Riflessioni sull’attentato al Crocus Hall di Mosca


Riflessioni sulla natura e sulle conseguenze dell’attentato al Crocus Hall di Mosca.


Dalerdzhon Mirzoyev, Dalerdzhon Mirzoyev, Saidakrami Murodali Rachabalizod, Shamsidin Faridunia e Muhammadsobir Fayzov sono i 4 tagiki accusati di essere i responsabili dell’attentato di Mosca e arrestati dalle autorità russe. I quattro, presentando evidenti segni di violenza da torture, hanno confessato di essere gli autori dell’attentato al Crocus City Hall che ha provocato più di 140 morti. La nazionalità degli attentatori ha portato il presidente del Tagikistan Emomali Rahmon a condannare l’attacco in una chiamata con il leader russo Vladimir Putin.  L’attentato, come noto, è stato rivendicato dall’Isis-k «Stato Islamico del Khorasan» (Iskp).
Il Tagikistan da anni vive problemi legati al terrorismo. Lo scorso gennaio, un cittadino tagiko (insieme ad un ceceno) avevano provato ad attaccare la chiesa cattolica di Santa Maria Sariyer a Istanbul, uccidendo (per fortuna) solo una persona. Il Tagikistan ha uno dei più bassi PIL tra le ex repubbliche sovietiche. A causa della mancanza di opportunità professionali, quasi la metà della forza lavoro – secondo stime circa 1 milione di persone – lavora all’estero, principalmente in Russia, sostenendo la famiglia con rimesse al Paese natale. La notizia seguita alla responsabilità dei tagiki nell’attentato ha scatenato un’ondata di intolleranza verso gli immigrati centroasiatici tra la popolazione russa, con appelli via social media ad espellere tutti i tassisti asiatici dal Paese. 
Uno dei 4 arrestati, Shamsidin Faridunia, sarebbe arrivato in Russia 4 mesi fa dalla Turchia, ed è stato lui a spiegare agli inquirenti di aver ucciso persone solo per soldi, dietro un compenso di 500mila rubli (circa 5mila euro), metà dei quali anticipati sulla carta bancaria.
Chi ha assoldato i quattro assassini era probabilmente nella rete dei collaboratori di qualche predicatore che, attraverso Telegram, assoldava uomini per l’ISIS-K.

Lo «Stato Islamico del Khorasan» (Iskp)

L’Isis-K sta per «Stato Islamico del Khorasan» (Iskp) ed è il ramo dello Stato Islamico che prende il nome dall’antica regione persiana del Khorasan (nota tra gli studiosi come “Grande Khorasan”), la quale includeva aree che oggi fanno parte non solo dell’Iran ma dell’Afghanistan, del Tagikistan, del Turkmenistan e dell’Uzbekistan. L’Isis-K nasce nel 2014 riunendo gruppi di disertori di Al-Qaeda ed ex-combattenti Talebani di Afghanistan e Pakistan. Al momento non è chiaro chi sia il leader del gruppo, dopo che Sanaullah Ghafari è stato ucciso nel 2023 dai Talebani. Si stima che il gruppo abbia circa 5mila tra membri attivi e fiancheggiatori, ma non è possibile accertarne l’esatta grandezza né eventuali appoggi e alleanze con altri gruppi terroristici. Quello che sappiamo è che l’Isis-K punta alla creazione di un califfato internazionale e le operazioni, come abbiamo visto, non sono circoscritte ai territori del Khorasan.

Il paradosso del ritiro Statunitense dall’Afghanistan: una carta per l’ISIS-K

L’ISIS-K è considerato la costola afgana dell’Isis. Ha vissuto una rinascita dopo il crollo del governo afghano e il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nell’estate del 2021. Ad agosto, mentre le truppe americane stavano evacuando i rifugiati alla vigilia del loro ritiro, l’ISIS-K ha effettuato un attacco all’esterno dell’aeroporto di Kabul che ha ucciso circa 170 afgani e 13 americani. Il gruppo ha poi intensificato gli attacchi contro i talebani, afghani, principale obiettivo del gruppo del Khorasan.
L’addio statunitense ha portato i Talebani ad una rapida ripresa del Paese ma allo stesso tempo ha ridato sicurezza all’ISIS-K che da anni fronteggiava un doppio martellante attacco: da una parte i Talebani che combattevano contro gli uomini del Califfato per il controllo dei territori, e dall’altra agli Stati Uniti, che tenevano sotto controllo i miliziani. L’exit strategy statunitense dall’Afghanistan prevedeva, attraverso gli accordi di Doha, il “via libera” del trasferimento del potere nelle mani talebane, a patto che questi ultimi avessero garantito la non-presenza di gruppi terroristici operanti nell’area afgana. In realtà il progressivo disengagement Usa ha ridato forze e speranza al Khorasan di poter sconfiggere i Talebani. Finora, i servizi di sicurezza dei talebani hanno impedito al gruppo di impadronirsi del territorio o di reclutare un gran numero di ex combattenti talebani annoiati in tempo di pace, ma l’ISIS-K resiste e porta avanti una doppia strategia di terrore: una di matrice interna rivolta proprio contro i Talebani, e l’altra contro Paesi considerati a vario titolo avversari e/o responsabili della distruzione di Daesh. Si spiegherebbero così le minacce e i colpi inferti all’Iran, definito Paese politeista e apostata, schierato in prima linea in sostegno di Bashar al-Assad e contro i miliziani di Daesh. In quest’ottica va inquadrato l’attentato dello scorso gennaio alla tomba del Generale Qassem Soleimani nella città iraniana di Kerman, che ha causato la morte di 84 persone. Soleimani, ucciso da un drone americano nell’aeroporto di Baghdad in Iraq nel gennaio 2020, era il capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione, che sul campo aveva sconfitto Daesh.

