La Birmania si pone come un potente magnete rispetto agli interessi americani e cinesi nello scacchiere geopolitico.
Libro consigliato
A prima vista, lo Stato della Birmania, oggi conosciuto come Myanmar, si presenta come un’immensa distesa di verde natura lussureggiante e, a perdita d’occhio, si scorgono le morbide guglie dei templi; c’è un richiamo al silenzio, che si raccoglie nelle preghiere di un Paese a prevalenza buddista e la cui popolazione resta, fin dall’antichità, dedita all’allevamento, l’agricoltura e alla pesca.
Colorati mercati si accendono nel baccano dei centri abitati, si vendono tabacco, sigari cheerot, arrotolati a mano, rossissimi pomodori di prima qualità, verdure di ogni tipo, pesce essiccato in tutte le maniere; l’odore acre e quasi nauseabondo, proprio del pesce fermentato, impregna l’aria dei mercati; tra i principali ingredienti della cucina birmana, lo ngapi, una pasta nera ottenuta dagli avanzi della lavorazione del pesce pestati e lasciati fermentare, ricorda l’antico garum, che nel nostro Mediterraneo veniva utilizzato al tempo degli antichi romani per insaporire e conservare le pietanze al posto del sale.
C’è un dettaglio che non sfugge facilmente quando si passeggia per i più piccoli villaggi, ma anche nelle più grandi città come quelle di Mandalay o Yangon (Rangoon), ovvero che sia impossibile scorgere la benché minima traccia di imborghesimento urbano, come se un tempo immobile non abbia mai lasciato penetrare nessun accenno di modernità all’interno di questo antico silenzio buddista, che dura da mille anni. Solo templi o capanne.
Sono pochissimi, infatti, gli edifici più lussuosi o moderni a Mandalay, capitale culturale del Paese, in cui ha sede l’antico palazzo reale; a Yangon invece, la città più vasta della Birmania e precedente capitale, qualche povero edificio di cemento abbozzato si erge lungo le strade principali che ospitano uffici e negozi.
L’attuale capitale del Myanmar è , dal 2005, Naypyidaw.
Si narra che il principe indiano Ashoka, nel 200 a.C., intenzionato ad esportare la cultura buddista dall’India, giunse fino a queste terre e fece costruire molti templi, che ancora oggi si possono visitare e che hanno continuato ad essere costruiti in seguito, come il meraviglioso sito di Pagan, monumento al regno di Pagan (o Bagan), che compare in mezzo alle eterne valli, tra sassi di legno fossilizzato e l’orgoglio della Birmania, ovvero gli alberi di Amherstia nobilis, “l’albero che si pavoneggia”, i cui fiori emettono un suono di flauto se ci si soffia dentro, diletto delle fanciulle birmane che si divertono passando così i loro pomeriggi.
Alla scoperta di queste immense distese attraversate dall’Irawaddy, il fiume sacro alla Birmania, si stagliano le sacre costruzioni di pietra arenaria consumate dal vento, che svelano colorati affreschi per la maggior parte ancora intatti.
Al loro interno sono custoditi maestosi Buddha dorati. All’ingresso di ogni tempio, vengono vendute foglie d’oro che i pellegrini possono acquistare e che dopo aver portato le loro preghiere al Mahyama, scaldano fra le mani e applicano su un punto della statua; a causa di questa usanza, le statue dei Buddha nei templi birmani, appaiono come grossi ammassi ricoperti di bolle d’oro, per via dell’applicazione disordinata e ripetuta sugli stessi punti del corpo della statua, quelli più raggiungibili dai pellegrini birmani, che si sa, non sono tanto alti. In Birmania le miniere d’oro, con quelle di rubini, costituiscono grandi fonti di approvvigionamento minerario, stesso per il petrolio.
La Birmania non ha mai conosciuto gentrificazione alcuna e pare che dai tempi di Ashoka nulla sia cambiato o quasi. Sull’Irawaddy, la principale e preziosa via fluviale del Paese, i battelli scorrono ancora oggi nella pace, tra le rive naturali, trasportando merci e persone. Sull’Inle Lake, suggestiva immensa laguna che si apre fra i fianchi montuosi delle Shan Hills, delle immense isole galleggianti, frutto dell’arenamento di sacche di limo, vengono coltivate a pomodori e si lavora il fiore di loto, dal quale si ricava un prezioso filo spesso, tessuto insieme con la seta grezza e con cui vengono confezionate bellissime stoffe.
