Mokhtar Belmokhtar e gli equilibri del jihad in Africa occidentale


In vita (e morte?) del più temuto terrorista saheliano


 

Il 27 novembre 2016, il Wall Street Journal, citando fonti securitarie americane, ha annunciato la presunta uccisione di Mokhtar Belmokhtar nel sud della Libia, per effetto di un raid aereo francese guidato dalle informazioni fornite dalle unità di intelligence statunitensi. Il terrorista algerino, testa di ponte di Al Qaeda in Africa occidentale e ricercato su scala globale,[1] sarebbe stato eliminato nel corso di un’operazione controterroristica condotta nel quadro della cooperazione militare rafforzata tra Francia e Stati Uniti. Una notizia di tale portata verrebbe normalmente accolta con soddisfazione, per la capacità di aprire scenari nuovi e inaugurare prospettive incoraggianti nella lotta al terrorismo di matrice jihadista in Sahel.

Tuttavia, trattandosi di Belmokhtar, la prudenza è d’obbligo. Il forte scetticismo, diffuso tanto tra le cancellerie occidentali quanto tra i governi della regione, si spiega ricordando che, tra 2012[2] e 2016, le notizie che confermavano la morte di Bellawar[3] a seguito di offensive militari francesi, americane, algerine o ciadiane, si sono rincorse istericamente, seguite da puntuali smentite.[4]

Nato a Gardaïa, in Algeria, nel 1972, Khaled Abul Abbas costruì il suo percorso di militanza armata a partire dai primi anni ’90 in Afghanistan, dove fu sottoposto ad addestramento militare dopo essersi unito alla lotta condotta dai mujaheddin talebani contro gli occupanti sovietici. Rientrato in Algeria nel 1993, prese parte alla guerra civile e aderì al Groupe Islamique Armé (GIA), dando vita alla katiba Al-Shahada. La creazione del Groupe Salafiste pour la Prédication et le Combat (GSPC), nato da una dissidenza interna al GIA, si accompagnò alla progressiva ascesa di Belmokhtar nei territori saheliani a sud della frontiera algerina. Nel 2007, la bay’at del GSPC ad Al Qaeda condusse alla nascita di Al Qaeda en Maghreb Islamique (AQMI); a Mokhtar fu riconosciuta la leadership della katiba Al-Moulathamine, operativa tra il sud-ovest dell’Algeria, il nord Mali e la Mauritania. L’attivismo e l’autonomia della sua brigade determinarono uno spostamento del centro di gravità dell’organizzazione qaedista verso il Sahel. Il coinvolgimento intensivo nelle reti di traffici illegali della regione, in particolare nel contrabbando di sigarette,[5] incrementò le risorse a sua disposizione, consentendogli altresì di strutturare un solido radicamento sociale e di tessere relazioni privilegiate, di sostegno o di complicità, con popolazioni locali, capi consuetudinari e membri delle forze di sicurezza, facilmente corruttibili e ampiamente corrotti.

Gli interessi consolidati di Belmokhtar nei traffici illegali di merci in Sahel alimentarono resistenze e contrasti in seno all’organizzazione;[6] sordo alle direttive imposte dai vertici, la sua autonomia pressoché totale causò un deterioramento delle relazioni con Abdelmalek Droukdel, dando impulso a uno spostamento degli equilibri interni all’organizzazione e a un ridimensionamento del suo ruolo in seno ad AQMI. La frattura fu consumata ufficialmente nel dicembre del 2012, quando Belmokhtar ufficializzò la creazione di una nuova organizzazione, separata da AQMI: la katiba Al-Muwaqqi ‘inib-dima.

Il battesimo di fuoco del neonato soggetto jihadista si ebbe solo poche settimane dopo: il 16 gennaio 2013, a pochi giorni dall’avvio dell’offensiva francese contro l’avanzata delle forze qaediste in Mali, l’Algeria fu fatta oggetto di un attacco terroristico di vaste proporzioni. Il sito estrattivo di Tiguentourine, piccola località nei pressi della città di In Amenas, nel sud-est algerino, fu preso d’assalto da un commando jihadista composto da una trentina di uomini appartenenti alla katiba di Belmokhtar.

