Il 14 gennaio è ricorso il 13° anniversario della rivoluzione tunisina. Considerata l’”eccezione” all’interno del mondo arabo in quanto unico Paese in cui è avvenuta con successo la transizione democratica, le vittorie ottenute sono messe in pericolo dalla svolta autoritaria effettuata da Kais Saïed nel 2021. Alla svolta autoritaria si accompagna la repressione delle opposizioni e della libertà di stampa e una situazione economica allarmante, con continua scarsità di beni di prima necessità.
Dei recenti sviluppi nel Paese ne abbiamo parlato con Frida Dahmani, corrispondente per Jeune Afrique in Tunisia.
Incontriamo Frida Dahmani, corrispondente per Jeune Afrique, a Tunisi per parlare della politica tunisina.
Sono passati poche settimane dal 14 gennaio, 13° anniversario della rivoluzione che ha messo fine al potere di Ben Ali.
Dieci anni dopo, il presidente Kais Saïed ha sospeso il Parlamento, approvato una nuova costituzione e accentrato il potere nelle proprie mani.
Ci aiuta a delineare il percorso di questi ultimi 13 anni, dalla rivoluzione ad oggi?
Quello del 2011 è stato un evento inaspettato per tutti, eravamo così felici che non abbiamo prestato attenzione ai dettagli, come ad esempio il fatto che una rivoluzione senza capi non esiste. In realtà, ancor prima del 2011 esistevano già tutti i presupposti, come quelli che chiamiamo “gli incidenti di Gafsa” del 2008.
Un altro errore che abbiamo commesso è stato quello di non renderci conto che una rivoluzione richiede tempo e durante questo lungo periodo ci sono evoluzioni ed involuzioni. Dopo le elezioni del 2019, ci si era illusi che riponendo fiducia in un uomo fuori dal sistema politico fosse la mossa giusta. Nessuno di noi aveva previsto che avrebbe fatto quello che è stato a tutti gli effetti un colpo di Stato (sebbene si siano utilizzati vari giri di parole per definirlo) e che è avvenuto a tappe. È iniziato il 25 luglio 2021 con la dissoluzione del Parlamento e si è concluso con l’approvazione della Costituzione nel 2022 che, tra le altre cose, prevede l’immunità del Presidente a vita.
Gradualmente ha poi eliminato tutti gli enti costituzionali, come l’INLUCC, ente contro la corruzione e privato ministri e giudizi del loro potere effettivo.
Un elemento importante è l’alto tasso di analfabetismo, che ai tempi della rivoluzione raggiungeva il 20% e che ora si attesta al 25%, uno scandalo per il Paese di Bourguiba, che ha concesso l’educazione gratuita per tutti. Questo porta all’incapacità di capire la politica da parte di una grossa fetta della popolazione ed incide sulla partecipazione politica e sull’assenza di una società civile.
Ora siamo arrivati al punto che pensiamo che con Ben Ali si stava meglio, un cortocircuito se pensiamo che allora non si aveva tutta la libertà che abbiamo oggi, anche se, in realtà, ora non abbiamo più nemmeno quella.
Non è la fine dell’esperienza democratica, perché è un ciclo. Noi avevamo fretta e non siamo stati attenti, ma la rivoluzione si fa su un tempo lungo. Dieci anni sono un periodo ridotto.
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Risale a poco tempo fa la condanna a sei mesi di detenzione del giornalista Zied al-Heni, arrestato il 28 dicembre 2023 per aver criticato il Ministro del Commercio durante un’intervista radiofonica, sulla base dell’articolo 86 del Codice delle Telecomunicazioni.
Questo si aggiunge ad un’ondata di arresti e altri procedimenti giudiziari che hanno interessato giornalisti e attivisti.
Zied al-Heni è stato arrestato per aver detto “kazi”, una vecchia parola di origine italiana adottata nel dialetto tunisino ma che in realtà significa “tizio” e che quindi non ha nulla di volgare o offensivo.
La libertà di stampa rappresenta una delle libertà conquistate con la rivoluzione ma minacciata dall’approvazione del Decreto 54, che con il pretesto di combattere le fake news, prevede pesanti sanzioni per chi diffonde notizie false ed è divenuto uno strumento per reprimere la libertà di stampa.
Esiste anche un problema economico, per cui alcune emittenti private non hanno finanziamenti e vengono assimilate alla rete nazionale che così diventano una mera emanazione del potere politico, senza spazio per la critica.
La Tunisia dovrebbe tenere le elezioni presidenziali nell’autunno del 2024. Nel corso del 2023, gli arresti e le condanne di personaggi pubblici, soprattutto politici, hanno subito un’accelerazione. Qual è la situazione dell’opposizione tunisina?
