Le relazioni internazionali verso una fase di de-globalizzazione. L’ex Ilva di Taranto può avere un ruolo nella geopolitica dell’acciaio.
L’ex Ilva come stabilimento di interesse strategico nazionale
La storia dell’ex Ilva, o Italsider, ArcelorMittal o Acciaierie d’Italia – che dir si voglia in base alle sue diverse gestioni – è la storia di un’azienda, un impianto siderurgico – il più grande d’Europa – tenuto in vita contro ogni tipo di evidenza di carattere economico. È la storia di un impianto che è passato dall’incarnare un sogno – poi disatteso – di sviluppo e crescita economica, al generare un grande paradosso economico. L’ex Ilva produce e ha prodotto nel tempo, inquinamento, danni sanitari (i cui effetti non sono ancora del tutto emersi in tutta la loro pericolosità) senza produrre, al contempo, profitti economici o utili sufficienti dal giustificare l’ “accanimento terapeutico” manifestato da parte dei governi italiani a partire dal 2013, fino ad oggi. Si tratta di un impianto in grado di produrre solo e unicamente perdite. E fa ciò mentre a livello mondiale emerge un eccesso di capacità produttiva di acciaio che coinvolge in particolare stati come: Cina, India, Giappone e Stati Uniti. Quindi, in termini puramente razionali tutto ciò che è accaduto nel corso di questi anni, i cosiddetti “Decreti Salva Ilva” susseguitesi a partire dal 2013, non hanno alcun tipo di spiegazione logica e razionale. Data questa situazione internazionale di sovrapproduzione di acciaio e dato questo contesto nazionale in cui dall’indotto non viene fuori nulla di buono, di positivo, ma soltanto inquinamento e perdite economiche anche piuttosto sanguinose – Acciaierie d’Italia al 31 dicembre 2022 contava 10.074 dipendenti con oltre 4,7 miliardi di euro di passività; questo significa che da quando è nata alla fine del 2018, fino alla fine del 2022, ha accumulato oltre 450 mila euro di passività per ogni lavoratore[2] – è sensato chiedersi: a che pro continuare a tenere in vita l’impianto siderurgico di Taranto? Perché ci troviamo di fronte ad una classe politica (nazionale e locale) che non ha mai capito nulla della situazione sanitaria tarantina e continua a chiudere gli occhi, sbattendo la testa innanzi all’evidenza dei dati scientifici raccolti nell’arco degli ultimi dodici anni[3]. O perché nel corso di questi anni ci siamo imbattuti in una serie di governi che, facendo leva sull’aspetto occupazionale, usato come “specchietto per le allodole”, hanno investito ingenti quantità di denaro pubblico su una struttura in evidente perdita. Eppure l’aspetto lavorativo resta una delle tante vicende completamente senza senso che ruotano attorno all’ex Ilva. Ad oggi parliamo di un’azienda che non è più in grado di offrire lavoro, ma che anzi, ha al suo interno molti più cassintegrati che operai effettivamente attivi; basti pensare che, attualmente, l’impianto conta 4100 cassaintegrati su 8160 operai totali[4]. O ancora, perché ci troviamo di fronte ad una classe dirigente che non è riuscita ne a far quadrare i conti, a fronte dei limiti alla produzione di acciaio imposti dopo la sentenze della Corte Europea dei Diritto dell’Uomo del 5 maggio 2022 e dopo il processo “Ambiente Svenduto”; né a dimostrare l’esistenza di una compatibilità tra produzione di acciaio e diritto alla salute. Tutto quello che è accaduto, dunque, arrivando sino ai recenti fatti di questi ultimi mesi, non fa che rispondere alla definizione dell’Ilva come «stabilimento di interesse strategico nazionale»[5] generando un’enorme paradosso. Paradosso che trova un suo fondamento nella geopolitica e nel sempre maggiore ruolo assunto dalla Cina all’interno dello scacchiere internazionale. Ruolo che continua a generare un crescente stato di tensione tra l’Occidente, simbolicamente rappresentato dagli Stati Uniti, e la Cina. Con i suoi 1200 altoforni su un totale mondiale di 2000, la Cina detiene una posizione assolutamente dominante nell’industria siderurgica, creando una dipendenza preoccupante per