Sul fare del giorno, se ci si trova in mezzo al lago ospiti sulle palafitte costruite in modo sparso o in prossimità delle floating island, sono i motori delle piroghe a svegliare la comunità, le piccole hle, imbarcazioni affusolate che si mettono in moto per condurre i suoi abitanti in questa quotidiana vita paradisiaca, a contatto con tutto ciò che il lago divinamente offre loro.
Colonia britannica nel XIX secolo, in seguito alla caduta del grande Impero birmano dell’Irawaddy, si deve arrivare al 1948 per veder proclamata l’indipendenza di Stato del Myanmar.
Il paese fu denominato Unione di Burma, con Sao Shwe Thaik come primo presidente e primo ministro. Non entrò mai a far parte della costellazione del Commonwealth e fino al 1960 l’organizzazione di un parlamento bicamerale assicurò elezioni formalmente democratiche per il Paese.
Nel 1961, U Thant, (diplomatico birmano fervente nazionalista e fedele alla corona britannica), che durante la seconda guerra mondiale servì i giapponesi per il Reducational Reorganizing Commettee, fu eletto segretario generale delle Nazioni Unite, il primo non scandinavo a ricoprire questo ruolo, posizione che mantenne per dieci anni. Fra coloro che lavorarono al fianco di U-Thant c’era una giovane donna, Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San.
Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, fu politico e rivoluzionario birmano che servì come quinto primo ministro della colonia birmana sotto la corona britannica; convinto nazionalista, considerato padre della nazione, fu il fondatore del Tatmadaw (odierne forze armate della Birmania), e tra i fautori della liberazione del Myanmar dalla Gran Bretagna, ma fu assassinato sei mesi prima dell’indipendenza nel 1947.
Il 2 marzo del 1962, un colpo di Stato, condotto dal generale Ne Win, sovvertì il Paese e il generale prese il controllo del potere instaurando una dittatura militare.
Dal 1962 al 1974 il Myanmar fu governato da un consiglio rivoluzionario con a capo il generale. Era la “via birmana al socialismo” e tutti gli aspetti della società vennero statalizzati e nazionalizzati, calcando il modello sovietico e quello dello Stato centrale. Venne emanata una nuova costituzione, quella della Unione Socialista di Birmania e la dittatura militare durò fino al 1988 con un sistema monopartitico.
Durante questo lasso di tempo il Paese divenne uno dei più poveri del mondo. Ogni tentativo di protesta fu sempre soppresso violentemente.
Migliaia di manifestanti della Uprising 8888 (movimento democratico 8-8-88 Uprising chiamato anche People Power Uprising), vennero repressi nel sangue. Nel 1990, quando vennero indette le elezioni democratiche, a vincere furono formalmente i democratici del partito di Aung San Suu Kyi, ma il governo militare si rifiutò di cedere il potere e continuò a governare fino alla sua dissoluzione nel 2011.
Apriamo qui una finestra. Nel 2011 durante i colpi di Stato nel Mediterraneo con le Primavere arabe, negli anni in cui Berlusconi era a capo del Governo in Italia, sapevamo, o almeno si diceva, che Gheddafi stesse per lasciare la Libia e trasferirsi in Italia come uomo d’affari per lasciare il posto al figlio, portandosi dietro i suoi ingenti capitali. Sul Wall Street Journal e sul Financial Times, così come sul Time, si leggeva in quei giorni, di come Gheddafi pareva quasi pestarsi i piedi da solo, paragonato al suo omologo nord coreano comodamente però seduto sulla sua bomba atomica. Lo sbeffeggiamento dei giornali occidentali lasciava trapelare chiaramente che di lì a poco si sarebbe verificato un prossimo regime change.
Il Myanmar si pone infatti oggi come un potente magnete rispetto agli interessi americani e cinesi nello scacchiere geopolitico, alla luce anche dell’ingresso a spron battuto dell’India in questo quadro di alleanze nell’Asia- Pacifico, dove quest’ultima si inserisce a fianco di Stati Uniti e del Giappone, in contrasto all’espansione cinese affiancata dal Pakistan.
Così si è aperta una fase di politica cinese di conciliazione a livello globale, per togliere lo scettro alla Aung San Suu Kyi di presidenza della Birmania.
