A quattro mesi di distanza dallo scoppio della guerra in Ucraina, l’evento più geopoliticamente importante di questa parte di XXI secolo, il mondo non è più lo stesso. Ecco cosa è accaduto, cosa sta succedendo e che cosa potrebbe accadere.
A cura di Leonardo Bossi [1] ed Emanuel Pietrobon
Più di cento giorni sono passati dall’inizio dell’intervento militare russo in Ucraina e la grande narrazione della stampa mainstream occidentale ha registrato un’inversione di rotta: non si parla più di possibile vittoria ucraina e della scarsa prestazione delle forze armate russe, ma si evidenziano le perdite nell’esercito ucraino, il basso morale delle sue truppe e le prospettive poco rosee del paese. Un cambio di narrazione indicativo della cangiante realtà sul campo ed eloquente a proposito delle debolezze, dei limiti e delle problematicità che caratterizzano giornalismo e analisi nell’era della post-verità.
È il momento di capire le ragioni dell’inversione di tendenza, sebbene sempre più palesi – ovvero l’impossibilità di sconfiggere la Russia, perlomeno sul campo operativo –, anche perché non si potrà capire la forma che assumerà la pace prescindendo dal contesto.
Dal piano A al piano B
Con il fallimento dell’ambizioso-ma-azzardato piano A, cioè il tentativo di catturare Kiev tra fine febbraio e inizio marzo, Mosca è passata a un più modesto-ma-realistico piano B: stop alle grandi manovre, ridimensionamento e ricalibramento degli obiettivi, focalizzazione sull’annientamento logistico e fisico del centro di gravità della resistenza, ovvero le forze armate.
Catturare Kiev avrebbe avuto un significato simbolico e dei possibili effetti politici – come la caduta della presidenza Zelenskij e la neutralizzazione dello spirito di resistenza civile –, ma il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto. E Kiev, del resto, non era e non è un perno geostrategico simile, ad esempio, a Parigi e Berlino nelle due guerre mondiali. Il tentativo di prendere Kiev non è stato un bluff, e neanche un diversivo con cui distrarre l’esercito ucraino dal Donbas, ma una scommessa. Una scommessa che evidenti problemi logistici e carenza di consenso nei luoghi occupati – celebri, a questo proposito, le proteste degli abitanti di Slavutyč – hanno fatto naufragare. Non che questo, però, abbia avuto conseguenze irrimediabilmente negative per il Cremlino, che, anzi, nel ricalibramento al ribasso degli obiettivi bellici ha trovato la via della vittoria.
Nel dopo-ritirata dall’Ucraina settentrionale, le forze armate russe hanno esercitato una pressione crescente nel Donbas, più precisamente dentro e fuori quelle terre che separavano la Crimea dalle repubbliche di Donetsk e Lugansk e che oggi, invece, formano un continuum territoriale sotto il controllo militare, oltre che politico, del Cremlino. Un ricalibramento al ribasso degli obiettivi, si scriveva, che, però, potrebbe rivelarsi ben più impattante del piano A: maggiore facilità nel controllo dei territori occupati, maggiore facilità nella conduzione di battaglie di annientamento, efficientamento della rotazione delle truppe, sveltimento dei tempi di rifornimento, agglomerazione di risorse geostrategiche nel sottosuolo.
Fino ad ora, come dimostrano i fatti – il territorio ucraino sotto il controllo russo è passato dal 15% dell’anteguerra a più del 20% di inizio giugno – e i numeri – una media di 500 soldati ucraini uccisi giornalmente –, il piano B sta cominciando a pagare i dividendi. E questo nonostante la rilevanza delle perdite nelle file dell’esercito russo: elevate ma assorbibili. Operazione Barbarossa docet: la demografia è destino, vince chi è in grado di mobilitare – e sacrificare – il maggior numero di soldati.
