Provaci ancora Prof: la storia di Rossana Pasquino, docente universitaria e schermitrice paralimpica


Professoressa di princìpi di ingegneria chimica e campionessa europea in carica nella sciabola e nella spada: Rossana Pasquino, prototipo della donna di successo, aspira a ripetersi alla Paralimpiade di Parigi.



Lo sport è da sempre una miniera pressoché inesauribile di storie, eventi e aneddoti riguardanti persone e personaggi. Per entrare nel gotha delle proprie discipline e tramutarsi in leggende, è difficile per gli atleti trovare un palcoscenico globale migliore dei Giochi olimpici e paralimpici, giunti, con Parigi 2024, rispettivamente alla 33ª e alla 17ª edizione.[1] Ed è proprio in occasione della Paralimpiade francese che potrebbe scriversi un ulteriore capitolo di quella meravigliosa materia che è la letteratura sportiva. Infatti, tra i 4.400 partecipanti complessivi, una delle protagoniste più attese è Rossana Pasquino, schermitrice specializzata nella sciabola e nella spada,[2] di cui detiene i titoli europei, vinti nel 2024.
La carriera di Pasquino ‒ beneventana, classe 1982 ‒ nella scherma è relativamente breve, avendo iniziato a praticare questo sport soltanto nel 2013. In precedenza la sua attenzione è stata totalmente assorbita dagli studi: laureatasi in Ingegneria Chimica, ha successivamente conseguito il dottorato, per poi divenire professoressa associata di princìpi di ingegneria chimica presso l’Università “Federico II” di Napoli.
La scalata sportiva è stata altrettanto proficua e repentina, se si pensa che al Grand Palais di Parigi, sede delle gare di scherma, Pasquino sia annoverata tra le principali favorite.
La straordinaria capacità di saper coniugare esperienze così impegnative ha reso ancora più eccezionale il suo percorso di vita, sicuramente degno di essere preso come modello e riferimento.

Intervista a Rossana Pasquino

Ha dichiarato più volte che la scherma rappresenta la perfetta unione di tecnica, fisico e testa. Come riesce ad allenare tutte e tre le componenti?
«La scherma è diversa dagli altri sport, la paragonerei a una partita a scacchi. È un gioco mentale, un duello, in cui bisogna stanare l’avversario. La tecnica e gli allenamenti, ovviamente, sono importanti, ma, senza l’approccio adeguato e un po’ di pazzia, diventa molto complesso vincere l’assalto. La differenza sostanziale, a mio avviso, la fa la testa ed è per questo che credo che le tre componenti siano fondamentali, ma la mente influisca per un buon 70%. Capisco subito come andrà una gara da come entro in pedana: se non mi sento pienamente concentrata e focalizzata sull’evento, so già che il risultato non potrà essere positivo».

A proposito di “testa”, ritiene che in Italia e nel mondo si faccia ancora troppo poco per preservare la salute mentale degli atleti?
«Io ho il mio coach personale, con il quale mi confronto costantemente, soprattutto nella preparazione alle gare, di cui analizziamo minuziosamente le possibili criticità. Restando sul mondo paralimpico, tanti miei colleghi si rivolgono a uno psicologo sportivo, ma lo fanno individualmente, non essendoci una coordinazione a livello federale, che per me sarebbe giusto avere. Abbiamo figure specializzate per la parte tecnica e per quella atletica, sarebbe indubbiamente utile averne anche per coprire l’aspetto psicologico, ma bisogna fare i conti con le ristrettezze economiche del nostro movimento. In generale, comunque, allo sport farebbe bene essere visto e vissuto in maniera più leggera e rilassata. Gli atleti dovrebbero prendersi meno sul serio e ricordarsi che spesso sono privilegiati, giacché hanno l’opportunità di viaggiare in continuazione e scoprire nuovi posti facendo ciò che più gli piace».