I jihadisti assunsero il controllo dell’intera area, circa 790 dipendenti impiegati sul sito furono tenuti in ostaggio e utilizzati nelle trattative con le autorità algerine, cui fu chiesto di ordinare il ritiro dell’esercito francese dal Mali, di liberare i prigionieri jihadisti detenuti in Algeria e negli Stati Uniti, e di predisporre un corridoio di sicurezza per consentir loro di allontanarsi. Il governo di Algeri rifiutò di negoziare con i mujaheddin: la risposta delle forze armate fu violentissima e comportò l’utilizzò di artiglieria pesante.

Le milizie agli ordini di Belmokhtar intesero colpire il regime di Bouteflika per aver concesso alle forze francesi l’autorizzazione di sorvolo degli spazi aerei algerini da parte dei Rafale diretti in nord-Mali e incaricati di bombardare le colonne di pick-up dei mujaheddin. Gli eventi di In Amenas proiettarono Belmokhtar al centro della scena mediatica, mostrando, al contempo, la solidità del network a sua disposizione, le sue forti capacità strategiche e l’ampia disponibilità in uomini e mezzi.

Nelle fasi immediatamente successive alla riconquista dei territori del nord Mali da parte della coalizione di forze franco-africane, Belmokhtar si avvicinò ai miliziani del Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO), accomunati dallo stesso interesse per il controllo dei traffici saheliani; nel 2014, il MUJAO e la katiba di Belmokhtar si fusero, dando vita al gruppo Al-Mourabitoun, organizzazione jihadista operativa in Africa occidentale. Le azioni di Al-Mourabitoun, talora particolarmente incisive e spettacolari, hanno oscurato la presenza di AQMI nella regione, apparsa indebolita dall’offensiva francese. Belmokhtar riuscì a dar prova della sua essenzialità nel quadro della lotta jihadista in Sahel, dell’indispensabile portata delle sue risorse umane, materiali e strategiche, e ciò, nonostante le ostilità nei confronti della filiale maghrebina, gli valse il riconoscimento della casa madre Al Qaeda: Al-Mourabitoun assunse la denominazione di Al Qaeda du Jihad en Afrique de l’Ouest, restando saldamente ancorata al perimetro qaedista nella regione. Tra 2015 e 2016, gli attentati a Bamako, Sevaré, Ouagadougou, Grand Bassam, rivendicati da Al-Mourabitoun, hanno confermato la centralità di Belmokhtar negli equilibri del jihad regionale, testimoniata peraltro dal riavvicinamento alla filiale maghrebina di Al Qaeda, che ha consolidato e rafforzato la presenza qaedista nella regione dopo una lunga fase di reciproca ostilità latente.

L’importanza del network jihadista di Belmokhtar in Sahel rivela chiaramente il peso che la sua dipartita avrebbe per la tenuta di Al Qaeda nella regione, in termini di forza propulsiva e capacità strategica, tanto in relazione alla presenza delle forze controterroristiche regionali e francesi, quanto nel quadro della competizione interna alla galassia jihadista con Daesh.[7] Le spinte di parte dell’organizzazione in direzione di un avvicinamento a IS sono state circoscritte dall’autorità di Belmokhtar, che ha costantemente ribadito la fedeltà di Al-Mourabitoun ad Al Qaeda.

Recentemente, la fazione guidata da Adnan Abou Al-Walid Al-Sahrawi, già membro del Fronte Polisario, emiro e portavoce di Al-Mourabitoun, avrebbe preso le distanze da Belmokhtar, dichiarando fedeltà a Daesh e offrendo ad Al Baghdadi un posizionamento strategico in Sahel: se tale dinamica non sembra per ora aver sostanzialmente alterato gli equilibri regionali, è probabile che l’eliminazione di Belmokhtar possa alimentare un flusso ben più consistente di uomini e risorse verso le filiali regionali di Daesh.

Diversi segnali sollevano, ancora una volta, enormi dubbi circa l’attendibilità della fonte che riferisce dell’uccisione di Belmokhtar. Su tutte, l’incongruenza della notizia legata ai presunti bombardamenti in Libia, che ne avrebbero causato la morte: ufficialmente, le autorità francesi – pur costrette ad ammettere la presenza di militari in ricognizione nel sud libico, dopo la morte di tre membri della DGSE in missione e le polemiche solevate dal governo di Tripoli, che ha accusato Parigi di violare illegittimamente il proprio territorio – ha costantemente smentito operazioni offensive nella regione.

