[dropcap]Spunti[/dropcap] e riflessioni, ancora attuali, del caposcuola dei nostri strateghi navali.
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Uno dei paradossi che contraddistingue la storia italiana dalla raggiunta unità nazionale è quello che a fronte di una penisola metaforicamente accostata all’immagine della piattaforma immersa nel Mediterraneo, corrisponda una scarsa attenzione ed interesse per la sua strategia marittima.
Nel 1861 “L’Italia cessava di essere oggetto di storia, ma diventava essa stessa soggetto attivo; da terreno di battaglia contendente, protagonista delle vicende politiche europee e, in specie mediterranee.
Poco o molto che fosse, e nonostante le limitazioni imposte da molteplici cause di ordine interno ed esterno, il giovane regno doveva necessariamente nutrire anch’esso aspirazioni mediterranee”[1].
E se la strategia marittima venne trascurata per molto tempo, questo fu in parte per le ragioni storiche legate alla nascita dell’entità statuale avvenuta con il placet della Francia e dell’Inghilterra che era intenzionata a diminuire il ruolo marittimo della penisola, anche a seguito dell’apertura del canale di Suez, eliminando la presenza della marina mercantile borbonica, vera e propria spina nel fianco inglese. Non a caso gli inglesi si assicurarono che l’unificazione fosse di marca piemontese, lo Stato meno vocato al mare di tutta la penisola italiana[2].
A tali ragionamenti faceva eccezione il Conte di Cavour, ministro della marina nel Regno di Sardegna e fondatore della Marina italiana nel dicembre del 1860. Egli, denotando un orientamento insolitamente mediterraneo, era convinto che l’Italia avesse le sue radici nel suo carattere di potenza marittima[3].
La seconda metà del XIX secolo fu segnata da un notevole progresso della tecnologia navale (navi a vapore con propulsione ad elica) che aveva accentuato la spinta delle potenze europee verso le conquiste coloniali attraverso il potenziamento delle loro Marine che in tal modo divennero il punto di incrocio di interessi politici, strategici ed economici.
E’ possibile sostenere che queste contribuirono in maniera determinante al sorgere dei complessi militar-industriali[4].
Nel contesto succeduto alla scomparsa dello statista piemontese, l’assenza di una strategia marittima apparve sorprendente in un paese circondato dal mare e quindi con una naturale vocazione dettata dalla sua geografia.
Infatti la visione della difesa nazionale dominante all’indomani e anche successivamente alla creazione del Regno d’Italia si fece essenzialmente continentale e terrestre.
Tuttavia alcuni navalisti avevano compreso quanto fosse importante la questione marittima così da giudicare irrinunciabile la necessità di un ammodernamento e di un potenziamento delle marine militari e mercantili e più in generale dell’intero sistema marittimo nazionale che doveva essere messo in grado di competere con altre bandiere[5].
Tra questi una speciale menzione merita senz’altro il capitano di vascello Domenico Bonamico che, in una serie di scritti apparsi tra nell’ultimo trentennio del secolo XIX, si profuse nella delineazione del problema difensivo italiano, rivendicando le ragioni marittime fino ad allora completamente trascurate e promuovendo una lettura strategica e politica delle tematiche geografiche.
Ne La difesa marittima dell’Italia pubblicato nel 1881 il Bonamico[6] asseriva in maniera molto precisa alcune sue teorie destinate a contraddistinguere le sue successive elaborazioni. La trasformazione avvenuta in campo marittimo, dalla vela al vapore, aveva avuto delle conseguenze sulle flotte. Opponendosi sia ai navalisti più intransigenti, sia al continentalismo di coloro che volevano invece assegnare la missione strategica principale all’Esercito, considerava importante dotarsi di una flottiglia di guardia coste in aggiunta ad una di prima linea, postulando una tattica difensiva attiva, più adatta alla nostra marina perché inferiore nei numeri ricercando un’organizzazione generale delle forze, che le consentisse di esaltare al massimo le sue possibilità avvalendosi della geografia. Naturalmente secondo Bonamico era altrettanto necessaria anche una terza linea con molti punti fortificati lungo le coste[7].
Seppur condividendo con A. T. Mahan l’importanza strategica della geografia, si discostava dal teorizzatore dell’influenza del potere marittimo sulla storia, sostenendo come la guerra marittima non potesse condursi indipendentemente dalle operazioni terrestri. “Queste ultime infatti, sono fondamentali anche per il successo delle operazioni navali, visto che l’occupazione militare dei centri vitali marittimi del nemico è la modalità più efficiente, più risolutiva della lotta per il conseguito dominio. Essa consente nel modo più completo e più duraturo la esclusione del nemico dal mare”[8].
