Tra propositi di cambiamento ed elementi di continuità, l’ennesimo capitolo di una relazione complessa.
La corsa alle Presidenziali francesi del 23 aprile ha riservato all’Africa subsahariana una posizione del tutto secondaria nel dibattito tra i principali candidati, incentrato soprattutto sulle questioni di politica interna e sull’avvenire della costruzione europea.
Nel corso delle precedenti campagne elettorali, il refrain della necessità di mettere fine alle pratiche della Françafrique aveva acquisito una centralità di rilievo nelle piattaforme programmatiche, sebbene puntualmente la prassi politica abbia smentito ogni lodevole intenzione normalizzatrice, confermando la realtà di una rete di connessioni informali, interpersonali, fondate spesso sul mutuo interesse delle élite franco-africane, condivisa trasversalmente da repubblicani e socialisti.
La campagna elettorale per la successione a François Hollande, di contro, ha circoscritto l’Africa in una dimensione marginale, nonostante la preminenza delle questioni politico-militari e securitarie africane nell’agenda politica del Presidente uscente, ampiamente condizionata dall’intervento militare in Mali, dalla gestione del dossier centrafricano, dal contributo strategico, logistico e operativo alla lotta contro Boko Haram nel bacino del Lago Ciad.
In assenza di riflessioni politiche e dibattiti di ampio respiro sulle questioni fondamentali attinenti il rapporto tra Francia e Africa – gestione dei flussi migratori, sovranità politico-militare e monetaria, sicurezza internazionale, protezione dei diritti umani – il continente africano è emerso sulla scena mediatica quasi in termini collaterali.
Durante la sua campagna elettorale, Emmanuel Macron, candidato liberale sostenuto dal movimento politico En Marche, percepito come distante dall’establishment politico francese nonostante la sua esperienza da Ministro dell’Economia nel governo Valls II,[1] ha dato prova della volontà di fare i conti con l’eredità politica del colonialismo francese in Africa. Nel corso di un’intervista resa a un’emittente privata algerina, affermava: “La colonizzazione fa parte della storia francese. É un crimine, è un crimine contro l’umanità, una vera barbarie e fa parte di quel passato con il quale dobbiamo confrontarci, rendendo le nostre scuse a coloro nei confronti dei quali abbiamo commesso tali gesti. […] Vi sono stati dei crimini terribili, tortura, barbarie, perché la colonizzazione è un atto di dominazione e di non-riconoscimento dell’autonomia di un popolo”.[2]
Le parole di Macron, nette, chiare, sorprendentemente imprudenti, sembravano fare eco ai tentativi di avvicinamento della Francia alla potenza regionale algerina posti in essere da Hollande, che, durante le prime fasi della sua Presidenza, aveva affermato di voler porre le basi per una nuova era delle relazioni tra Francia e Algeria, pur senza spingersi oltre. Di fondo, la consapevolezza dell’importanza strategica dell’Algeria nel quadro securitario regionale, caratterizzato da una profonda instabilità derivante dalla presenza di gruppi jihadisti legati ad Al–Qāʿida e del radicamento di reti di traffici criminali. Ne conseguiva la necessità di rafforzare la cooperazione bilaterale con Algeri, in funzione della lotta al terrorismo e della stabilizzazione della regione sul medio-lungo periodo.
L’intervista di Macron – su cui il candidato di En Marche ha successivamente corretto il tiro, parlando di “crimini contro l’umano”,[3] presumibilmente per non alienarsi il consenso di combattenti reduci dalla guerra franco-algerina e di pieds-noir[4] – ha alimentato le discussioni attorno all’eredità storica delle Francia nei confronti delle ex colonie in Africa subsahariana, attirando soprattutto le critiche dei Repubblicani di François Fillon e dei seguaci del Front National di Marine Le Pen.
