La Bosnia-Erzegovina si trova ad affrontare una delle sue crisi politiche più gravi dall’inizio del processo di pace che ha posto fine alla guerra nei Balcani, quasi trent’anni fa. Le proteste segno di incertezza
A cura di Riccardo Renzi
La crisi politica in Bosnia-Erzegovina. Il conflitto tra autonomia, sovranità e geopolitica
La Bosnia-Erzegovina si trova ad affrontare una delle sue crisi politiche più gravi dall’inizio del processo di pace che ha posto fine alla guerra nei Balcani, quasi trent’anni fa. L’episodio scatenante è la condanna di Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (RS), uno delle due entità che compongono lo stato bosniaco, per non aver applicato le decisioni dell’Alto Rappresentante, l’organo internazionale incaricato di monitorare l’attuazione degli Accordi di Dayton. Questa condanna ha innescato una serie di eventi che minacciano di sfociare in una crisi istituzionale e geopolitica che potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione balcanica[1].
Bosnia-Erzegovina: le origini della crisi in nella condanna di Dodik
Il 26 febbraio, la Corte di Stato ha condannato Dodik a un anno di prigione, con la possibilità di sanzioni pecuniarie e sei anni di interdizione dai pubblici uffici, per aver ostacolato l’applicazione delle leggi e delle decisioni imposte dall’Alto Rappresentante. Sebbene si tratti di una sentenza di primo grado, non definitiva, le sue implicazioni politiche sono state immediate e devastanti. In risposta alla condanna, l’Assemblea Nazionale della RS ha approvato leggi che vietano alle istituzioni giudiziarie statali di operare all’interno della sua giurisdizione, sfidando apertamente la Costituzione della Bosnia-Erzegovina. L’accusa di non rispettare le decisioni dell’Alto Rappresentante non è nuova per Dodik, ma l’intensità della reazione e le nuove leggi hanno creato un clima di crescente polarizzazione politica, con la RS che sembra avvicinarsi a una posizione secessionista. A farne le spese è la fragile stabilità che gli Accordi di Dayton avevano cercato di stabilire, creando una Bosnia-Erzegovina divisa tra entità, ma unite sotto un governo centrale che, tuttavia, è debole e difficilmente operativo[2].
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Il ruolo dell’Alto Rappresentante e gli Accordi di Dayton
Gli Accordi di Dayton, siglati nel 1995, hanno creato una Bosnia-Erzegovina divisa in due entità: la Federazione di Bosnia-Erzegovina, prevalentemente musulmana e croata, e la Republika Srpska, dominata dalla popolazione serbo-bosniaca. Una terza entità, il distretto di Brčko, è stato istituito per risolvere le dispute territoriali tra le due. Inoltre, gli Accordi prevedevano l’istituzione dell’Alto Rappresentante, un funzionario internazionale incaricato di garantire l’attuazione dell’accordo di pace e intervenire quando necessario per mantenere l’ordine costituzionale[3]. Tuttavia, la posizione di Dodik e la sua costante sfida all’autorità dell’Alto Rappresentante mettono in discussione la validità di questo sistema. Il rifiuto delle sue decisioni da parte della RS rappresenta un affronto diretto alla comunità internazionale e solleva interrogativi sul futuro della Bosnia-Erzegovina. La decisione di Dodik di ignorare la sentenza della Corte statale e le sue dichiarazioni contro l’autorità di Sarajevo non fanno altro che aumentare la tensione all’interno della regione.
Dodik e la geopolitica Balcanica
Il contesto geopolitico che circonda la Bosnia-Erzegovina è fondamentale per comprendere le dinamiche di questa crisi. Da un lato, la Serbia, sotto la guida di Aleksandar Vučić, continua a sostenere Dodik, mentre la Russia di Vladimir Putin mantiene una posizione di sostegno nei confronti dei serbi bosniaci. La Russia, infatti, ha storicamente utilizzato la Bosnia-Erzegovina come strumento per contrastare l’influenza dell’Occidente nei Balcani e rafforzare i suoi legami con la Serbia, un alleato strategico. Dodik, in particolare, ha costruito una forte alleanza con Mosca, non solo per ragioni politiche, ma anche per le sue posizioni nazionaliste serbe e il suo rifiuto dell’Occidente. Questo legame con la Russia è particolarmente significativo nel contesto dell’odierna crisi ucraina, dove l’Europa sta affrontando una nuova divisione geopolitica. La vicinanza di Dodik alla Russia e il suo sostegno al nazionalismo serbo lo pongono come una figura chiave nella strategia di Mosca nei Balcani, un’area cruciale per la stabilità dell’Europa[4]. Le dichiarazioni di Dodik, che ha definito la Bosnia-Erzegovina “non più esistente” dopo la sua condanna, sono emblematiche di una chiara volontà di spingere la regione verso una nuova guerra di retoriche nazionaliste. La sua opposizione all’idea di un’unità nazionale bosniaca, unita al rifiuto di riconoscere il genocidio di Srebrenica, alimenta un risentimento che rischia di riaccendere le vecchie tensioni etniche[5].