l’Occidente. Si pensi che la sola Cina detiene il monopolio della produzione di acciaio grezzo per 1032.8 milioni di tonnellate, 1018.2 milioni di tonnellate per la produzione di acciaio a colata continua e 868.6 milioni di tonnellate per la ghisa liquida prodotta partendo da minerali ferrosi, coke e calcare, e necessaria alla produzione finale dell’acciaio. Si tratta di numeri in grado di superare abbondantemente l’intero livello di produzione per tutti i tre settori da parte degli stati dell’Unione Europea (152.6 milioni di tonnellate per l’acciaio grezzo, 147.6 tonnellate per la produzione di acciaio a colata continua e 83 milioni di tonnellate per la ghisa)[6]. L’Italia con le sue 24.4 milioni di tonnellate è il secondo stato in ordine di produzione di acciaio grezzo, a precederla la Germania con ben 40.1 milioni di tonnellate. Anche nel caso dell’acciaio a colata continua, il primato spetta alla Germania con 38.5 milioni di tonnellate a seguirla, l’Italia con 23.1 milioni di tonnellate di acciaio. In ogni caso si tratta di cifre e quantità abbastanza risibili, se paragonate a quelle prodotte sia della Cina che dagli altri stati produttori. Seguono la Cina nella lavorazione di acciaio: l’India (acciaio grezzo, 118.2 milioni di tonnellate; acciaio a colata continua, 103 milioni di tonnellate; ghisa liquida 77.6 milioni di tonnellate), il Giappone (acciaio grezzo 96.3 milioni di tonnellate; 94.8 milioni di tonnellate per l’acciaio a colata continua; 70.3 per la ghisa liquida), gli Stati Uniti (85.8 milioni di tonnellate di acciaio grezzo; 85.6 milioni di tonnellate per l’acciaio a colata continua; 22.2 milioni di tonnellate per la ghisa liquida), la Russia (acciaio grezzo, 75.6 milioni di tonnellate; acciaio a colata continua 62.4 milioni di tonnellate; ghisa liquida, 53.6), la Corea del Sud (acciaio grezzo, 70.4 milioni di tonnellate; 69.4 milioni di tonnellate per l’acciaio a colata continua; ghisa liquida, 46.4 milioni di tonnellate)[7].
Leggi anche:
Un paradosso italiano, tra de-risking e de-coupling
Osservando i dati statistici raccolti dalla Word Steel Association emerge in maniera netta e schiacciante, non solo la supremazia cinese nella produzione di acciaio in tutte le sue componenti, ma anche la supremazia cinese nell’esportazione di acciaio. In particolare, emerge che nel 2021: la Cina ha esportato acciaio per 66.2 milioni di tonnellate; il Giappone per 33.8 milioni di tonnellate; la Russia 32.6 milioni di tonnellate; l’India per 20.4 milioni di tonnellate; l’UE per 26 milioni di tonnellate (con in particolare, la Germania che esporta acciaio per 23.9 milioni di tonnellate e l’Italia per 17.2 milioni di tonnellate); a chiudere l’elenco, gli Stati Uniti che esportano acciaio per 8.2 milioni di tonnellate. Per contro, tra i maggiori importatori di acciaio compaiono proprio gli Stati Uniti, con 29.7 milioni di tonnellate; la Cina, con 27.9 milioni di tonnellate; la Germania con 23.3 milioni di tonnellate e l’Italia con 20.8 milioni di tonnellate. Analizzando, invece, i dati sul commercio mondiale di acciaio tra stati e aree regionali del mondo, emerge che i maggiori importatori dell’acciaio cinese sono – oltre agli altri stati asiatici con 33.4 milioni di tonnellate – gli stessi stati dell’Unione Europea con 3 milioni di tonnellate[8]. Dati alla mano è, dunque, evidente oltre il netto surclassamento europeo, anche lo stretto legame commerciale tra Cina e UE, confermando i timori manifestati nei confronti di Pechino. Per rispondere a questa preoccupazione l’Unione Europea, ed la stessa Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen a confermarlo, ha scelto di adottare la strategia del de – risking, con l’obiettivo di gestire, ridurre e contenere il più possibile la dipendenza europea dalle fonti di approvvigionamento cinesi. La strategia di de-risking rappresenta un approccio più limato, più moderato e contenuto rispetto alla strategia del de – coupling, approccio adottato invece dagli Stati Uniti e volto a ridurre, questa