Colpire Mosca per vendicare Afghanistan, Cecenia e Siria

Che qualcosa stesse per accadere in Russia era già nell’aria. Ad inizio marzo, l’Ambasciata statunitense a Mosca ha diramato l’allerta per possibili attentati. Allerta almeno ufficialmente snobbata da russi. Il 9 marzo, i media russi e kazaki affermarono che le forze di sicurezza russe avessero ucciso alcuni cittadini kazaki in un’operazione anti-terrorismo.
Il quotidiano indipendente Astra riporta la notizia che due uomini, di età compresa tra 32 e 35 anni, entrati in Russia il 28 febbraio con l’intenzione di commettere un atto terroristico, come aderenti all’Isis-K, volevano compiere attentati contro le istituzioni religiose ebraiche a Mosca.
L’ISIS-K, conosciuto anche come Wilayat Khorasan che si traduce in “La terra del sole”, ha tra gli obiettivi quello di costituire, o ricostituire, un Califfato in Asia centrale.
Quello del Califfato resta uno dei “sogni” che ha caratterizzato la storia dell’Asia centrale. L’ultimo ad averci provato concretamente era stato Enver Pasha, meglio noto come Ismail Enver, rivoluzionario dei Giovani Turchi ed ex Ministro della Guerra della Turchia, che con la sconfitta della Turchia durante la Prima guerra mondiale si ritrovò ad organizzare un nuovo impero panturco da Costantinopoli fino al Turkestan come capo dei basmachi. La rivolta dei basmachi fu via via stroncata dall’Armata Rossa, e si concluse ufficialmente solo nel 1931. Da quel momento l’Asia centrale, i futuri -Stan, hanno sperimentato la brutalità del giogo sovietico. L’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, le ribellioni islamiste nel Caucaso settentrionale, in particolare in Daghestan e in Cecenia con le due guerre degli anni ’90 e una lunga serie di sanguinosi attentati che fecero stragi di civili in varie città russe, compresa la capitale, il supporto russo alla Siria e quindi gli attacchi contro Daesh, rappresentano le chiavi di lettura del perché i fondamentalisti islamici abbiamo Mosca come obiettivo.
Non dimentichiamo inoltre che sono migliaia i combattenti provenienti da Russia (soprattutto Caucaso Settentrionale) e paesi dell’ex Unione Sovietica che si sono uniti alle organizzazioni jihadiste in questi ultimi anni. Si stima che solo da Cecenia e Daghestan siano partiti cinque mila uomini, dall’Asia Centrale (in particolare Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan) circa 6 mila uomini. Tutti questi combattenti sono divenuti veterani, addestrati alla battaglia e fortemente ideologizzati, con saldi legami e inseriti in reti internazionali e regionali di connessioni con altri combattenti.

Perché fuggire verso l’Ucraina?