La Sfida per l’Europa: Stabilità o Frammentazione? Per quale futuro?
Le implicazioni della crisi bosniaca sono lontane dall’essere solo interne al paese. La Bosnia-Erzegovina è formalmente un candidato all’ingresso nell’Unione Europea, ma le sue difficoltà politiche e le divisioni interne pongono seri dubbi sulla sua capacità di intraprendere il cammino verso l’integrazione. L’escalation della tensione tra la RS e il governo centrale potrebbe minacciare non solo la stabilità della Bosnia, ma anche quella dell’intera regione balcanica[6]. La comunità internazionale, e in particolare l’Unione Europea e gli Stati Uniti, dovranno decidere come affrontare questa situazione. Se l’Occidente non interviene con decisione, rischia di perdere terreno nella regione, lasciando spazio a influenze russe sempre più prepotenti. La Serbia, già alleata di Dodik, potrebbe essere spinta a sostenere le sue richieste separatiste, mettendo in pericolo non solo la Bosnia, ma anche l’intero processo di pacificazione dei Balcani.
A quasi trent’anni dalla fine della guerra dei Balcani, la Bosnia-Erzegovina continua a vivere una crisi nel limbo della divisione etnica e della frammentazione politica. Sebbene gli Accordi di Dayton abbiano posto fine al conflitto, essi hanno congelato una situazione che ha impedito al paese di evolvere verso un sistema politico e sociale più integrato. La crisi in corso dimostra quanto la pace in Bosnia sia fragile e quanto sia necessario un intervento attivo per evitare che il paese scivoli nuovamente nel conflitto. Il rischio che la Bosnia-Erzegovina possa sprofondare nuovamente in una guerra di fratture etniche e nazionalistiche è tangibile. La comunità internazionale dovrà trovare il modo di ripristinare un dialogo costruttivo e garantire che la pace e la stabilità della regione non vengano minacciate da forze che perseguono interessi nazionalisti e geopolitici a scapito della coesione e della convivenza pacifica.
Le proteste in Serbia
Veniamo ora alla Serbia, anch’essa dominata da un’incertezza analoga, erano, infatti, decenni che in Serbia non si assisteva a una protesta simile. Sabato 15 marzo 2025, più di centomila persone, in gran parte studenti, hanno invaso le strade di Belgrado per manifestare contro il presidente Aleksandar Vučić e la sua gestione del potere. Quella che inizialmente sembrava una protesta isolata si è rapidamente trasformata in un movimento di massa, toccando le corde più profonde della società serba. Vučić, nel tentativo di minimizzare l’entità della protesta, ha dichiarato in una sessione straordinaria di non aver “alzato un solo manganello” e ha definito “bugie” le voci circolanti su un presunto utilizzo di cannoni sonori contro i manifestanti[7]. Le manifestazioni sono scattate dopo il tragico crollo di una pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad, che nel novembre 2024 ha provocato la morte di 15 persone. La vicenda ha sollevato gravi interrogativi sulla trasparenza del governo serbo nella gestione degli appalti e nella sicurezza pubblica. Gli studenti, supportati da professionisti e cittadini di tutte le età, hanno chiesto verità e giustizia, ma la protesta è divenuta anche una denuncia contro il regime autoritario di Vučić e la crescente corruzione che pervade le istituzioni serbe[8].
Il timore di una guerra civile e le accuse di cospirazione occidentale
Il governo, preoccupato per l’intensificarsi delle manifestazioni, aveva paventato l’ipotesi di una “guerra civile”, accusando l’opposizione di voler fomentare disordini con l’aiuto delle agenzie di intelligence occidentali. Le accuse di Vučić contro un presunto complotto internazionale non hanno trovato fondamento nei fatti, ma hanno contribuito a polarizzare ulteriormente il clima politico[9]. L’ipotesi di un colpo di stato attraverso la mobilitazione popolare è stata respinta dalla maggior parte degli osservatori, poiché le proteste sono rimaste sostanzialmente pacifiche, sebbene siano stati registrati alcuni momenti di tensione. Tuttavia, non è mancato il timore che i veterani di guerra o i gruppi ultras legati al presidente potessero entrare in gioco. Questo non si è concretizzato, ma il lancio di pietre da parte dei sostenitori del presidente contro i manifestanti in un parco vicino al Parlamento ha segnato il picco della violenza[10].