Certo che la figlia di Aung San, non potrebbe diventare la presidente della Birmania, poiché in Birmania si deve essere al cento per cento birmani per governare e la Aung San Suu Kyi, risiede in Inghilterra, così come i suoi figli che lì studiano, pur continuando a comandare.
Molte sono state, nella storia più recente del Myanmar, le tristi occasioni in cui si sono consumati scontri civili. Ad oggi la minoranza più a rischio sono i Rohingya[1], insieme ai Rakhine (minoranza buddista), Mro, Daignet e Chin.
I Rohingya costituiscono la minoranza musulmana della Birmania contro la quale si stanno compiendo massacri tra i più efferati. L’area nella quale si inseriscono è una zona di cooperazione sino-birmana per la quale i Rohingya chiedono l’indipendenza, che però non viene loro concessa proprio dalla stessa Aung San Suu Kyi e dal Governo. La cooptazione da parte delle frange estremiste musulmane jihadiste ha visto macchiarsi la zona di attentati e l’attenzione internazionale si è fatta più viva soprattutto quando, durante la reggenza Obama negli Stati Uniti, con Hilary Clinton, si è tentato di restituire una parvenza democratica al Paese e si è offerto alla minoranza di evacuare la zona per raggiungere gli Stati Uniti in asilo politico.
Proprio nel 2012, si sono tenute nuovamente in Birmania le elezioni, che videro una grande maggioranza di seggi assegnati proprio al partito democratico retto dalla Aung Sa Suu Kyi.
Ricordo bene quel giorno, mi trovavo a Yangon. Sotto la sede amministrativa del partito sventolavano felici le bandierine rosse con le stelle bianche a cinque punte e i pavoni. Ma girato l’angolo, nessuna traccia di festeggiamento e salita sul taxi chiesi al tassista sul perché di tanto silenzio e ordinarietà per le strade, il quale mi rispose, che francamente non gliene importava granché, perché secondo lui nulla sarebbe cambiato. In effetti acquistato il quotidiano internazionale ufficiale, non vi trovai neppure un piccolo articolo di fondo che riportasse la notizia di questa vittoria.
La Birmania è un paese prevalentemente analfabeta e un buon 80% della popolazione nemmeno si recò ai seggi per il voto in quell’occasione. Fu dunque una vittoria formale, buona da usare per l’opinione pubblica internazionale e far emergere sotto una nuova luce positiva la figura della stessa Aung San Suu Kyi, la quale dopo dieci anni fu finalmente scarcerata.
Attuale state counsellor, e prima donna ministro degli affari degli esteri birmana, Aung San Suu Kyi fu infatti imprigionata dalle milizie governative nel 2002, accusata di cospirare contro il regime e di essere collusa con la CIA. Insignita del premio Nobel è stata in seguito aspramente criticata dalle Nazioni Unite che ha chiesto il ritiro del premio, e proprio a causa dei massacri che vengono perpetrati ad oggi ai danni di queste piccole minoranze, che nel frattempo hanno imbracciato le armi per difendersi. Insieme ai Rohingya ci sono anche i buddhisti Rakhine ad unirsi nella protesta e Aung Saan Suu Kyi condanna aspramente questi piccoli gruppi considerati dal Governo dei terroristi.
A questo punto, dato il quadro, ci addentriamo in quella che è la situazione complessa di un’area che rappresenta il nodo di gordio nel sud est asiatico e per gli equilibri fra le grandi potenze mondiali per il potere nell’Asia Pacifico e Indo-Pacifico.
Il Myanmar rappresenta infatti l’area subito perspicente a sud ovest dello Yunnan, area su cui la Cina punta inoltre moltissimo per il suo sviluppo. È la via terrestre che collega l’India alla Cina e costituisce il punto di collegamento centrale marittimo e terrestre tra la parte est e quella ovest dell’Asia meridionale.
Negli ultimi anni e ancora in questi ultimi giorni, vediamo che la Cina traballa sulle decisioni da prendere, che chiare non appaiono. Resta incerta, di fronte alla globalizzazione e ancora non sa se entrare nel giro del capitalismo le convenga veramente.
Così come abbiamo visto Hong Kong dunque rappresentare una delle ferite nel sistema cinese, anche il Myanmar resta ad oggi area delicata sulla quale Xi sta cercando di operare. Recentemente gli incontri da Aung San Suu Kyi e Xi Jinping sono stati frequenti.