volta in maniera drastica, ogni tipo di interdipendenza economica con la Cina per ragioni di sicurezza nazionale. Il de-risking si concentra, invece, sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e sulla mitigazione dei rischi legati a una dipendenza eccessiva da un singolo mercato. In un contesto in cui la posizione assunta dalla Cina rispetto alla guerra in Ucraina è letta come “ambigua”, il futuro delle relazioni UE – Cina sembra dipendere notevolmente dalla postura di Pechino in merito a questo conflitto. Il de-risking, pertanto, diventa quindi una strategia cruciale e funzionale per l’UE, mirante a garantire la sicurezza politica ed economica europea e a gestire la dipendenza strategica dalla Cina. Questo approccio è poi particolarmente evidente per ciò che riguarda lo sfruttamento delle terre rare e la commercializzazione delle materie prime, indispensabili per tutte le moderne tecnologie green, per i settori del digitale, dell’hi – tech, per le auto elettriche e per il sistema dei microprocessori – tutte materie prime per le quali l’UE è fortemente dipendente da fornitori cinesi, che fanno fronte al 98% della domanda europea[9]. In questo senso, l’Unione Europea intende ridurre la sua dipendenza dalla Cina per tecnologie e materiali strategici, promuovendo la diversificazione delle catene di approvvigionamento per i paesi della Nato. Questo processo, sebbene complesso e a lungo termine, risponde principalmente alla volontà di ridurre i legami con un fornitore preponderante e di assoluto primo piano su scala internazionale, che ha un rapporto altamente competitivo e conflittuale con gli Stati Uniti: la Cina. Inserito in questo contesto, il de – risking nel campo siderurgico ha pertanto lo scopo di garantire una maggiore resilienza dell’Europa alle turbolenze geopolitiche. Rispondono proprio a questo tipo di logica, ad esempio: la decisione di non dipendere più dal gas russo e l’interruzione del progetto del gasdotto Nord Stream 2, nell’ambito del pacchetto di sanzioni annunciate dal cancelliere tedesco Olaf Scholz nei confronti della Federazione Russa il 22 febbraio 2022 dopo l’invasione in Ucraina; la volontà dell’Italia di uscire dalla Via della Seta[10], così come dichiarato dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, su indicazione statunitense. E la medesima logica verrà richiesta e applicata per l’acciaio: occorrerà che l’Italia un domani, non debba dipendere in alcun modo dall’acciaio (in tutte le sue componenti) prodotto in Cina. Seguendo questo tipo di lettura, dunque, l’Ilva diventa una riserva strategica per ragioni geopolitiche. Ed ecco spiegato il paradosso tutto italiano, legato dal siderurgico tarantino. Se da un punto di vista puramente economico e razionale l’azienda sembrerebbe destinata a una chiusura – perché parliamo di un impianto completamente al collasso, decadente e altamente pericoloso per la vita dei lavoratori impiegati al suo interno – le ragioni geopolitiche legate al de-risking la mantengono in vita, ancora aperta in via precauzionale in vista di potenziali tensioni con la Cina. Ed è proprio in questo senso che la nozione di “stabilimento di interesse strategico nazionale” applicata all’ex Ilva di Taranto, trova una sua cinica logicità. A confermare questa lettura, le dichiarazioni di Giuseppe Pasini, considerato il patron nazionale dell’acciaio e presidente del gruppo FERALPI, specializzato nella produzione di acciaio per l’edilizia. Pasini, intervistato lo scorso dicembre dal quotidiano La Repubblica si è espresso sulla vicenda Ilva dichiarando che: «Sicuramente oggi chiudere un’azienda come Taranto sarebbe un problema per tutto il comparto. Bisogna quindi evitarlo. Taranto rappresenta una produzione importante che in Italia ci deve essere. Come produttori e trasformatori di acciaio siamo il secondo Paese in Europa. La produzione di Taranto è importante per tutta la filiera della trasformazione, tant’è che noi siamo importatori netti di coils»[11].
Verso un nuovo ordine mondiale?