La confusione è ulteriormente alimentata dalle dichiarazioni rilasciate da fonti libiche, che avrebbero confermato i raid aerei di forze straniere diretti su una colonna di veicoli identificati come appartenenti a gruppi jihadisti, senza menzionare però il ruolo dell’aviazione militare francese, e anzi precisando che l’offensiva sarebbe stata condotta a sud di Tripoli, intorno a Banī Walīd – considerato da alcuni analisti roccaforte di Belmokhtar in Libia – e non nel Fezzan, come invece riferito dal Wall Street Journal. A Bamako, infine, fonti securitarie non governative riferiscono di un Belmokhtar effettivamente colpito dall’offensiva e gravemente ferito, ma ancora in vita.[8]

In definitiva, l’annuncio della morte del leader jihadista non sembra, al momento, poter trovare solide conferme; le contraddizioni emerse e la frammentarietà delle informazioni a sostegno della tesi lasciano supporre che, ancora una volta, la notizia dell’eliminazione di Belmokhtar risponda, molto probabilmente, ai soli wishful thinking delle forze controterroristiche impegnate in Sahel.


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[1] 5 milioni di dollari è la ricompensa riconosciuta dagli Stati Uniti a chiunque possa fornire informazioni utili alla cattura di Belmokhtar.

[2] Durante i primi mesi del 2012,  la coalizione di forze qaediste in Sahel occupò i territori del nord maliano, epicentro dell’instabilità sahelo-sahariana, accentuando i tratti di una profonda crisi multidimensionale, inaugurata con la ribellione dei nazionalisti tuareg del Mouvement National de Liberation de l’Azawad (MNLA) e accentuata dal golpe militare a Bamako.

style=”color: #000000;” href=”#_ftnref3″ name=”_ftn3″>[3] “Il guercio”, così denominato a causa della perdita di un occhio durante la sua permanenza in Afghanistan.

[4] Nel 2012, fonti giornalistiche algerine riferirono della morte di Belmokhtar nel corso di combattimenti tra gruppi jihadisti e nazionalisti tuareg a Gao; nel 2013, le forze militari ciadiane assicurarono di aver ucciso Belmokhtar nella regione dell’Adrar des Ifoghas; nell’aprile del 2015, i servizi di sicurezza algerini dichiararono morto Belmokhtar, avvelenato; nel 2015, le autorità libiche annunciarono la morte del jihadista saheliano nel corso di un raid americano nell’est del paese.

[5] Le profonde implicazioni nelle reti di traffico valsero a Belmokhtar il soprannome di “Mr. Marlboro”.

[6] Abou Zeid, suo rivale per l’influenza nella macroregione a sud dell’Algeria, lo accusò di comportamenti contrari ai principi islamici, ottenendo il sostegno del majlis al’a’yan, il Consiglio dei Capi, che si pronunciò escludendo il coinvolgimento dei nei traffici dalle fonti di finanziamento legittime della lotta armata. É presumibile che tale presa di posizione del comitato giuridico dell’organizzazione abbia originato il progressivo deterioramento di rapporti tra l’organizzazione centrale di AQMI e la katiba el-Moulathamine di Belmokhtar, che, da par suo, considerava l’adozione sistematica di una strategia di kidnapping deleteria per lo sviluppo dei traffici trans-sahariani, in ragione delle attenzioni eccessive che gli apparati securitari degli Stati coinvolti avrebbero concentrato sulla regione e che, evidentemente, avrebbero indebolito la sua posizione di forza e limitato la portata di un business ormai consolidato.

a style=”color: #000000;” href=”#_ftnref7″ name=”_ftn7″>[7] In questo contesto, Belmokhtar sarebbe ricercato dai militanti libici di Stato Islamico, in ragione del suo ruolo di appoggio ai miliziani qaedisti in occasione degli scontri con IS a Derna, nel 2015.

[8] Intervista, Bamako, 16 dicembre 2016.

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Immagine in copertina: Mokhtar Belmokhtar – Fonte: Huffington Post 

 

 

Riferimenti bibliografici

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