Proprio riguardo a Xi Jinping la nomina presidenziale in Cina ci dirà che strada intraprenderà prossimamente la grande “terra di mezzo” sulla scacchiera globale.
Dopo la morte di Deng Xiaoping, si erano creati in Cina dei gruppi familiari” legati alle famiglie dei generali che erano state importanti sotto Mao, i cosiddetti “principini”. Questi, si erano prefissati di evitare la lotta tra i discendenti di questa generazione immediatamente precedente a quella di Xi e, a rotazione, ogni dieci anni, di scegliere i rappresentanti da ciascuno di questi gruppi. Dopo i primi due gruppi e la loro “reggenza”, questi si sono però trasformati nella futura élite della Cina “capitalista”.
Il rischio sarebbe stato che proprio a metà, il processo si sarebbe potuto interrompere con pochi vincitori e molti perdenti. Questa è stata la riforma di Xi, che ha posto il partito sopra ogni cosa. Non sappiamo però, se tale impostazione reggerà a lungo termine. Il sistema pare immobilizzato su dei centri di potere politico-familiare. Appare dunque il capitalismo oligarchico di Xi interrotto.
Ad oggi si sono infatti creati interessi privati che comunque mettono in discussione questo equilibrio. La Cina non ha risposte semplici a questo problema così complesso. Riflette in questo momento sul proprio destino.
Con il Covid-19 certamente molti degli equilibri più determinati fino allo scorso gennaio, sono saltati, pur costituendo per la Cina, in prospettiva, un problema minore rispetto a quello che il virus e la pandemia ha costituito ad esempio per gli Stati Uniti, dove 30.000.000 di persone hanno immediatamente perso il lavoro in un Paese in cui il sistema sanitario pubblico non presenta anticorpi, come in India.
La Cina resta “una potenza che in permanenza riflette sul proprio divenire”. I cinesi, fin dai tempi più remoti, non hanno mai ritenuto ragionevole dotarsi delle “armi dei barbari”, ma di continuare e perseverare nella loro politica più autarchica o comunque referenziale. Proprio la globalizzazione li ha costretti “ad entrare nel gioco”.
E mentre il mondo del futuro viene immaginato nei programmi spaziali privati, i trapianti di testa o con la criogenetica, e quindi dove l’uomo possa essere liberato dalla morte, dall’altra abbiamo una seconda prospettiva, in cui la tecnologia dovrebbe invece liberare l’uomo dalla schiavitù in terra.
La Cina forse, guardando troppo al suo ombelico e meno al mondo esterno, sta giocando la partita con molta difficoltà, con tutti i dubbi che sorgono sul fatto che davvero possa diventare il centro del mondo nel prossimo futuro.
Ritorniamo, con Stati Uniti e Cina, sul Myanmar. L’insensibilità rispetto a questo ginepraio che si è creato oggi lungo la striscia di terra birmana, accende problemi geostrategici che vengono intanto giocati con la carta delle minoranze Rohingya.
Il Myanmar infatti doveva entrare a far parte di un piano che viene definito “regime change”. Accade però che il patriottismo della Aung San Suu Kyi, ereditato dal padre, e che rende il Paese birmano quindi mal disposto a far da cameriere agli americani, tantomeno ai cinesi, si mostra così adatto a sfruttare la posizione per restare indipendente.
Ma parrebbero questi, regimi da operetta. Come li definirebbe qualcuno.
Note
[1] https://www.opiniojuris.it/la-tutela-rohingya/
Copertina:Ufficiali militari del Myanmar alla cerimonia di apertura dei Giochi internazionali dell’esercito al Patriot Park di Mosca, Russia nel 2018. Foto: Sergei Bobylev / TASS / Getty Images.
[trx_button type=”square” style=”default” size=”large” icon=”icon-file-pdf” align=”center” link=”https://www.opiniojuris.it/wp-content/uploads/2020/08/Regimi-da-operetta.-Il-Myanmar-tra-cronache-di-viaggio-e-geopolitica-Verdiana-Garau.pdf” popup=”no” top=”inherit” bottom=”inherit” left=”inherit” right=”inherit” animation=”bounceIn”]Scarica Pdf[/trx_button]