeo-araba unitaria è infatti assolutamente utopica; d’altro canto, sarebbe ogni giorno più inaccettabile agli occhi dell’opinione mondiale un bantustan palestinese controllato dal colonizzatore israeliano sotto il famigerato segno dell’apartheid.
Finché c’è buona volontà, da una parte o dall’altra, la speranza non è più vietata.


Foto copertina: A Lebanese flag set by citizens flies in front the site of Tuesday’s explosion that hit the seaport of Beirut, Lebanon, Sunday, Aug. 9, 2020. Lebanon’s information minister resigned on Sunday as the country grapples with the aftermath of the devastating blast that ripped through the capital and raised public anger to new levels. (AP Photo/Hassan Ammar)