Sabato 23 marzo 2024, durante il suo discorso televisivo, Putin ha sottolineato che i quattro terroristi si stavano “muovendo verso l’Ucraina” quando le forze di sicurezza russe li hanno arrestati. Secondo Putin, “dalla parte ucraina è stata loro preparata una finestra per attraversare il confine di Stato”. Sebbene parzialmente smentita dal presidente bielorusso Lukashenko che afferma invece che i terroristi volevano lasciare la Russia attraverso la Bielorussia, il tentativo di Putin è quello di incolpare l’Ucraina di essere – se non il mandante – il luogo di protezione dei terroristi e indirettamente attaccare gli Stati Uniti che fin da subito avevano scartato questa ipotesi.
Secondo la Direttrice del dipartimento informazione e stampa del Ministero degli Esteri della Russia Maria Zacharova, la tempistica delle dichiarazioni Usa sull’estraneità Ucraina nella vicenda sarebbe sospetta. Una excusatio non petita che sarebbe però la prova del coinvolgimento di Kiev.
L’ipotesi di una mano ucraina dietro l’attentato però sembra molto improbabile. In questa fase Kiev necessita di un appoggio occidentale che può avvenire soprattutto grazie ad un pieno supporto anche delle opinioni pubbliche nazionali. Chiaramente associare il governo di Kiev ad una strage terroristica di questa portata alienerebbe tutte le residue simpatie per la causa ucraina. Non sorprenda però anche il perché i quattro tagiki non sembrerebbero a prima vista dei foreign fighters e abbiano scelto di provare la fuga verso l’Ucraina. La risposta più semplice è che ai quattro sia stato suggerito di approfittare di una situazione di “confusione” per far perdere le proprie tracce.
Da non sottovalutare che fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina sono presenti ed operano diversi battaglioni musulmani, più o meno grandi, che a vario titolo stanno combattendo. Nell’aprile 2022 il portavoce dello Stato Islamico, Abu-Omar al-Muhajir, aveva lanciato un appello ai sostenitori al fine di riprendere gli attacchi in Europa, approfittando delle “opportunità disponibili” dei “crociati che si combattono tra loro” – in riferimento all’invasione russa dell’Ucraina.

Quali conclusioni?

L’attentato di Mosca ci porta a due conclusioni. La prima è di natura strategica. L’ombra del terrorismo islamico, nei suoi più disparati abiti, è presente, è globale e va affrontato con la sinergia delle forze di intelligence dei vari Paesi.  Solo in questi primi tre mesi del 2024 sono stati registrati 13 attacchi sferrati dai diversi gruppi terroristi. Alcuni hanno fatto più scalpore e sono diventati notizia come l’ultimo a Mosca o il già citato attacco a Kermal in Iran. Altri che sono passati inosservati si sono verificati in Somalia a Mogadiscio (6 febbraio e 14 marzo) e Mucojo ad opera di Al-Shabab, in Afghanistan a Kandahar (21 marzo) nei distretti di Pishin e di Qilla Saifullah in Pakistan sempre ad opera dell’Isis-K. A questi si aggiungono i tentativi falliti di Istanbul e Zurigo.
Il terrorismo islamico ha vocazione universale e obiettivi trasversali. La galassia dei gruppi Jihadisti racchiude e riunisce diverse esperienze: ci sono i caucasici e i centro-asiatici, ci sono i reduci dai campi in Siria e Iraq, ci sono gli afghani, e poi i somali, i nigeriani, e venendo all’Europa gli immigrati di seconda/terza generazione, i balcanici. Un elenco lungo per dire che la minaccia è reale ed è tanto variegata quanto difficilmente controllabile. E qui veniamo al secondo punto: è possibile prevedere questo tipo di attacchi? purtroppo no, o meglio, è molto difficile. Prendiamo il caso russo. Lo Stato islamico conta tra le sue fila molti musulmani che come abbiamo visto provengono dal Caucaso e dall’Asia centrale, zone che in passato facevano parte dell’Unione Sovietica.  Molti di loro hanno passaporti che gli permettono di circolare liberamente in Russia, e sebbene le forze di sicurezza russe siano considerate tra le più efficienti (e brutali) al mondo, è quasi impossibile controllare tutti i potenziali “lupi solitari” che potrebbero essere presenti nel Paese. Allo stesso modo è impossibile monitorare tutti i “luoghi sensibili” potenzialmente obiettivo dei terroristi. Se a questo aggiungiamo che a Mosca hanno ignorato l’avvertimento statunitense sul possibile rischio attentati, capiamo che la sfida diventa complessa. Sull’avvertimento statunitense i russi sono stati molto scettici, ma a ben guardare si ha l’impressione che su campo della lotta al terrorismo islamico le grandi potenze abbiano un punto di appoggio comune. Cosa unisce oggi Usa, Russia, Europa, Iran, Nigeria e tutti i Paesi vittime di attentati? La lotta congiunta al terrorismo. 
L’attentato al Crocus Hall di Mosca è stato definito il “Bataclan russo” per sottolineare la similitudine sia nell’obiettivo che nella strategia tra l’attacco a Mosca e quello verificatosi a Parigi nel novembre 2015. Esperienze che in Europa abbiamo già avuto e molto probabilmente vivremo nel futuro. Non a caso il primo ministro francese Gabriel Attal ha innalzato l’allerta del piano Vigipirate al massimo livello. Quello appunto di “emergenza attentati”, così come il Viminale ha innalzato le misure di sicurezza a Roma in vista delle festività pasquali. La minaccia terroristica è tanto concreta quanto imprevedibile.


Foto copertina: uno dei 4 tagiki accusati di essere i responsabili dell’attentato di Mosca e arrestati dalle autorità russe.