Quanto visto sul de – risking europeo, le sue motivazioni e ragioni geopolitiche, ma soprattutto sulle sue ricadute su stati e territori, può portare la nostra riflessione su piano superiore. È sempre più evidente che non solo le relazioni internazionali tra gli stati, ad oggi, non seguano più una dinamica rigidamente bipolare, schematicamente divisa nella contrapposizione tra Occidente e “resto del mondo”; ma che si stia assistendo ad una ricomposizione geopolitica nelle relazioni tra gli stati. Ci troviamo di fronte, infatti, ad un sistema di relazioni tra stati che si sta facendo sempre più frammentato in macro blocchi regionali – formati da nazioni non più necessariamente vicine tra di loro dal punto di vista geografico – o comunque in macro alleanze – di tipo economico e/o militare – tra stati, tutti uniti dai medesimi obiettivi. Rientrerà tra queste finalità, pertanto, anche la volontà di rendersi autonomi nella produzione e gestione delle materie prime e dell’acciaio. Quello a cui assistiamo infatti non è più un gioco di carattere produttivo, ma anche e soprattutto militare. Quando parliamo di geopolitica, infatti, intenderemo anche quei rapporti di forza tra blocchi economici che stanno rispondendo a dinamiche di tipo militare. E in particolare, tutto l’Occidente – ovvero tutta quell’area formata dai paesi membri del G7 (ovvero gli stati membri della NATO assieme al Giappone), più l’Australia e gli stati del Pacifico – ebbene, quest’area allargata che possiamo denominare Occidente, che è sempre stata tradizionalmente considerata integrata dei processi di scambio globale, ha deciso di fare e promuovere un’economia a sé stante. La medesima cosa hanno deciso di fare gli stati del gruppo BRICS, cercando di promuovere nuove linea guida di carattere economico. È dunque necessario constatare che esiste una parte del Pianeta che non si fida più dell’altra, per una serie di ragioni anche di carattere militare. Se da una parte l’Occidente ha deciso di prendere le distanze dalla Cina – su suggerimento statunitense – e dalla Russia – dopo l’invasione in Ucraina. Dall’altra parte abbiamo un pezzo di mondo che vorrebbe percorrere nuove strade che includano una riforma massiccia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e una de – dollarizzazione, promuovendo una sistema economico in grado di prescindere del tutto dal dollaro statunitense. Già ad aprile 2023 il presidente brasiliano Lula, durante l’ultima visita di stato in Cina[12], prendendo parte all’insediamento di Dilma Roussef come presidente della New Development Bank richiamò un principio fondante della Banca, ovvero l’idea di costituire un’alternativa per i paesi emergenti che si allontanasse dalla condizionalità dei prestiti tipica del sistema di Bretton Woods, in modo tale da liberarli «dalle catene delle condizionalità imposte dalle istituzioni tradizionali e con la possibilità di finanziare i progetti in valuta locale»[13]. Il governo di Lula, infatti, si sta dimostrando deciso a farsi promotore di una riforma della governace mondiale che coinvolga, in primis, il Consiglio di Sicurezza ONU, considerato un club d’elite da cui lo stato amazzonico è ingiustamente escluso nonostante l’elevata popolazione. Si dimostra conforme a questi progetti comuni l’obiettivo, auspicato da Lula, di ridurre l’utilizzo prioritario del dollaro statunitense nelle transazioni internazionali per favorire, invece, l’adozione di altre valute. In questo senso, Lula a ridosso dell’incontro con Xi Jinping dichiarò provocatoriamente: «Ogni sera mi chiedo perché tutti i paesi dovrebbero effettuare i propri scambi commerciali in dollari. Perché non possiamo commerciare usando la nostra moneta? Chi ha deciso che il dollaro deve essere la moneta di riferimento soppiantando il sistema aureo?»[14]. Sul tema il presidente brasiliano ha trovato il sostegno del presidente colombiano Gustavo Petro con cui, oltre a promuovere un nuovo modo di approcciarsi alle relazioni internazioni, si sta facendo promotore di un nuovo paradigma in materia ambientale che coinvolga anche le relazioni commerciali e finanziarie. A conclusione dell’incontro bilaterale del luglio 2023 con Lula, il presidente colombiano ha infatti dichiarato: «Salvare le vite umane e superare la crisi climatica richiede […] un cambiamento del sistema finanziario mondiale, significa un cambiamento nelle relazioni economiche mondiali, significa dare priorità alla vita e non al capitale, alla vita e non al profitto. Trasformare quel sistema economico basato sulla vita è la rivoluzione dei tempi di oggi»[15]. Seguendo questa lettura è impossibile non constatare che il mondo sta andando verso una de – globalizzazione. Verso un sistema in cui il vecchio principio di globalizzazione basato su uno stretto rapporto di fiducia reciproca, fondata sui commerci, si sta dissolvendo totalmente andando verso una sempre più progressiva frattura fra aree che non si fidano più l’una dell’altra. Inserita in questa dinamica di riassetto dei rapporti di forza, l’ex Ilva di Taranto – e l’ha dichiarato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, parlando di «rilancio del sito produttivo»[16] – riacquista valore non perché deve produrre cannoni o armi da guerra, ma perché deve produrre acciaio per l’area occidentale che, a sua volta, avrà il compito di rendersi autonoma dalla Cina. Pertanto, viene spontaneo chiedersi qual è e quale sarà il prezzo che la città di Taranto si appresta a pagare una volta inserita in questo cinico e spietato giogo politico? Diventare “area di sacrificio” in nome della sicurezza nazionale e dell’interesse geostrategico.