Se, da un lato, i dirigenti lepenisti non hanno risparmiato il candidato di En Marche, reo di “denigrare la Francia all’estero”,[5] dall’altro, i Repubblicani hanno giudicato le parole di Macron “indegne di un candidato alla Presidenza della Repubblica”,[6] accusandolo, peraltro, di strumentalizzare la questione coloniale a fini meramente elettorali: pochi mesi prima, infatti, Macron si era espresso sul tema parlando degli “aspetti positivi” della colonizzazione: “C’è stata la tortura, ma anche l’emergere di uno Stato, di ricchezze, di classi medie. Ci sono stati elementi di civilizzazione ed elementi di barbarie”.[7]
Fillon, protagonista di una stagione politica caratterizzata dalla conservazione dello status quo, nel quadro delle relazioni franco-africane, e da un forte paternalismo della Francia nei confronti delle ex colonie africane – di cui Sarkozy diede prova a Dakar nel 2007, sottolineando come “l’uomo africano non [fosse] entrato abbastanza nella storia”[8] – non è nuovo a posizioni negazioniste sul tema delle responsabilità del colonialismo francese in Africa subsahariana. Nel 2009, durante una visita di Stato in Camerun, nella capitale Yaoundé, l’allora Primo Ministro negava in maniera decisa che forze francesi avessero partecipato alla repressione violenta dei membri dell’Union des Populations du Cameroun, considerando “pura invenzione” la ricostruzione storica che aveva portato alla luce il ruolo della Francia nella guerre oubliée contro i nazionalisti di Ruben Um Nyobé, assassinato dalle forze di sicurezza.[9]
Lo spettro della Françafrique – termine originato dai discorsi del Presidente ivoriano Felix Houphouët-Boigny, che parlava di France-Afrique riferendosi alla bontà e alla solidità delle relazioni tra la ex potenza coloniale e il suo pré carré africano, e successivamente adattato da François Xavier Verschave, fondatore dell’associazione Survie, a indicare un sistema strutturato di relazioni tra “attori economici, politici e militari, in Francia e in Africa, organizzato in reti e lobby, finalizzato all’accaparramento di rendite derivanti dallo sfruttamento delle materie prime e dagli aiuti pubblici allo sviluppo” – è affiorato, nel corso della campagna elettorale francese, aggravando gli imbarazzi del candidato repubblicano, già al centro di numerosi scandali.[10]
Fillon avrebbe ricevuto in regalo degli abiti (non dichiarati), per un valore complessivo superiore a 48.000 euro, dall’avvocato franco-libanese Robert Bourgi, ben noto agli ambienti politici franco-africani: “figlio spirituale” di Jacque Foccart – Monsieur Afrique di De Gaulle e Pompidou, vero dominus della politica francese in Africa subsahariana – e molto vicino ad alcuni tra i Presidenti “a vita” della regione occidentale africana, tra cui l’ex Capo di Stato gabonese Omar Bongo, Bourgi è stato consigliere per le questioni africane di Nicolas Sarkozy. Nel 2015, le relazioni tra Fillon e Bourgi si saldarono, e l’uomo simbolo dei network franco-africani mise il futuro candidato repubblicano in relazione con alcuni Capi di Stato in Africa francofona, prima di tornare al seguito di Sarkozy. Alcuni giorni dopo lo scoppio dello scandalo, tra accuse di distrazione di fondi pubblici e traffico di influenze, Bourgi affermava di aver subito pressioni da Fillon e dal suo entourage, affinché non fosse resa nota la sua identità di benefattore. Il timore del candidato repubblicano riguardava il rischio che la Françafrique, con il suo forte carico simbolico, potesse essere direttamente associata al coinvolgimento di Bourgi, e alimentare, di conseguenza, sospetti di finanziamento illecito da parte di élite al potere in Africa subsahariana, particolarmente interessate ai destini politici della Francia e di un sistema di relazioni in grado di assecondare i propri interessi.
L’affaire Arnys [11] denota, evidentemente, il peso che le reti di relazioni informali, personali, dirette, tra uomini politici francesi e classi dirigenti africane conservano nei processi di definizione degli equilibri politici a Parigi.