La frustrazione popolare
La mobilitazione di centinaia di migliaia di persone non è solo un fenomeno urbano, ma ha coinvolto anche le piccole città serbe. L’opposizione politica ha richiesto nuove elezioni, libere e senza il controllo mediatico esercitato dal Partito Progressista Serbo (SNS) di Vučić, che ha governato la Serbia dal 2014. Gli oppositori denunciano una crescente concentrazione del potere nelle mani di Vučić, il quale, pur ammettendo la necessità di un cambiamento, non ha fornito risposte concrete sulla natura di tale cambiamento. Il presidente ha anche accusato l’Occidente di essere dietro le proteste, ma ha fatto poco per placare il malcontento popolare.
Le risposte del Governo e la reazione internazionale
La reazione delle autorità è stata rapida e autoritaria. Vučić ha difeso la sua sicurezza interna, sostenendo di aver evitato situazioni violente grazie all’efficienza delle forze di polizia. Le affermazioni del presidente circa l’uso di manganelli e cannoni sonori sono state prontamente smentite dal ministro della Salute Zlatibor Lončar, che ha parlato di “nessun caso di feriti gravi” derivante dall’intervento della polizia. La questione delle manifestazioni studentesche si inserisce in un contesto geopolitico delicato, dove la Serbia gioca un ruolo di primo piano. La reazione internazionale è stata moderata, con l’Occidente che si è mantenuto in silenzio, probabilmente per evitare di spingere Vučić ulteriormente nell’orbita della Russia[11]. L’equilibrio geopolitico della Serbia, tra la sua voglia di avvicinarsi all’Unione Europea e la sua alleanza con la Russia, si riflette nella retorica di Vučić, che continua a giocare su entrambe le sponde.
Vučić e l’eredità del Nazionalismo
Vučić, esponente di spicco dell’ala nazionalista serba, ha consolidato il suo potere sin dai tempi del governo di Slobodan Milošević, nel contesto della guerra nei Balcani negli anni ’90. La sua ascesa politica è stata contrassegnata da una retorica fortemente anti-occidentale, ma anche da un pragmatismo che gli ha permesso di navigare tra le diverse sfere di influenza geopolitica. La sua politica autoritaria, che mina il sistema democratico e accusa l’opposizione di essere parte di un “cartello criminale”, è diventata una delle principali preoccupazioni in Serbia e in Europa. La Serbia di Vučić sembra essere intrappolata in un gioco pericoloso tra stabilità interna e instabilità geopolitica[12]. Da una parte, la crescente insoddisfazione della popolazione potrebbe trasformarsi in una sfida al regime; dall’altra, la Serbia resta un pilastro nella stabilità dei Balcani occidentali e nelle dinamiche politiche della regione, in particolare riguardo alla Bosnia-Erzegovina e al Kosovo.
Gli ultimi aggiornamenti dalla Serbia
Il 29 marzo 2025, migliaia di manifestanti si sono radunati davanti alla sede della televisione filogovernativa Informer TV, al centro di una crescente tensione in Serbia. Le manifestazioni, che da cinque mesi vedono protagonisti principalmente gli studenti universitari, si sono intensificate a causa dell’uso delle reti mediatiche come strumenti di propaganda a sostegno del governo di Aleksandar Vučić. Il governo, mentre cerca di navigare il complesso processo di adesione alla Unione Europea, mantiene però legami strategici con paesi come la Russia e la Cina, creando una dinamica geopolitica complicata, che riflette anche sul panorama interno. Le accuse contro Informer TV sono gravi: etichettando i manifestanti come estremisti o mercenari, l’emittente avrebbe distorto la realtà delle manifestazioni pacifiche contro la corruzione, suscitando un senso di frustrazione tra la popolazione. Questi media, di proprietà di persone vicine al potere, sarebbero accusati di diffondere discorsi d’odio, con l’intento di delegittimare e demonizzare il movimento studentesco, che da mesi lotta per il cambiamento politico e sociale[13]. Il governo serbo ha minimizzato le richieste degli studenti, definendo la protesta come un tentativo di “rovesciamento” del sistema, ma le manifestazioni hanno continuato a crescere, guadagnandosi il sostegno di centinaia di migliaia di cittadini. Il ruolo dei media è cruciale in questo contesto. Informer TV, supportata dalle istituzioni governative, ha avuto un’influenza significativa sulla narrativa pubblica, spingendo una retorica che ha definito i manifestanti come agenti stranieri o simpatizzanti di una “rivoluzione colorata”, un riferimento a quei movimenti popolari che hanno portato cambiamenti politici in vari paesi post-sovietici[14]. Le autorità hanno, inoltre, minacciato azioni legali contro i professori universitari, come nel caso del preside dell’Università di Belgrado, Vladan Djokic, che è stato accusato di supportare le proteste. Questi sviluppi hanno posto sotto pressione Vučić, che pur avendo cercato di normalizzare i rapporti con l’Unione Europea, ha visto il suo governo diventare sempre più isolato internamente, mentre continua a coltivare alleanze con la Russia e la Cina. La Serbia si trova dunque in un bivio geopolitico, in cui le tensioni interne alimentano non solo conflitti sociali, ma anche le sue politiche estere. La risposta di Vučić alle proteste, descritta come una “controrivoluzione”, ha fatto emergere una crescente polarizzazione tra i sostenitori del governo e i manifestanti. Le proteste studentesche, che erano iniziate come una critica alle politiche corrotte del governo, sono rapidamente evolute in un movimento più ampio contro le disfunzioni del sistema politico serbo. Il 15 marzo 2025, la capitale, Belgrado, ha assistito alla più grande manifestazione di protesta della sua storia, con centinaia di migliaia di persone scese in piazza. Il clima era festoso ma carico di tensione, simbolo della determinazione della popolazione a vedere un cambiamento reale. Nonostante i tentativi delle autorità di frenare l’afflusso dei manifestanti, il movimento ha preso piede, spingendo Vučić a promettere “conseguenze” per coloro che si opponevano al suo governo.