Non c’è margine per l’opposizione perché non è presente nessuno a contrastarlo. Al momento, sono presenti circa 60 persone in galera, persone di prima linea che appartengono a vari campi, che sia dell’economia o della politica. I partiti politici non esistono più, la società civile è posta sotto attacco, come dimostra il disegno di legge che prevede che tutte le associazioni devono avere l’autorizzazione da parte del governo e prevede anche il controllo sui finanziamenti stranieri ricevuti, che, tra l’altro, ricevono già un prima controllo da parte della Commissione di analisi finanziaria (CTAF).[1]
Recentemente ha poi pubblicato una lista con dei nomi accusati di riciclaggio di denaro e a ciò si aggiunge un ciclo di arresti, prima a febbraio scorso poi a novembre. Per cui, è come se Saïed stesse “ripulendo” il campo e questo risulta chiaro dai nomi presenti sulla lista dei candidati alle precedenti elezioni del 2019 e che attualmente non sono più presenti sullo scenario politico (perché molti arrestati).
Per questa serie di motivi, la sua vittoria alle successive elezioni è assicurata e d’altra parte anche la parola “democrazia” è ormai assente dal suo vocabolario.
Per la sua riuscita, ha potuto contare sul fatto che il popolo tunisino non è abituato ad essere “cittadino”, data la lunga storia di sudditanza, prima del Bey, poi di Bourguiba e Ben Ali, soprattutto perchè ai quei tempi lo Stato era uno Stato provvidenziale, ossia fornitore di tutti i servizi, senza prevedere una responsabilità individuale o collettiva.
Esiste ancora un barlume di speranza nella gioventù che però è disgustata dalla politica e la sfida è convincere questa fetta di popolazione ad andare a votare, sfida ardua dal momento che persino dopo la rivoluzione, quando l’entusiasmo era al massimo, si è avuto una certa difficoltà.
Questa è anche la fregatura delle “primavere arabe” che hanno fatto tutto questo per cambiare la facciata del mondo ma alla fine non è cambiato niente.
La Tunisia vive una prolungata penuria di alimenti di base e una preoccupante situazione economica. In questa situazione sembrerebbe vitale un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, però rifiutato dal presidente. Secondo lei, esisterebbe ancora un margine per un accordo il FMI e l’Unione Europea potrebbe avere un ruolo da intermediario?
Questa carenza dei beni di prima necessità costituisce una novità assoluta per la Tunisia, non è mai successo prima d’ora di fare la fila per il pane o per un litro di latte.
Alla base di questa penuria, sicuramente ci sono cambiamenti climatici che mettono in difficoltà la produzione dei prodotti agricoli ma anche una strategia precisa del governo, perché gestisce la mancanza di denaro con la penuria, nel senso che una persona che tutti i giorni deve cercare il pane e gli altri prodotti, una volta tornato a casa la sera non ha voglia di pensare.
Per quanto riguarda l’accordo con l’IFM, non sono tanto i soldi che avrebbe portato l’accordo, ma il fatto che questo avrebbe aperto le porte per gli investimenti stranieri, al momento limitati per gli alti tassi di interesse.
Questa non è una situazione sostenibile, i prezzi sono alle stelle ma al tempo stesso i servizi sono scarsi o assenti, la sanità è crollata, per non parlare dei trasporti. La gente non sa più come fare ed è anche questa una causa dell’aumento dell’immigrazione verso l’Europa.
Io trovo che i tunisini hanno molto coraggio, perché riescono a sopravvivere in queste condizioni ed è forse questo il “vero miracolo”.
Nonostante il partenariato con l’Unione Europea, la Tunisia non ha guadagnato niente anzi ci siamo venduti per niente, senza nessun rispetto. Abbiamo anche permesso alla polizia dell’UE ad entrare nei nostri affari. Con gli accordi UE, si rafforza la posizione di Saïed come è successo con gli accordi stipulati in materia di migrazione.
Un accordo con l’IFM è fuori discussione, così come un ruolo europeo nella mediazione.
La Tunisia possiede una lunga storia di supporto alla questione palestinese e Saïed ha assunto delle posizioni molto forti a favore della Palestina, talvolta anche isolate dal resto della comunità internazionale. Come si spiega questa postura?
Kais Saïed voleva rendere la Palestina uno dei suoi “grossi argomenti”, ossia la questione che gli avrebbe dato un ruolo di spicco a livello regionale, sull’esempio di Bourguiba. Ma a differenza di quest’ultimo, Saïed non possiede la stessa postura.
Nelle elezioni del 2019, la questione palestinese era un tema centrale della campagna elettorale, ma risultava un po’ paradossale per un presidente che non ha nessuna aspirazione per gli affari esteri e che non ha nemmeno mai partecipato a nessun incontro della Lega Araba.
Ma quella palestinese è sicuramente un pretesto per distogliere l’attenzione sugli affari interni e, in particolare, sulla situazione economica e la carenza dei beni di prima necessità.
Note
[1] La legge, se approvata, metterebbe a rischio le attività e l’indipendenza delle associazioni. Per approfondimenti: F. Dahmani, Après le partis, la presse et les syndicates, les associations dans la tourmente?, 24 novembre 2023, al link: https://www.jeuneafrique.com/1507090/politique/tunisie-apres-les-partis-la-presse-et-les-syndicats-les-associations-dans-la-tourmente/
Foto copertina: “La dignità e la libertà per i quartieri popolari” Tunisi, gennaio 2024