Le questioni securitarie e, nello specifico, le minacce terroristiche all’origine dell’instabilità in Sahel, hanno orientato le agende politiche dei candidati, chiamati a consolidare una statura internazionale e a confrontarsi con la centralità dell’Africa negli scenari politici globali. A tale necessità sembra potersi ascrivere la scelta di Marine Le Pen, la leader di estrema destra, di recarsi in visita ufficiale in Ciad, ospite del Presidente Idriss Déby Itno.
Vasto paese saheliano, situato in Africa centrale, il Ciad di Déby incrocia le principali crisi securitarie regionali – Al Qaida in nord-Mali, Boko Haram nel bacino del Lago Ciad, la guerra civile in Centrafrica, il conflitto in Darfur – rivestendo un ruolo essenziale a garanzia degli equilibri regionali.
Le relazioni franco-ciadiane hanno oscillato in funzione della mutata attitudine di Hollande nei confronti del suo omologo, estremamente critica in una prima fase della sua Presidenza, di impronta idealista e a difesa di democrazia e diritti umani,[12] e radicalmente mutata a seguito della svolta pragmatica del Presidente francese, coincidente con l’aggravarsi della crisi in Mali e con il dispiegamento dell’esercito francese nel nord: il coinvolgimento dell’esercito di Déby nelle operazioni militari francesi ha dato impulso a tale mutamento, e il contributo delle truppe ciadiane alle operazioni controterroristiche nell’Adrar des Ifoghas si è rivelato effettivamente essenziale.
Attualmente, il Ciad costituisce il perno delle strategie controterroristiche franco-africane in Sahel; la capitale N’Djamena ospita, significativamente, il quartier generale della forza francese Barkhane.[13]
Il viaggio di Le Pen in Ciad ha consentito, da un lato, a Idriss Déby, a capo di un regime autoritario e illiberale, di rafforzare la propria legittimità internazionale, vedendo riconosciuto il valore del proprio apporto politico e militare alla stabilizzazione dell’area saheliana da parte di uno tra i più accreditati candidati alla Presidenza della Repubblica francese; dall’altro, la leader nazionalista ha consolidato un’immagine istituzionale, trovando nel Ciad una sponda politica efficace per contrastare la narrazione del Front National come partito xenofobo, e validare – attraverso il consenso espresso da un partner continentale – i contenuti politici del suo programma per l’Africa: dalla strategia securitaria di potenziamento della cooperazione bilaterale e multilaterale con gli attori regionali, senza rinunciare alle basi che assicurano alla Francia un posizionamento militare nel continente, alle restrizioni dei flussi migratori, imposte attraverso il rigido controllo delle frontiere nazionali e l’espulsione di tutti i migranti irregolari, dall’incremento degli aiuti allo sviluppo al superamento del sistema di ingerenze e condizionamenti della Francia in Africa, fino alla difesa della sovranità degli Stati africani nel dibattito sulla sopravvivenza del sistema monetario del franco CFA.
Le dinamiche politiche, economiche e militari che definiscono la relazione tra Francia e Africa, dunque, hanno attraversato la campagna presidenziale francese incidentalmente. Gli stessi candidati progressisti, il socialista Benoit Hamon – cresciuto a Dakar, dove trascorse parte della sua adolescenza – e il gauchiste Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise, non hanno fatto dell’Africa un asse portante della proposta programmatica rivolta agli elettori, limitandosi a sottolineare l’importanza del sostegno ai movimenti civici e alle forze espressione della società civile africana, ed esprimendosi su democrazia, diritti umani, presenza militare francese, sovranità monetaria in termini molto generali.
Sul fatto che il disinteresse di fondo della politica francese per l’Africa e le questioni africane – al di là delle preoccupazioni securitarie e della lotta al terrorismo – possa corrispondere alla volontà condivisa di normalizzare la relazione tra la Francia e il suo pré carré coloniale, molti sono i dubbi, poche le certezze.
Bibliografia
Airault Pascal, Bat Jean-Pierre, Françafrique. Opérations secrètes et affaires d’État, Tallandier, Paris, 2016.
