Il lascito del magistrato Giovanni Falcone: dal 41-bis alla Direzione Nazionale Antimafia e Direzione Investigativa Antimafia.
Spesso, forse troppo spesso, il pensiero dedicato a Giovanni Falcone si ferma solo alla tragica strage di Capaci in cui il magistrato, la moglie Francesca Morvillo (anch’essa magistrato) e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro persero la vita – più che “persero” meglio dire “gli venne brutalmente sottratta”. Ma ridurre la storia del magistrato Falcone alla sola Capaci è uno sbaglio imperdonabile. Così facendo si rischia di perdere il senso di quelle morti, si rischia di perdere il senso del suo operato, di ciò che in vita fece e, soprattutto, di ciò che lasciò alle generazioni future.
A distanza di anni dall’eccidio, senza nulla togliere all’operato in merito alle storiche sentenze e alle indagini prematuramente fermate dal tritolo mafioso (e non), oggi possiamo affermare come i principali lasciti dell’“eroe” Falcone possono ritrovarsi in tre istituzioni della lotta alle mafie: 41-bis, DNA e DIA.
L’arma del 41-bis venne introdotta all’interno dell’ordinamento penitenziario italiano dalla Legge 663/1986, “legge Gozzini”. Volta a modificare la Legge 334/1975, applicabile in origine ai soli casi di emergenze interne alle carceri, la legge del 1986 introduceva un particolare regime di reclusione carceraria in presenza di determinate emergenze e/o necessità (tra cui permessi premio, detenzione domiciliare, regimi di semilibertà etc…). L’idea di un “carcere duro” per i boss mafiosi fu fin da metà degli anni ’80 una delle principali battaglie dell’allora membro del pool antimafia di Palermo. L’idea però venne a concretizzarsi, come spesso è accaduto e accade in Italia, solo dopo un certo evento tragico, nel caso specifico la strage di Capaci. Sotto le pressioni e lo sdegno sociale del popolo italiano causato dal tritolo mafioso, l’ultimo governo della Prima Repubblica varò nel giugno dello stesso anno il Decreto Legge 306/1992, cd. “Decreto Antimafia Martelli-Scotti”, convertito poi in legge il 7 agosto successivo a seguito di un’altra tragedia: la strage di Via D’Amelio.
Il nuovo testo di legge, modificando l’articolo 41-bis, ampliava di fatto i poteri del Ministro della Giustizia, il quale “quando ricorrono gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica […] ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti di detenuti […] per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso […] l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge”[1]. In sostanza il Ministro della Giustizia nella formulazione del 1992 poteva sospendere determinate garanzie al fine di applicare delle “restrizioni necessarie” nei confronti di detenuti mafiosi.
La ratio della norma pensata dal giudice Falcone la si può ritrovare proprio nel carattere isolante del detenuto. L’obiettivo infatti è quello di impedire passaggi di informazioni ed ordini tra boss mafiosi detenuti e consociati liberi di agire al di fuori delle carceri.
Dopo l’esperienza delle prigioni siciliane degli anni ’70 – caso per eccellenza il carcere dell’Ucciardone di Palermo, conosciuto in ambito criminale come “Hotel Ucciardone” per i trattamenti “di lusso” che i carcerati per mafia ricevevano, nonché per la quotidianità di visite dei boss mafiosi – il magistrato Falcone ebbe una storica intuizione. Al pari della storica intuizione di Pio La Torre, segretario regionale siciliano del Partito Comunista Italiano, in merito al sequestro e confisca dei beni ai condannati per mafia, da cui deriva l’art. 416-bis del Codice Penale – introdotto solo dopo la sua morte, quasi a confermare il modus operandi precedentemente descritto del legislatore italiano – Giovanni Falcone comprese che per ridurre l’influenza dei boss mafiosi al di fuori del carcere, nonché per assestare duri colpi all’allora egemone mafia siciliana, era necessario recidere determinate linee di comunicazione tra boss e adepti. Da tale emergenza nacque l’idea del “carcere duro” in cui il boss mafioso veniva fisicamente e socialmente isolato dalla comunità carceraria ed ovviamente da interferenze esterne al carcere. Secondariamente poi il regime detentivo speciale fungeva, oltre che da monito, anche da stimolante per i suoi detenuti alla collaborazione con la giustizia.
Nella sua matrice originale il 41-bis nasceva come misura detentiva a carattere temporaneo, con un periodo di tre anni dalla sua entrata in vigore. Tuttavia, per le esigenze storiche degli anni ’90, la norma fu prorogata più volte fino a quando il 24 maggio 2002 il Governo Berlusconi II (contrariamente a qualsiasi previsione) deliberò un disegno di legge con finalità di abrogare il carattere temporaneo della norma, estendendone inoltre l’applicabilità anche ai condannati per terrorismo ed eversione.
