Oltre il carcere: una urgentissima e concretissima utopia. Intervista a Luigi Manconi


Intervista a Luigi Manconi, già docente di Sociologia dei fenomeni politici e già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato della Repubblica, è stato parlamentare e sottosegretario di Stato alla Giustizia.
È presidente di A Buon Diritto Onlus. Tra i suoi libri recenti, Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un poco credente, con Vincenzo Paglia (Einaudi, 2021) e Corpo e Anima. Se vi viene voglia di fare politica, con Christian Raimo (Minimum fax, 2016).  È editorialista de La Repubblica e La Stampa. E’ stato il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà per l’amministrazione comunale di Roma.


In Italia si tende a rispondere alle questioni in chiave quasi sempre emergenziale, con soluzioni cuscinetto che non guardano alla radice del problema. Anche sul carcere, l’impostazione sembra essere questa. Paradossalmente, la questione detentiva, trattata come emergenza, non viene percepita come un’urgenza.
“Esatto. La riflessione sul carcere oggi invece è tanto più urgente in quanto la sanzione penale e la pena detentiva sembrano essere l’inevitabile precipitato della politica giudiziaria del Governo Meloni. Mi spiego. Nell’arco di sei mesi la politica della giustizia si è manifestata principalmente, e quasi interamente, attraverso due strumenti: a. l’introduzione di nuove figure di reato; b. l’incremento delle pene. Conseguenza ultima di questa impostazione è, fatalmente, il tendenziale incremento della popolazione detenuta e un abnorme ricorso alla reclusione in cella come strumento di regolazione del disordine sociale.”.

Come è possibile che ci sia una distanza così grande tra quella che è la realtà della detenzione e la percezione che dall’esterno se ne ha?
“È molto semplice, perché l’attività del nuovo governo è misurata in misura amplissima proprio su quello che chiamiamo percezione. Ovvero un rapporto con la realtà basato sui sentimenti e le emozioni. Gli esempi sono mille, ma ciò che meglio spiega ciò che sta accadendo si ritrova nelle statistiche criminali. In trent’anni, trent’anni esatti, gli omicidi volontari sono passati da oltre settecentocinquanta (1992) a meno di trecento (2022). Dico gli omicidi volontari, ossia il reato che più suscita allarme sociale e maggiormente attenta alla sicurezza dei cittadini. Ma, parallelamente, si è verificato un calo consistente di tutti gli altri reati, compresi quelli commessi dalla microcriminalità: furti, furti in appartamento, rapine… L’unico reato che registra un aumento significativo è quello di tipo informatico. Bene, in questo scenario, le campagne politiche e di propaganda, la mobilitazione dell’opinione pubblica, la creazione di allarmi sociali, hanno fatto sì che, per decenni, gli italiani indicassero nel problema della sicurezza la loro prima preoccupazione. La soluzione rispetto a questa diffusa, ancorché ancorata, inquietudine sociale è stata la richiesta di più carcere. La politica del governo Meloni si affida in misura rilevante a questo meccanismo: si pensi che è in discussione un disegno di legge che prevede come reato (e il carcere fino a sei anni) per i minori che assistono, senza denunciarli, a episodi di bullismo. Si rischia di andare cioè, verso una società sempre più “caratterizzata”. Per questo dico che il carcere, oggi più che mai, deve riguardare tutti noi.”

E per farlo in quale direzione ritiene si debba andare?
“Nella direzione esattamente opposta. Quella che possiamo indicare con la parola d’ordine “meno carcere” e con un’altra parola d’ordine legata alla prima: “meno carcerati”. Partiamo dalla seconda. Qualche esponente del governo ha prospettato che i tossicodipendenti debbano uscire dalle prigioni per essere ricoverati in strutture che, purtroppo, sembrano assomigliare proprio a quelle celle da cui dovrebbero essere liberati. La metterei così: i tossicodipendenti possono stare ovunque tranne che in carcere. Si organizzi quindi un sistema di strutture esterne dove la prima preoccupazione sia quella terapeutica (strutture non punitive e non reclusorie) e si sottragga al carcere, in questa maniera, oltre il trenta percento dei suoi ospiti. Come si vede, il programma di abolizione del carcere può procedere gradualmente, ma incidendo in profondità sulla composizione interna della popolazione detenuta. Analogo discorso può essere fatto per i detenuti stranieri, per i quali l’ingresso in carcere è originato spesso da un illecito amministrativo: non disporre, cioè, di regolari permessi di ingresso e di soggiorno. La regolarizzazione degli stranieri che non abbiano commesso reati gravi ridurrebbe ulteriormente la popolazione già assai numerosa.”