Note
[1] Lo stabilimento siderurgico di Taranto visto dal mare, https://www.iltaccoditalia.info/2023/01/09/ilva-il-disastro/.
[2] Ministero delle Imprese e del Made in Italy, “Apertura della procedura di amministrazione straordinaria della societa’ «Acciaierie di Italia S.p.a.», in Milano e nomina del commissario straordinario”, Gazzetta Ufficiale, n.53 del 04/03/24, https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2024-03-04&atto.codiceRedazionale=24A01140&elenco30giorni=true.
[3] Si pensi, ad esempio, allo Studio Sentieri aggiornato al 2019, https://epiprev.it/pubblicazioni/sentieri-studio-epidemiologico-nazionale-dei-territori-e-degli-insediamenti-esposti-a-rischio-da-inquinamento-quinto-rapporto, o allo studio pubblicato su Scientific Reports della rivista Nature datato 10 maggio 2021, https://www.nature.com/articles/s41598-021-88969-z.
[4] F. Lorusso, “Ex Ilva, Taranto teme l’amministrazione straordinaria: “Per le imprese creditrici sarebbe un dramma”, La Repubblica, 9/01/24, https://www.repubblica.it/economia/2024/01/09/news/ex_ilva_taranto_teme_amministrazione_straordinaria-421834042/#:~:text=Attualmente%20nello%20stabilimento%20del%20capoluogo,mesi%20con%20il%20fiato%20sospeso.
[5] In seguito al sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo ordinati dalla Gip Patrizia Todisco, il 3 dicembre 2012 il governo approvò il primo dei cosiddetti decreti “Salva Ilva”, il decreto n°207 dal titolo «Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi degli stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale», Gazzetta Ufficiale, 3/12/12, https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/12/03/012G0234/sg.
[6] Word Steel Association, dati aggiornati al 2021, https://worldsteel.org/data/world-steel-in-figures-2022/#world-crude-steel-production-1950-to-2021.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] European Parliament, Securing the EU’s supply of critical raw materials, 2022, https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/ATAG/2022/733586/EPRS_ATA(2022)733586_EN.pdf.
[10] “Italia abbandona la Via della Seta, ma mantiene dialogo con la Cina”, Il Sole 24 Ore, 6/12/23, https://www.ilsole24ore.com/art/l-italia-esce-ufficialmente-via-seta-no-comment-palazzo-chigi-AFRBiCwB?refresh_ce=1.
[11] D. Longhin, “Pasini: “Il governo salvi l’ex Ilva, è strategica per l’industria italiana””, La Repubblica, 19/12/23, https://www.repubblica.it/economia/2023/12/19/news/intervista_ilva_taranto_pasini_ultime_notizie-421690322/.
[12] V. Franzese, “Lula vola in Cina”, Opinio Juris, 28/04/2023, https://www.opiniojuris.it/opinio/lula-vola-in-cina/.
[13]«Discurso do presidente da República, Luiz Inácio Lula da Silva, na cerimônia de posse da presidenta do Novo Banco de Desenvolvimento», 13/04/2023, https://www.gov.br/planalto/pt-br/acompanhe-o-planalto/discursos-e-pronunciamentos/2023/discurso-do-presidente-da-republica-luiz-inacio-lula-da-silva-na-cerimonia-de-posse-da-presidenta-do-novo-banco-de-desenvolvimento.
[14]P. Haski, «Da Pechino Lula rilancia un’alleanza alternativa all’occidente», Internazionale, 14/04/2023, https://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2023/04/14/lula-cina.
[15] “Palabras del Presidente Gustavo Petro en el encuentro bilateral con el Presidente de la República Federativa de Brasil, Luiz Inácio Lula da Silva, ‘Camino a la Cumbre Amazónica’”, 08/07/2023, https://petro.presidencia.gov.co/prensa/Paginas/Palabras-del-Presidente-Gustavo-Petro-en-el-encuentro-bilateral-con-el-Pres-230708.aspx.
[16] C. Bruno, “Ex Ilva, Urso: “Abbiamo ripreso in mano il destino siderurgico del Paese, possiamo vincere la sfida””, TGR, 12/03/24, https://www.rainews.it/tgr/puglia/video/2024/03/ex-ilva-ministro-imprese-adolfo-urso-allarme-aigi-casartigiani-su-indotto-autotrasportatori-0d076659-e389-43af-ba3e-0289906396d8.html.
Foto copertina: L’ex Ilva di Taranto come centro della geopolitica dell’acciaio.