Oggi la norma, dopo non poche modifiche lungo il corso dei suoi trent’anni di vita, annovera tra le misure applicabili:
- Isolamento dei detenuti in apposite celle singole senza possibilità di accedere agli spazi comuni del carcere;
- Sorveglianza 24h;
- Due ore d’aria, sempre in isolamento;
- Limitazione dei colloqui con i familiari (non sempre concessi) e con il proprio avvocato;
- Controlli su posta in entrata ed uscita;
- Limitazione di beni ed oggetti in possesso ai detenuti nelle loro celle (scrupolosamente controllate).
Ancora oggi quindi, nonostante le numerose modifiche, il 41-bis resta una principale arma e minaccia contro l’operato delle organizzazioni mafiose. Ma, come sopradetto, altri due sono i grandi lasciti del magistrato Falcone: la Direzione Nazionale Antimafia (DNA) e la Direzione Investigativa Antimafia (DIA).
Nata dal Decreto Legge n. 367 del novembre 1991 (convertito in Legge nel gennaio 1992) e voluta fortemente dall’allora dirigente della sezione Affari Penali del Ministero di Giustizia Giovanni Falcone, la Direzione Nazionale Antimafia (oggi Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo DNAA) rappresenta la massima espressione organizzativa del potere giudiziario nel contrastare le varie organizzazioni mafiose e terroristiche che operano sul suolo italiano.
La DNA rappresenta il riconoscimento e l’istituzionalizzazione della filosofia del pool antimafia di Palermo guidato da Caponnetto. Dalla propria esperienza palermitana Falcone volle promuovere un coordinamento delle indagini su scala nazionale proprio per contrastare non soltanto le organizzazioni mafiose, ormai diramatesi in tutte le regioni italiane, ma anche per modernizzare la vecchia e ferruginosa struttura giudiziaria caratterizzata da una eccessiva e dannosa parcellizzazione delle inchieste e dei relativi processi su scale troppo ridotte per riuscire a comprendere i grandi quadri in cui le organizzazioni mafiose operano. Accusato di voler realizzare un centro di potere all’interno della magistratura al servizio della politica, visto il suo ruolo negli uffici ministeriali, Falcone spiegò la sua visione della nuova struttura nel febbraio 1992 davanti alla Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura (il “governo” della magistratura). Secondo il magistrato siciliano la DNA doveva essere un “organismo servente, un organismo che deve costituire un supporto e un sostegno per le attività investigativa in contrasto alla criminalità organizzata che deve essere esclusivamente delle Procure Distrettuali Antimafia”[2]. Il Procuratore Nazionale Antimafia, posto al vertice della DNA, “ha il compito di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità dell’impegno della Polizia giudiziaria e infine di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni”[3]. Inoltre, con uno sguardo molto lungimirante, Falcone sottolineò l’estrema importanza della DNA poiché nel 1991 l’Italia si trovava alla vigilia dell’ingresso nell’Unione Europea e “un gruppo di lavoro, composto di magistrati e non di funzionai amministrativi, che si occupi di rapporti internazionali e che costituisca quindi un utile mezzo di conoscenza”[4] era ciò di cui il bel Paese avrebbe necessitato negli anni futuri.
Ma tra delegittimazione politico-mediatica avversa alla figura del magistrato siciliano che troppo aveva scavato nei meandri bui dei rapporti occulti di potere e magistrati amici contrari alla sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia, il posto venne affidato ad Agostino Cardova, procuratore di Palmi. L’allora ministro di giustizia Claudio Martelli si oppose a tale decisione del CSM cercando escamotages tecnico-amministrativi per tardare la nomina e riaprire le consultazioni, ma da quel 23 maggio 1992 tutto si rese vano.
Il 30 ottobre 1992 il CSM, dopo nuove consultazioni interne, elesse il primo Procuratore Nazionale Antimafia: il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo Bruno Siclari. A lui sono succeduti nel tempo i magistrati Pier Luigi Vigna, Pietro Grasso, Franco Roberti, Federico Cafiero De Raho e da ultimo – eletto il 4 maggio 2022 – Gianni Melillo[5].
Oggi come allora la DNA conta in organico un Procuratore Nazionale Antimafia fiancheggiato da 2 Procuratori Nazionali Aggiunti e 20 magistrati in veste di Sostituti Procuratori Nazionali Antimafia. Oggi come allora la DNA, seguendo il modello del piccolo ufficio istruzione di Palermo, rappresenta un pool antimafia di portata nazionale. Tale organismo è luogo dove tutti collaborano tra di loro al fine di porre in essere indagini pluri-distrettuali volte a contrastare dal lato giudiziario le organizzazioni mafiose, lasciando però ampio spazio di manovra all’ambito investigativo della DIA, la quale rimane comunque una struttura di cui il Procuratore Nazionale Antimafia ha la disponibilità diretta.