Quanta tensione c’è stata nel suo avvicinamento a Parigi?
«Lo stress viene accumulato specialmente durante le ben dodici gare di qualificazione alla Paralimpiade, non nella gara in sé, che, anzi, è un modo per scaricare tutta questa tensione. La mia leggerezza, probabilmente, deriva dal fatto che abbia una vita personale molto ricca, in primis dal punto di vista accademico. So che, oltre allo sport, c’è anche altro, mentre tanti, forse non consigliati e seguiti al meglio, finiscono in un loop negativo, caricandosi di aspettative eccessive. Dico sempre che la salvezza siamo noi, ma è necessario avere carattere e sicurezza in se stessi per non farsi schiacciare da ciò che ci gravita intorno».

È vero che non dorme prima delle gare?
«Fino alla Paralimpiade di Tokyo 2020 era così: pensavo troppo. Tokyo era la mia ragione di vita, ma, dopo quell’esperienza, ho cambiato completamente il mio approccio. Ora dormo tranquillamente alla vigilia delle competizioni, poiché ho acquisito quella consapevolezza nei miei mezzi che magari prima non avevo. Rispetto a Tokyo sono “rivoluzionata”, non dubito più delle mie capacità e non temo, come un tempo, di fare brutta figura. Tutto ciò mi porta a essere pienamente soddisfatta del mio percorso e ad affermare che, se pure la Paralimpiade non dovesse portarmi medaglie, non ne farei un dramma. È chiaro, logicamente, che mi piacerebbe chiudere con la ciliegina sulla torta, in quanto credo che Parigi sarà la mia ultima Paralimpiade: non sono più giovanissima, la prossima qualificazione partirà nel 2026, quando avrò 44 anni, e vorrei dedicare più tempo ai miei affetti. Questo non significa che lascerò la scherma, dato che mi vedrei molto bene come allenatrice».

Com’è stato risiedere nel villaggio olimpico a Tokyo?
«Purtroppo, a causa del Covid, non è stata una bella esperienza. Dover sottostare a controlli continui, essere scortati per ogni tipo di movimento, l’assenza di pubblico, il timore di contrarre il virus ed essere allontanati: l’insieme di questi fattori mi ha fatto pensare che forse sarebbe stato meglio se non mi fossi qualificata. Sono venute meno la socialità che normalmente caratterizza il villaggio olimpico e la natura stessa dell’Olimpiade, ossia essere una festa dello sport. L’unica cosa divertente è stata scambiare le spillette con gli atleti delle altre nazioni: ci si sfidava a chi ne collezionava di più».

Due ori agli Europei, tre bronzi ai Mondiali, vari successi in Coppa del Mondo. Quanto è fattibile conquistare una medaglia a Parigi?
«Niente è scontato, ma le possibilità ci sono, è inutile nascondersi. Arrivo in Francia con più tecnica, esperienza e fiducia di Tokyo. Ciononostante, l’obiettivo primario, come sempre, è divertirmi».

Come fa a conciliare lavoro e sport?
«Il segreto è saper gestire al meglio il proprio tempo e coordinare le due attività. La priorità, nel mio caso, resta l’università, che, solitamente, mi impegna dalle 9 alle 18. Allo sport, quindi, mi dedico o prima o, più di frequente, dopo questa fascia oraria. È innegabile che i sacrifici siano numerosi: non mi fermo mai, nemmeno nei fine settimana, sebbene a volte provi il desiderio di sdraiarmi sul divano e non fare allenamento».

Cos’è lo sport per lei?
«Mi ha migliorato dal punto di vista fisico e, per me, è un riscatto. Fin da piccolina, quando facevo ginnastica artistica, amo l’aspetto agonistico, che mi è piaciuto recuperare con la scherma. In aggiunta, è un valido aiuto nella gestione del tempo. È diventato una dipendenza positiva, una dipendenza che mi dà indipendenza: stare in pedana, ad esempio, fa sì che possa dimenticare per qualche ora le e-mail di lavoro. In questo senso lo sport è uno sfogo non solo fisico, ma anche mentale».