Conclusioni:
Il rischio di una nuova guerra nei Balcani è stato ridotto dalla realtà economica e politica della regione. La Serbia, pur essendo un attore geopolitico cruciale, non ha la forza economica né militare per intraprendere un conflitto armato, soprattutto con la NATO. Inoltre, l’impegno della Russia in Ucraina e l’assenza di un supporto esterno in caso di conflitto hanno ridotto notevolmente la possibilità di escalation militare. Tuttavia, la strategia di Vučić, che manipola la retorica del conflitto imminente per consolidare il potere, continua a essere una carta politica utile per rafforzare la sua posizione interna, ma non sembra indicare un imminente scenario di guerra. In definitiva, la Serbia sembra trovarsi di fronte a una scelta difficile: continuare sulla via dell’autocrazia e del nazionalismo, con tutte le sue implicazioni geopolitiche, oppure avviare una transizione verso una vera democrazia, un cammino che appare tutt’altro che facile e che sembra più lontano che mai[15].
Note
[1] G. PISA, «Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina», Pressenza, 18/03/2025.
[2] G. GAGLIANO, «Bosnia-Erzegovina. L’UE rafforza la missione Althea con 400 nuovi soldati», Notizie Geopolitiche, 11/03/2025.
[3] R. RENZI, «Bisogna ricomporre il puzzle balcanico», Dissipatio, 5/09/2024; G. PISA, «Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina», Pressenza, 18/03/2025.
[4] A. CALABRESE – A. D. LACANU, «La condanna di Dodik e la crisi senza fine della Bosnia», Geopolitica.info, 3/03/2025,
[5] G. PISA, «Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina», Pressenza, 18/03/2025.
[6] Ibidem.
[7] M. COLOMBO, «Perché la bandiera della Ferrari è diventata un simbolo delle proteste in Serbia», Domani, 25/03/2025.
[8] Redazione, «Serbia, Ungheria, Romania: centinaia di migliaia di persone per strada contro i leader filorussi nell’Europa dell’Est», Valigia Blu, 15/03/2025.
[9] D. NENADIC, «Serbia, la più grande protesta di sempre», Osservatorio Balcanico, 18/03/2025.
[10] F. BATTISTINI, «Serbia, Vucic apre alla piazza: elezioni e referendum. Dai Balcani all’Est, il vento delle proteste», Corriere della Sera, 17/03/2025.
[11] D. NENADIC, «Serbia, la più grande protesta di sempre», Osservatorio Balcanico, 18/03/2025.
[12] R. RENZI, «Bisogna ricomporre il puzzle balcanico», Dissipatio, 5/09/2024; R. RENZI, «Aleksandar Vučić, il serbo», Dissipatio, 9/09/2024.
[13] Redazione, «Serbia: proteste contro l’emittente televisiva filogovernativa», Euronews, 30/03/2025.
[14] Redazione, «Serbia: proteste contro l’emittente televisiva filogovernativa», Euronews, 30/03/2025.
[15] R. Renzi, Breve nota geopolitica sulla Serbia di oggi, in Politica Magazine, 9/11/2024, https://politicamag.it/breve-nota-geopolitica-sulla-serbia-di-oggi/
Foto copertina: Proteste, la Bosnia-Erzegovina sta vivendo un momento di crisi politica. fonte Euronews