Più aiuto dalla NATO non è possibile
A peggiorare il quadro v’è il fatto che il supporto internazionale per l’Ucraina ha raggiunto il suo picco, sia in termini di supporto diplomatico sia in termini di supporto militare: nei paesi dell’Europa occidentale aumenta il distacco emozionale verso l’Ucraina, mentre nei paesi dell’Europa centro-orientale vanno finendo le riserve di equipaggiamento e armamenti sovietici, con conseguenze per i fornitori più generosi, come la Polonia, ora costretti a dover fronteggiare delle carenze che minano il fabbisogno per uso domestico.
La strategia di Zelenskij, in questa seconda fase del conflitto, si è rivelata debole e controproducente. Perché se il continuo focus sulla propaganda, sul marketing e sulle pubbliche relazioni ha garantito all’Ucraina un continuo afflusso di combattenti volontari dall’estero e di armamenti, sullo sfondo di un crescendo di sanzioni alla Russia da parte occidentale, la refrattarietà alle ritirate strategiche ha giocato e sta giocando a favore dell’invasore. Emblematico, a quest’ultimo proposito, quanto accaduto a Severodonetsk, sulla riva sinistra del Severskyi Donets, dove gli alti ranghi avevano predisposto un piano di ritirata ordinata poi naufragato contro l’ordine perentorio giunto dal Marinskij della resistenza a oltranza. Il risultato, prevedibilmente, è stato il ripetersi dello scenario Mariupol: capitolazione, passaggio delle chiavi della città e cattura di volontari e soldati che avrebbero potuto essere impiegati più efficacemente altrove. La strategia sul campo di Zelenskij, per certi versi, ricorda la miope scelta del comando tedesco di non ritirarsi da Stalingrado nell’inverno 1942.
Verso un nuovo mondo
Nonostante le evidenti manchevolezze, e nonostante le episodiche battute d’arresto, l’esercito russo ha dimostrato di poter mantenere l’iniziativa sul fronte del Donbass – il fronte decisivo del piano B – e di poter sostenere una lenta ma costante (e implacabile) avanzata dall’elevato costo umano.
Qualsiasi futura inversione di tendenza a favore dell’Ucraina passerà necessariamente da nuovi e massicci rifornimenti di armi pesanti da parte dell’Occidente, ma problemi a livello di scorte di magazzino e screzi diplomatici potrebbero lavorare in senso contrario a quanto prospettato da Zelenskij. Una situazione che rischia di aggravare il quadro per Kiev, dati lo stallo negoziale e le indiscrezioni – da parte dei reporter di guerra russi – di possibili manovre offensive su Sumy, Kharkiv e Odessa.
Il risultato sul campo, intanto, sta già dispiegando una moltitudine di effetti nel resto del mondo: l’Occidente si è ricompattato attorno agli Stati Uniti, nonostante il persistere di voci dissidenti – come l’Ungheria – e la resistenza dell’asse franco-tedesco, la NATO sta vivendo una nuova epoca d’oro, la Russia sta profittando dell’amplificazione del regime sanzionatorio per diversificare il portafoglio di clienti e sveltire l’autarchizzazione dei settori strategici, mentre BRICS e Movimento dei non allineati sono tornati in auge nel nome della transizione multipolare.
In Ucraina, in estrema sintesi, sono stati gettati i semi di una nuova epoca di cui già è possibile intravedere i contorni. Epoca sulla cui effettiva maturazione ha scommesso il Cremlino, che spera di trasformare la vittoria sul campo in Ucraina nel primo mattoncino dell’edificio del multipolarismo, e sulla cui implosione prematura confida la Casa Bianca, per la quale la brzezinskiana espulsione della Russia in Asia, lungi dal danneggiare il sogno di un nuovo secolo americano, negli anni a venire si rivelerà la spada di Damocle che ucciderà l’Orso e il Dragone. Ai posteri l’ardua sentenza.
Note
[1]Leonardo Bossi è un analista geopolitico specializzato in studi occidentali e geopolitica dell’Eurasia. Tra i fondatori di Aliseo (ex Progetto Prometeo).
Foto copertina: Russian bombardment of telecommunications antennas in Kiev, Wikipedia