Com’è stato iniziare a praticare scherma nel 2013, a 31 anni?
«Ho cominciato per puro divertimento, tanto che, nel 2016, non sapevo che ci fossero le Paralimpiadi, malgrado praticassi questo sport da tre anni. Essere già adulta mi ha permesso di approcciarmi con maturità. Ero tranquilla e spensierata anche perché avevo le spalle coperte grazie al mio lavoro accademico, che mi ha consentito di poter prendere parte alle gare di Coppa del Mondo, valide per le qualificazioni a Tokyo, avendo dovuto pagarle in gran parte da me, dal momento che, giustamente, la Federazione preferiva atleti più giovani. Chiaramente non ci sono solo aspetti positivi: rispetto ai miei esordi, gli acciacchi sono aumentati e faccio più fatica a riprendermi fisicamente. Le carriere degli atleti paralimpici, a ogni modo, iniziano e finiscono più tardi di quelle degli olimpici: bisogna calcolare almeno una decina d’anni di differenza».

Come cambia l’approccio tra sciabola e spada?
«Tutte e due le specialità rientrano nella scherma: la misura, lo spazio e il tempo sono quelli. Ma, di fatto, si tratta di due sport diversi, con regole completamente diverse. Facendo un confronto, è come giocare a rugby e a calcio. Entrambi prevedono l’utilizzo del pallone, ma i regolamenti sono differenti. Andando sul lato tecnico, la sciabola è un’arma “convenzionale”, deve essere bravo l’arbitro a capire e ricostruire l’azione. La spada, invece, prevede che si tocchi solo con la punta, di conseguenza l’atleta deve essere più preciso. Per giunta, mentre la sciabola è velocissima, la spada è più lenta e tattica. Questo comporta che la preparazione non segua le stesse dinamiche. Nella vita quotidiana mi piacerebbe essere una “spadista” ‒ più calma, più riflessiva, più paziente ‒, ma in realtà sono una “sciabolatrice” dentro, nonostante alla sciabola mi sia avvicinata nel 2017, quattro anni dopo la spada».

Che rilevanza ha avuto Francesca Boscarelli[3] nella sua vita?
«Io e Francesca siamo state compagne alle scuole medie e alle superiori. Lei faceva scherma, ma a me non interessava. Le priorità cambiano nel corso della vita. Prima ero concentrata unicamente sulla carriera universitaria: la laurea, il dottorato e infine la cattedra. Conseguiti questi obiettivi, me ne sono dati altri e, con questo metodo, ho ottenuto ottimi risultati nello sport. Si può dire, pertanto, che abbia diviso le due fasi, universitaria e sportiva. Ecco perché stimo tantissimo gli studenti-atleti che riescono a coniugare le due cose. Fortunatamente, a differenza del passato, oggi c’è più attenzione da parte delle scuole e delle università verso coloro che decidono di abbinare studio e sport».

Che esperienza sta vivendo in qualità di consigliera federale degli atleti olimpici e paralimpici?
«A me la politica non piace, non è il mio campo. Però, in questo ruolo,[4] per il quale non ancora ho deciso se ricandidarmi a febbraio 2025, ho imparato molto, avendo appreso dettagliatamente argomenti che sono trattati con troppa superficialità e leggerezza. Il gruppo di lavoro è bello, coeso e democratico: ogni discussione è produttiva e volta a ricercare il meglio per il bene del movimento».

Per quale ragione in Italia c’è così tanta disparità tra i compensi ricevuti dai medagliati olimpici e da quelli paralimpici?
«Va fatta una premessa doverosa: l’Italia è tra le nazioni che paga di più i propri medagliati. La disuguaglianza è riconducibile esclusivamente a una questione economica: il CIP[5] non ha lo stesso budget del CONI, gli sponsor sono inferiori e ciò comporta che nel mondo paralimpico ci siano meno soldi. Andrò controcorrente, ma non trovo strana questa differenza, siccome, essendoci meno concorrenza, è più facile vincere una medaglia a una Paralimpiade. Non dico che sia giusto, ma è naturale e commisurato all’impegno».

Quanto è importante promuovere lo sport integrato come fa Bebe Vio con la sua Academy?
«Adoro Bebe, è una visionaria, ma è essenziale che lo sport integrato venga praticato anche nei piccoli club dislocati nelle province, per quanto, dal 2013 a oggi, il numero di ritiri e gare di questo tipo sia in costante ascesa. A Napoli mi alleno ogni mercoledì con gli atleti olimpici, con i quali facciamo competizioni integrate. In una fase iniziale può essere comprensibile avere un po’ di timore e ritenere queste sfide poco allenanti. In seguito, però, ci si rende conto di quanto l’integrazione faccia bene a tutti. È una palestra a 360°, visto che permette di allenare contemporaneamente il fisico, la tecnica e, in particolare, la mente, che deve essere attiva nel trovare rapidamente nuove soluzioni per poter sconfiggere gli avversari».