Pur vivendo in un mondo dove tutto è misurato in termini di risultato, le persone, nonostante i dati smentiscano l’efficacia di simili politiche, continuano a chiedere più carcere. Come è possibile?
“Perché, come dicevo, siamo in presenza di una politica delle emozioni. Un rave più incasinato del solito produce una nuova fattispecie penale. Un omicidio ad opera di uno straniero determina un giro di vite sulla questione degli sbarchi, e mi dica lei che relazione c’è tra i due fatti. Un altro esempio: l’attività di una baby gang porta a chiedere che si abbassi l’età della punibilità. Questa politica gastroenterologa tutta dipendente dall’acidità di stomaco e dai mal di pancia di settori della popolazione – non può che produrre quegli effetti. Maldestri sul piano giuridico, perniciosi su quello sociale.”

Quindi l’urgenza diventa anche quella di rimuovere – o quantomeno aggirare – la narrazione che il governo fa del carcere, narrazione che però da sola non può spiegare la rimozione cui di fatto la società condanna detenuti e luoghi di detenzione.
“Fondamentale ai fini di una decarcerizzazione della società è la ricostituzione di un nesso tra e di un canale di comunicazione tra i detenuti e i liberi. Davanti al carcere, in questi ultimi, scatta un meccanismo di rimozione. Nel nostro inconscio il carcere è il luogo del male dove sono rinchiusi quanti hanno ucciso, ferito, violentato, rubato, ingannato. Ma quelle azioni (l’omicidio il furto..) intuiamo che non ci sono estranei che rappresentano piuttosto una tentazione alla quale la maggior parte di noi resiste per i più diversi motivi. Le resiste ma la riconosce e cerca, di conseguenza, di allontanarla da sé, di cancellarla, rimuoverla. Per questo il carcere ci fa tanta paura o, meglio, ci dà tanta angoscia. E proviamo ad allontanarlo dal nostro sguardo, per esempio costruendo le carceri tutte lontane dal centro delle nostre città. Conoscere il carcere, conoscere i detenuti e ri-conoscerli come simili a noi comporta anche fare esperienza di come nelle nostre società democratiche vengono trattati chi ha sbagliato, quale orrore, quale lesione della dignità, quali trattamenti degradanti sono destinati loro.”

Un grande limite nel superamento o comunque nella  messa in discussione dell’istituzione carceraria è la dimensione retributiva. Chi ha sbagliato deve pagare e, dunque,  più della rieducazione è la certezza della pena che si invoca a gran voce.
“Sarebbe ora di avviare una discussione sul significato della pena e, invece, fatichiamo tutti, ma proprio tutti, a sottrarci all’automatismo: l’errore commesso esige una punizione. Siamo sicuri che l’unico modo di riparare all’errore, di ricucire la lesione che ha introdotto nel tessuto sociale, di risarcire coloro che sono stati danneggiati, sia infliggere altro dolore, questa volta, ai danni del reo? Possibile non vi sia un’altra forma di superamento della violenza insita nel crimine diversa dall’infliggere un’ulteriore violenza, quella inscritta nella punizione? Sono appena delle domande e le soluzioni sono assai difficili da individuare, ma penso che non possano essere più eluse.”

Il timore, forse, è che queste alternative si traducano nell’elusione da parte del reo della propria responsabilità.
“No, ci si può assumere le proprie responsabilità attraverso anche processi diversi dall’espiazione della pena: a esempio, instaurando un rapporto con la vittima, lavorando a vantaggio della società, ricomponendo la frattura che il reato ha prodotto.”.

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Foto copertina: Vincent van Gogh – Road with Cypress and Star