Perché la cattura di Matteo Messina Denaro è una vittoria a metà


Precisamente trent’anni dopo la cattura di Totò Riina, il 16 gennaio 2023 i giornali di tutta Italia e di parte del mondo rendevano noto l’arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo boss della mafia stragista nonché mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.


A cura di Francesca Boscariol

Precisamente trent’anni dopo la cattura di Totò Riina, il 16 gennaio 2023 i giornali di tutta Italia e di parte del mondo rendevano noto l’arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo boss della mafia stragista nonché mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Trent’anni: sono quelli che non sono bastati a spiegare le dinamiche della cattura di Riina ma che sono stati più che sufficienti a permettere alla ormai ex primula rossa di Castelvetrano di amministrare da dietro le quinte il patrimonio criminale che gli aveva lasciato in eredità il capo dei capi.
Si è concluso così il periodo storico della mafia stragista, con la cattura di “U Siccu” nella sua città, Palermo, in una clinica privata dove era in cura sotto il falso nome di Andrea Bonafede.
L’operazione dei Carabinieri viene definita dalle più alte cariche di governo come una grande vittoria dello Stato, eppure appare difficile credere che nessuno, in trent’anni, sia mai riuscito a stanare un boss che non si è mai allontanato dalla propria terra.
A ciò deve poi aggiungersi una ulteriore considerazione che, valutando i tempi e le modalità della cattura, nonché le precarie condizioni di salute di Messina Denaro, apre alla possibilità che più che di un grande colpo di coda dello Stato italiano alla vecchia guardia corleonese, si sia trattato di una capitolazione del boss ormai malato e privo di forze.

Vittoria o trattativa?

Numerose sono quindi le domande che sorgono spontanee all’apprendimento della notizia. Prima tra tutte viene naturale chiedersi come sia possibile che un super latinante del calibro di Matteo Messina Denaro possa circolare indisturbato in una città come Palermo e, addirittura, sottoporsi ad un intervento chirurgico senza rendere nota la sua vera identità.
Eppure non sarebbe la prima volta che la latitanza di un capo mafia venga interrotta nel bel mezzo del centro cittadino, mentre è intento a svolgere le incombenze della vita quotidiana tipiche di ogni persona apparentemente normale. È successo con Leoluca Bagarella arrestato in Corso Tukory, al centro di Palermo, mentre era appena uscito da un negozio di abbigliamento. Non più fortunato è stato poi lo stesso Riina che venne fermato a meno di cinque chilometri dalla casa dove aveva vissuto molti anni da latitante con sua moglie Ninetta e dove erano cresciuti i suoi quattro figli, tutti vissuti in clandestinità e nati nella stessa clinica di Palermo, la Noto Pasqualino.
Anche l’arresto di Bernardo Provenzano, trovato in un casale di campagna a pochi chilometri da Corleone, lasciava chiaramente intendere che la possibilità per un boss di organizzare la latitanza non troppo lontano dal suo territorio doveva ritenersi possibile grazie ad un sistema fatto di collusione, omertà e “pizzini”.
Fanno riflettere poi le parole di Salvatore Baiardo, un pentito legato alla famiglia Graviano, che in una intervista di soli due mesi fa rendeva informazioni sulla malattia di Messina Denaro e ne preannunciava l’arresto, lasciando intendere che si trattasse di un ennesimo tassello dei (non più tanto) presunti accordi esistenti fra stato e mafia. D’altronde, che ci sia stata una trattativa tra le due maggiori potenze della nostra penisola non c’è più alcun dubbio in quanto, pur assolvendo in diritto gli imputati, non si vede come altro possa definirsi quella “spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria il cui obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa” – così come descritta dalla Corte di Assise di Palermo – se non come un tentativo delle istituzioni statali di scendere a patti con i più feroci criminali dell’epoca.
Parla da sé poi la mancata perquisizione al covo di Totò Riina, lasciato incustodito per ben 18 giorni dopo il suo arresto per essere poi scandagliato dagli investigatori solo dopo che i mafiosi avevano avuto il tempo di svuotarlo e ritinteggiarne le pareti, tutto ciò, ricordiamolo, nell’ambito di quella che è stata definita come “una perfetta operazione frutto di intuizione investigativa sommata a circostanze fortunate”.
Evidente, dunque, la presenza di tasselli di un puzzle che nascondono la realtà di una immagine non ancora ben definita ma che, se svelata, potrebbe portare alla caduta di un sistema che ha permesso a Cosa Nostra di affiancare lo Stato e minacciarlo a suon di bombe col solo scopo di infiltrarsi nei più importanti momenti decisionali del nostro Paese tanto da arrivare a pretendere il ribaltamento della storica sentenza del Maxi Processo e la abolizione del regime di carcere duro per i boss.
Considerazioni, per ora nulla in più di questo, unite da un file rouge rappresentato da falsi miti, dal vuoto ingombrante di documenti scomparsi e da mezze verità che ancora faticano a riaffiorare poiché intrappolate in trame troppo intricate per poter essere svelate con le sole dichiarazioni di quei pochi collaboratori di giustizia che decidono, per un motivo o per l’altro, di salire sul carro dei vincitori (ndr. o presunti tali). Quello che è certo, invece, è che con la cattura dell’ultimo grande boss si chiude solo una parte della storia di Cosa Nostra: quella della mafia stragista.


Foto copertina: la cattura di Messina Denaro