Allargando l’orizzonte alle barriere architettoniche, ha affermato che nel 2000 le sarebbe piaciuto studiare a Milano, ma ha dovuto rinunciare perché troppo complicato. Come giudica la situazione attuale in Italia?
«In passato era più difficile trovare alloggi per persone con disabilità. Nel 2000 ‒ quando ho cominciato l’università ‒, considerando le mie esigenze, Milano era logisticamente troppo lontana, ma ho avuto difficoltà a trovare una sistemazione adatta anche a Napoli. Oggi, in Italia, c’è una cultura delle disabilità impensabile appena venti anni fa. Sono stati fatti passi da gigante, ma, se prendiamo come pietra di paragone l’Europa centro-settentrionale, siamo ancora indietro e, dunque, dobbiamo essere consapevoli che ci sia tanto da migliorare».

Questioni di genere: all’Olimpiade di Sidney, nel 2000, le atlete rappresentavano il 38% del totale. A Parigi, nel 2024, si è raggiunta la perfetta parità tra partecipanti maschili e femminili. Questo dato è sintomo di reale equità o è stata, in parte, solo un’operazione di facciata?
«Lo sport è l’ambito più democratico che io conosca. L’importante è vincere, non contano il colore della pelle, il genere o la diversità. Ritengo che ci sia stata una buona azione di informazione e che le donne, quantomeno a livello agonistico, stiano facendo progressi significativi nella considerazione generale. Chi si avvicina allo sport è chi ha la volontà di fare qualcosa, è chi è già uscito dal guscio di protezione familiare. La mia idea è che ciò avvenga al di là del sesso della persona».

Inspire a Generation” è stato il motto dell’Olimpiade e della Paralimpiade di Londra 2012. Sente di poter essere una fonte di ispirazione, non solo sportiva, per le generazioni presenti e future?
«Spetta agli altri dire se ciò che faccio sia o meno d’ispirazione. Sono consapevole di avere una responsabilità sociale: leggere la mia storia può essere educativo per tanti ragazzi ed è il motivo per cui rilascio interviste. Non mi sento Wonder Woman, la stella polare di ogni azione della mia vita è la ricerca della felicità. Mi considero fortunata poiché ho sempre avuto il pieno sostegno dei miei genitori e non tutti hanno questo privilegio. Non mi hanno mai messo pressioni sul lato sportivo, a loro interessa soltanto che io sia contenta».

Quali sono i suoi obiettivi futuri in campo accademico?
«Attualmente non ho l’assillo di diventare professoressa ordinaria. Vorrei vincere un progetto europeo, ma serve tempo per scriverlo e al momento non riesco a trovarlo. Occorrono, per di più, l’idea e la pazienza giuste».

È più difficile studiare la reologia dei fluidi complessi o salire sul podio a Parigi?
«È ugualmente difficile. La reologia e la scherma sono “materie” scientifiche. La scherma prevede una parte emozionale che, se non si è in grado di controllare, può trasformarsi in un grande ostacolo. Allo stesso tempo, però, comprendere la reologia è veramente arduo».


Note
    

[1] S. Scarinzi e B. Minicozzi, «Lo sport paralimpico oltre le barriere e i pregiudizi», Opinio Juris – Law & Politics Review, 2021 (https://www.opiniojuris.it/opinio/lo-sport-paralimpico-oltre-le-barriere-e-i-pregiudizi/)
[2] Pasquino rientra nella Categoria B delle disabilità (https://www.ilpost.it/2021/08/19/come-funzionano-paralimpiadi-tokyo-2020-2021/)
[3] Schermitrice italiana, specializzata nella spada
[4] In carica dal 2021, il mandato terminerà a febbraio 2025
[5] Comitato Italiano Paralimpico (https://www.comitatoparalimpico.it/)


Foto copertina: Rossana Pasquino