In ultimo, ma non per ultima, la Direzione Investigativa Antimafia, istituita con Decreto Legge 345/1991, rappresenta la seconda anima della visione riformista di Falcone. Dall’esperienza internazionale il magistrato riconobbe l’utilità di un’unica struttura investigativa, soprattutto in casi di complesse e territorialmente articolate indagini. Infatti fin da prima del pentimento di Tommaso Buscetta (storico collaboratore di giustizia siciliano grazie alle quali rivelazioni si ottenne un dizionario interpretativo degli uomini d’onore di Cosa Nostra) il magistrato Falcone viaggiò spesso tra le sponde dell’Atlantico, in particolare tra Sicilia e Stati Uniti, apprendendo e comprendendo a fondo la struttura della FBI statunitense. Vivendo il dramma tutto italiano di tre forze di polizia indipendenti tra di loro e spesso con incomprensioni investigative e mancati passaggi di informative, Falcone vide nel modello dell’FBI un utile punto di partenza per riformulare le indagini delle forze dell’ordine italiane in un’ottica anche qui accentrata in un’unica struttura specializzata ed altamente qualificata.
Incarnando il “metodo Falcone”, sintetizzato nella storica frase “follow the money” (seguire costantemente le tracce del denaro per intercettare le strategie di espansione economica della mafia, in Italia e all’estero, attraverso le indagini giudiziarie e le investigazioni preventive[6]), oggi la DIA riassume il proprio operato lungo tre macro direttrici:
- Acquisizione e analisi delle informazioni concernenti i fenomeni criminali di stampo mafioso. Reparto “Investigazioni preventive”;
- Investigazione giudiziarie per il contrasto alla criminalità organizzata. Reparto “Investigazioni giudiziarie”;
- Promozione e sviluppo dei collegamenti con gli organismi esteri specializzati nella lotta alla mafia. Reparto “Relazioni internazionali ai fini investigativi”[7].
Dal 1992 in poi anche la DIA, come la DNA, ha subito ammodernamenti, portandola oggi al focus dell’azione preventiva, rappresentato dall’individuazione e aggressione dei patrimoni mafiosi con possibilità, da parte del Direttore, di avanzare in maniera autonoma misure di prevenzione a carattere personale e patrimoniale.
Oggi, divenuta “la polizia anticrimine del futuro”[8] in cui Falcone credeva fortemente, la DIA, con una struttura centrale con sede a Roma, opera sul territorio italiano attraverso 12 Centri Operativi e 9 sezioni distaccate contando tra le sue file l’élite investigativa della compagine poliziesca italiana. Inoltre, al fine di garantire una totale trasparenza, il Ministro dell’Interno riferisce ogni sei mesi, basandosi sulla semestrale relazione DIA, al Parlamento in merito alle varie attività investigative con focus dedicati ai molti aspetti delle criminalità organizzate.
41-bis, DNA e DIA non rappresentano infine solo un “semplice” lascito, ma la speranza di un grande uomo nelle generazioni future. Le stesse generazioni che da quel maledetto 23 maggio 1992 hanno deciso di far camminare sulle loro spalle le idee di quel manipolo di magistrati che diede tutto alla lotta alla mafia.
Ricordare è il primo passo al quale deve seguire la raccolta dei mezzi donati e il loro utilizzo al fine di assestare sempre più pesanti colpi alle organizzazioni mafiose italiane e non. Quale altro miglior modo di ricordare la vita e la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca e dei loro uomini di scorta, se non quello di continuare e magari, in un futuro non troppo utopistico, portare a compimento la loro mission perché, come affermò Falcone con uno schietto sarcasmo realista: “la mafia non è affatto invincibile; è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una sua fine. Spero solo che la sua fine non coincida con la fine dell’uomo”.
Note
[1] Legge sull’ordinamento penitenziario, Articolo 41-bis comma 2.
[2] Consiglio Superiore della Magistratura, Commissione per il conferimento degli uffici direttivi, Seduta del 24 febbraio 1992 – ore 17,45. Verbale n. 140
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Liliana Milella, Conchita Sannino, Il Csm sceglie Melillo come nuovo procuratore nazionale antimafia, sconfitto Grattieri, Repubblica, 4 maggio 2022.
[6] Giuseppe Governale, La Direzione Nazionale Antimafia e la Direzione Investigativa Antimafia: la visione di Giovanni Falcone.
[7] Direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it
[8] Consiglio Superiore della Magistratura, Commissione per il conferimento degli uffici direttivi, Seduta del 24 febbraio 1992 – ore 17,45. Verbale n. 140
Foto copertina: La strage di Capaci