All’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica la costruzione dei rapporti con gli Stati Uniti è stata affidata ad Hafiz Pashayev, l’uomo che ha plasmato la diplomazia dell’Azerbaijan a partire dagli anni Novanta. Le sue memorie, pubblicate in italiano da Sandro Teti Editore (2015), raccolgono ben più di una serie di eventi spartiacque nelle relazioni tra i due Paesi, bensì raccontano le fatiche e i successi di un uomo che ha saputo destreggiarsi tra le debolezze iniziali di una Repubblica neo-indipendente, militarmente occupata dall’Armenia e colma di sfollati interni, ma promettente in termini di risorse ed opportunità.
A cura di Valentina Chabert
Pashayev e la diplomazia azerbaigiana
Le biblioteche strabordano di memorie di ambasciatori e diplomatici, donne e uomini mossi dall’amore e dal sacrificio nel servire il proprio Paese all’estero. Storie di incontri, lettere, dialoghi ed eventi che hanno contribuito a tessere il presente e il futuro delle relazioni tra Stati. Le memorie dell’Ambasciatore azerbaigiano Hafiz Pashayev, pubblicate nella versione italiana da Sandro Teti Editore (2015, acquista qui) raccontano invece qualcosa di più. È il flusso di pensieri di un praticante che nei suoi anni di servizio ha fatto nascere, costruito e successivamente plasmato la diplomazia dell’Azerbaijan partendo da condizioni tutt’altro che lusinghiere, mostrando senza veli quanto sacrificio, dedizione, perseveranza ed umiltà sono necessarie ad un Paese recentemente divenuto indipendente, con il 20% del proprio territorio militarmente occupato, 1 milione di sfollati interni e una lobby avversaria che, nelle cancellerie straniere, non si è fatta scrupoli a far valere i propri interessi distorcendo la reale situazione del conflitto nel Caucaso Meridionale.
Una diplomazia che Hafiz Pashayev si è trovato a costruire giorno dopo giorno andando a bussare alle porte che costellano i corridoi della Casa Bianca, nel cuore della potenza trionfante dell’era del bipolarismo, frutto di un costante lavoro burocratico e relazionale tutt’altro che lineare, la cui sfida principale negli anni Novanta era spiegare ai propri interlocutori – mappe alla mano – dove fosse collocata la neo-indipendente Repubblica caucasica.
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Il conflitto in Karabakh
A rendere le memorie del primo Ambasciatore dell’Azerbaigian negli USA di rilevante interesse per gli studiosi del Caucaso Meridionale è la peculiare abilità di ricostruire con grande lucidità e autocritica l’atmosfera della decade Novanta attraverso il racconto degli avvenimenti più importanti di quegli anni.
Tra questi, il primo conflitto del Nagorno-Karabakh, i cui tentativi di risoluzione avrebbero potuto essere di successo – nelle parole dell’Ambasciatore – soltanto quando gli interessi locali, regionali ed internazionali sarebbero stati riuniti sotto lo stesso “tetto” e ricomposti sotto forma di “casa”. Un’affermazione che risale a trent’anni fa ma che si rivela particolarmente lungimirante se letta alla luce degli avvenimenti odierni che vedono Armenia e Azerbaijan sempre più vicini ad un trattato che riporterà la pace in Caucaso. Tuttavia, un trentennio fa le prospettive diplomatiche non apparivano affatto così ottimiste, anzi.
Il conflitto in Nagorno-Karabakh rimase uno scoglio insormontabile nella costruzione delle relazioni con gli Stati Uniti, che dovette necessariamente passare attraverso un duro duello con la lobby armena – potentissima a Washington – per l’abolizione dell’emendamento 907 che danneggiava i rapporti tra Baku e gli USA. L’ostile provvedimento del Congresso, approvato nel 1992, privò l’Azerbaijan della possibilità di ricevere aiuti da parte degli Stati Uniti perché accusato di aver provocato la guerra in Karabakh e assediato l’Armenia.
Risultato della scarsa conoscenza delle dinamiche geopolitiche del Caucaso Meridionale tra i circoli di potere d’oltreoceano, sedotti dalla lobby armena sulla base di leve religiose e culturali, l’emendamento è ancora oggi vivo nella memoria degli azerbaigiani, la cui diplomazia si trova spesso in fasi alternanti di distacco e riavvicinamento a Washington per via dell’altalenante sostegno statunitense.
Il rapporto con gli USA alla luce dell’emendamento 907
Sebbene il testo dedichi ampio spazio agli avvenimenti che hanno preceduto importanti visite di Stato, ai rapporti con il potere centrale a Baku e alla vita quotidiana dell’Ambasciatore a Washington e New York, altrettanto spazio è riservato alle conseguenze della mancata abolizione dell’emendamento 907 per l’Azerbaijan e all’impatto che questo ha avuto sui rapporti del Paese caucasico con gli Stati Uniti.
Pashayev mostra il duro lavoro che è toccato all’Azerbaijan per riuscire ad affermarsi ed ottenere il riconoscimento internazionale senza l’aiuto finanziario degli USA. Ma il primo diplomatico non si risparmia dall’andare oltre l’aspetto materiale della faccenda, mostrando come in realtà l’emendamento offendeva la nazione azerbaigiana minando la sua fiducia nella giustizia. Baku in quegli anni necessitava di un atteggiamento imparziale nei propri confronti da parte di uno Stato amico, e nonostante ciò non fosse avvenuto a livello politico era chiaro che in realtà non si trattasse di una decisione del popolo americano, né di un atteggiamento ostile di quest’ultimo nei confronti della nazione azerbaigiana. Fu tuttavia – secondo Pashayev – un esempio delle lacune della democrazia statunitense, spesso vittima di gruppi che sostengono interessi specifici. Chi vuole fare politica ed essere eletto deve avere il voto degli elettori e i mezzi finanziari per lo svolgimento della campagna elettorale; pertanto, non si può essere indifferenti agli interessi dell’elettorato. Proprio in questi frangenti si formano gruppi di pressione che offrono al politico due cose importanti: il voto degli elettori e il sostegno economico. In questo l’Ambasciatore fu sia studente che insegnante del rapporto tra Congresso e Stati esteri. Per citare Brzezinski, Pashayev comprese che “quello delle lobby è un sistema aperto. Anche voi potete dire la vostra. Non c’è alternativa”.
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