Nei suoi studi l’ufficiale cuneese individuava nella Francia la reale minaccia nel confronto sul Mar Mediterraneo. A sostegno di queste sue tesi ricordava un avvenimento, decidere di costruire una base navale a Biserta, che fu sufficiente ai francesi per interrompere l’intero complesso strategico del Mediterraneo, spostando l’epicentro dal nord del Tirreno (Tolone, La Spezia, la Maddalena) verso il canale di Sicilia e verso il mare Ionio, vale a dire nel triangolo Malta-Messina-Biserta, trasformandole nelle tre basi principali delle operazioni delle potenze marittime che, in futuro, avrebbero dovuto competere per il controllo del Mediterraneo.
La base navale di Biserta diventava così, agli occhi di Bonamico, l’esempio contemporaneo dell’influenza che la creazione di una base militare moderna esercitava sullo sviluppo e sulla struttura miliare di una nazione, sul suo futuro politico e sugli studi di geografia commerciale e strategica. Ne Il problema marittimo dell’Italia individuava quindi tre obiettivi marittimi nazionali classificandoli in assoluti, relativi, complementari.
Gli obiettivi assoluti riguardavano la salvaguardia della Nazione dalle invasioni che ne avrebbero minacciato l’integrità e l’esistenza. Di più aggiungeva che “libera, indipendente e arbitra dei proprii destini può considerarsi solamente quella Nazione che è capace da sola, escludendo le coalizioni, di salvaguardare la propria esistenza”[9].
Naturalmente tale condizione presumeva che l’Italia acquisisse la capacità di risolvere il problema legato alla sua esistenza, impostandola come un cardine fondamentale nella coscienza nazionale e nell’ordinamento militare.
Per il raggiungimento di tale obiettivo per Bonamico concorrevano sia la difesa delle Alpi da parte dell’esercito che la difesa costiera peninsulare ed insulare, appannaggio della flotta in concorso con le milizie di seconda linea e con quelle fisse territoriali; gli obiettivi relativi riguardavano la difesa da “offese” variabili da stato a stato, nel caso italiano i bombardamenti e la distruzione dei sistemi ferroviario e commerciale; gli obiettivi complementari riguardavano l’espansione e la prosperità nazionale, obiettivi conseguibili solamente, se non con un’adeguata preparazione economica, finanziaria e militare. Nello specifico il dominio coloniale, sosteneva Bonamico, “fu sempre una conseguenza di un periodo di una preponderanza militare od almeno di una situazione che guarantiva l’integrità dello Stato”[10].
Per raggiungere tali scopi, Bonamico indica ne Il potere marittimo, che la flotta nel fondamentale compito difensivo doveva eccellere in velocità ed evitare il combattimento quando questo non fosse realmente necessario, raccomandando l’utilizzo di tecniche di guerriglia tipiche della pratica terrestre. Con le sue strategie ed orientamenti, Bonamico fu l’unico scrittore navale del suo tempo a porsi come valido interlocutore della Commissione per la difesa dello Stato e a discuterne e valutarne criticamente le conclusioni, inserendo così la Marina nelle grandi correnti del pensiero politico-sociale e strategico nazionale, dal quale fino a quel momento era stata esclusa.
Nel gennaio 1899 il Ministero della Marina lo decora con Medaglia d’oro di prima classe per la capitale influenza esercitata dal complesso dei suoi lavori nello studio dell’arte militare marittima. Riconoscimento meritato, perché Bonamico oltre che il più grande scrittore navale italiano del secolo scorso, è stato anche il fondatore di un pensiero navale italiano con caratteri propri, legati alle peculiarità geopolitiche e geostrategiche nazionali non appiattito su modelli stranieri[11].
Note
[1] cfr. CHABOD F., Storia politica del Mediterraneo, Morcelliana, 2014, pp. 139-140
[2] cfr. RIGILLO R., l’Italia, potenza marittima che ignora se stessa, in Limes 6/2017 “Mediterranei”, p. 122
[3] cfr. ROMEO R., Cavour e il suo tempo vol.III 1854-1861, Laterza, 2012, p. 154
[4] cfr. VISANI P., Storia della guerra dall’antichità al novecento, Oaks, 2018 p. 161
[5] cfr. MONINA G., La grande Italia marittima, Rubbettino, 2008 p. 35
[6] Domenico Bonamico (1846-1925), ufficiale della Regia Marina e caposcuola degli studi di strategia navale italiani.
[7] cfr. BONAMICO D., La difesa marittima dell’Italia, Tipografia di G. Barbera, 1881, pp. 23-25
[8] cfr. BONAMICO D., Mahan e Calwell, edizioni Roma, 1899, pp. 252-254
[9] cfr. BONAMICO D., Il problema marittimo dell’Italia, Tipografia della Lega Navale, 1899, p. 22
[10] cfr. BONAMICO D., Il problema marittimo dell’Italia, Tipografia della Lega Navale, 1899, p. 33
[11] cfr. BOTTI F., Atti del convegno di Storia militare il Mediterraneo quale elemento del potere marittimo, Ufficio Storico Marina Militare, 1998, p. 125
Foto Copertina:Fregata della Regia Marina “Duca di Genova” (1861-1875). Fece servizio fino al 1870 e fu disarmata nel 1875 (acquerello su cartone). Originale nel Museo Navale di Genova. –
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