Boisbouvier Christophe, Hollande l’Africain, La Découverte, Paris, 2015.
Deltombe Thomas, Domergue Manuel, Tatstitsa Jacob, Kamerun! Une guerre cachée aux origines de la Françafrique (1948 – 1971), La Découverte, Paris, 2011.
Galy Michel (a cura di), La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara: enjeux et zones d’ombre, La Découverte, Paris, 2013.
Glaser Antoine, Africafrance. Quand les dirigeants africains deviennent les maitres du jeu, Fayard, Paris, 2014.
Hanne Olivier, Larabi Guillaume, Jihâd au Sahel: Menaces, Opération Barkhane, coopération régionale, B. Giovanangeli éditeur, Paris, 2015.
Mathias Gregor, Les guerres africaines de François Hollande, Éditions de l’Aube, Paris, 2014.
Verschave François-Xavier, La Françafrique: le plus long scandale de la République, Stock, Paris, 1998.
[1] Nominato nell’agosto del 2014, sostituendo Arnaud Montebourg.
[2] Intervista resa al network televisivo algerino Echourouk News, il 13 febbraio 2017.
[3] La parziale rettifica è avvenuta nel corso di un meeting a Toulon, il 18 febbraio 2017.
[4] Così chiamati i francesi d’Algeria, rimpatriati in Francia a partire dal 1962.
[5] Nelle parole di David Rachline, direttore della campagna elettorale di Marine Le Pen, e di Wallerand de Saint-Juste, tesoriere del partito, che accusava Macron di “sparare alle spalle della Francia”.
[6] In particolare, lo stesso Fillon e l’ex Primo Ministro Jean-Pierre Raffarin hanno rivolto a Macron dure invettive in risposta alle sue parole sul colonialismo francese.
[7] Intervista al quotidiano Le Point, il 23 novembre 2016.
[8] Nel celebre e controverso discorso tenuto nella capitale senegalese, Sarkozy minimizzava le responsabilità della Francia coloniale in Africa: “Il colonialismo non è responsabile di tutte le difficoltà attuali dell’Africa. Non è responsabile delle sanguinose guerre che gli Africani combattono tra di loro. Non è responsabile dei genocidi. Non è responsabile dei dittatori. Non è responsabile del fanatismo. Non è responsabile della corruzione, della prevaricazione. Non è responsabile degli sprechi e dell’inquinamento […]”.
[9] Come evidenziato dagli storici del colonialismo, quella del Camerun francofono rappresenta una delle pagine più cupe della dominazione coloniale francese in Africa subsahariana, unico caso di decolonizzazione violenta in Africa francofona, in ragione della resistenza esercitata dai nazionalisti nei riguardi delle élite camerunensi installate al potere grazie al sostegno della madrepatria, in una dinamica di reciproco interesse che avrebbe successivamente caratterizzato la Françafrique.
[10] Fillon avrebbe assunto formalmente sua moglie Penelope come assistente parlamentare, senza però che quest’ultima svolgesse effettivamente il lavoro. Lo scandalo è stato sollevato dai giornalisti de Le Canard Enchainé, che avrebbero calcolato guadagni illeciti per circa 900.000 euro.
[11] Dal nome della maison francese presso cui gli abiti ricevuti in dono da Fillon erano stati acquistati.
[12] Le tensioni tra Hollande e Déby, nel 2012, condussero il Presidente francese ad annullare una visita ufficiale del suo omologo ciadiano all’Eliseo e, al contempo, spinsero Déby a disertare il forum della Francophonie di Kinshasa.
[13] Il dispositivo regionale Barkhane, dispiegato nel luglio 2014, ha raccolto il testimone di Serval in nord Mali e di Épervier in Ciad, nel quadro di una riorganizzazione complessiva della presenza francese in Sahel, allo scopo di contrastare la minaccia terroristica nella macroregione.
Foto Copertina: Balloons in the colors of the French flag in front of the Eiffel Tower