La parabola del “Too big to fail” per spiegare la “questione Ilva” di Taranto.
A cura di Valentina Franzese
Una città bloccata nella trappola dell’acciaio a tutti i costi
“Ilva is a killer”: così recita uno degli slogan più noti e più presenti sui muri delle strade di Taranto e nei manifesti utilizzati durante i cortei.
L’Ilva, e quello che ne resta, è una fabbrica – ormai in stato di decadenza – che uccide e che ha ucciso per decenni. Uccide le persone – uomini, donne, bambini – indistintamente – ma anche sé stessa e tutta la politica che a lungo l’ha utilizzata come grimaldello per ottenere voti e consenso politico. Nell’ambito dei finanziamenti legati alla Cassa per il Mezzogiorno fu avvita la costruzione di quello che sarebbe diventato in futuro, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa[2].
La città di Taranto divenne la località prediletta, preferita ad altre città meridionali, per le sue aree pianeggianti e per la sua vicinanza al mare – posizione strategica per facilitare il trasporto, la spedizione e la ricezione dell’acciaio grezzo e dei laminato fabbricato – per l’abbondante disponibilità di riserve di acqua dolce, cave di calcare e di magnesio, e data l’elevata presenza di manodopera a basso costo. L’area prescelta per costruire l’imponente fabbricato[3] era, in precedenza, un’area agricola costiera, estesa per 528 ettari e prossima al porto e alla città. La realizzazione dell’impianto siderurgico comportò l’abbattimento di 40 mila alberi di ulivo[4], infliggendo la prima di una lunga serie di ferite che nel corso del tempo avrebbero riguardato il territorio jonico. Per risparmiare sul costo dei nastri trasportatori si scelse di costruire la zona di stoccaggio dei minerali (quella a maggiore impatto ambientale) a ridosso delle banchine di attracco delle navi e, di conseguenza, anche a ridosso del preesistente quartiere operaio Tamburi, un tempo il più salubre della città. Non mancò – da parte degli occhi più attenti – la volontà di segnalare la vana promessa di progresso e modernità che ricoprì la città, divenuta una sorta di agnello, da sacrificare sull’altere della produzione e dell’industrializzazione.
Già nel 1972, il giornalista Antonio Cederna, sulle colonne del Corriere della Sera parlò di Taranto come di un luogo in cui era in atto un «processo barbarico di industrializzazione»[5] e denunciò – con toni estremamente attuali – la condizione tarantina affermando che nella città: «un’industria a partecipazione statale, impone le proprie scelte, alla comunità […seguendo] un’industrializzazione che consoce solo se stessa, senza curarsi degli altri valori civili, sollecitata esclusivamente dal raggiungimento della produzione al minor costo e nelle maggiori quantità possibili, imponendo le proprie decisioni; […impedendo] che la città venga sottratta ad un destino subordinato e neo-coloniale […]. Qui sta il punto delle condizioni di vita a Taranto; quello che colpisce è la grettezza, la corta veduta […] che ha presieduto a Taranto come altrove, la politica per il Mezzogiorno. Bastava che, dei 2000 miliardi [di lire] investiti nell’industria, una percentuale venisse desinata alla soluzione dei problemi della città (traffico, verde pubblico, lotta all’inquinamento), per garantire ad essa un ambiente, una qualità di vita meno inumani dell’attuale. Invece per dirla in due parole, nemmeno un albero è stato piantato a difesa dei cittadini dei quartieri popolari affiancati dal centro siderurgico»[6].
I segnali della futura crisi ambientale c’erano già tutti, eppure non gli si diede peso (o non gli si volle dare peso) lasciando sedimentare nei decenni la situazione. Il quadro ambientale e sanitario, infatti, già di per sé preoccupante – basti pensare che l’area Jonica assieme ai limitrofi comuni di Crispiano, Massafra, Statte e Montemesola, in virtù di diversi studi condotti dall’OMS era stata definita “area ad alto rischio ambientale” – non fece che peggiorare con la privatizzazione dell’acciaieria negli anni ‘90. Come emergerà infatti nelle inchieste realizzate nell’ambito del processo “Ambiente Svenduto”: «in funzione dell’ottimizzazione dei costi e del profitto, la nuova gestione privata decise di sacrificare ulteriormente sia la tutela ambientale, che la sicurezza sul lavoro»[7].
Per tentare di limitare la dispersione di inquinanti cancerogeni come benzene, benzo(a)pirene, dibenzo-p-diossine e policlorodibenzofurani[8], l’azienda si dotò di: un sistema di abbattimento delle polveri attraverso cannoni nebulizzanti (fog cannon) e barriere frangivento. Entrambe le soluzioni, tuttavia, si rivelarono inefficaci; i fog cannon causarono un incremento dell’inquinamento acustico nel quartiere Tamburi e un ulteriore inquinamento delle falde acquifere (dato che i cumuli di minerale non erano impermeabilizzati).
Le barriere frangivento, invece, trattenendo soltanto le polveri pesanti, lasciavano passare il particolato (PM 10 e PM 2,5) molto più pericoloso per la salute, poiché in grado di infiltrarsi con maggiore facilità nei polmoni e nell’organismo[9].
Con il susseguirsi dei decenni, complici i vari passaggi di proprietà e l’assenso (silenzioso o palese) della politica locale e nazionale, la città è precipitata progressivamente in un pericoloso circolo vizioso. Da un lato, l’agglomerato industriale è stato lasciato libero di espandersi, inquinando impunemente; dall’altro, ci si è assuefatti all’idea che l’intera economia locale si reggesse sulle spalle del “gigante d’acciaio”.
Agendo in questo modo, si è annientata ogni possibile alternativa economica, facendo passare sottotraccia il messaggio che l’ambiente e il paesaggio cittadino non avessero valore. In questo modo, si è cementata la percezione che la sopravvivenza fosse possibile solo grazie alla monocultura dell’acciaio, istillando nella mente di molti tarantini, una sorta di “Sindrome di Stoccolma”, in virtù della quale si è deciso, a lungo, di chiudere gli occhi anche di fronte all’evidenza dei dati scientifici, etichettando spesso diversi rappresentanti di associazioni cittadine come “esaltati” o “fanatici”. Figlie di questa mentalità pronta a sacrificare sull’altare della produzione industriale la salute, sono suonate le recenti dichiarazioni dell’arcivescovo di Taranto, Ciro Miniero: «Non c’è alternativa a quella fabbrica a Taranto. La chiusura sarebbe veramente una catastrofe, che significherebbe non pensare al bene di una comunità che è stata formata a questo»[10]. Si tratta di affermazioni che, oltre a causare particolare scalpore e amarezza tra i cittadini tarantini, sono sembrate quasi uno schiaffo, dato in pieno volto, a tutti coloro che per anni si sono battuti per una riconversione ambientale e mentale a Taranto.
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Cosa vuol dire nascere e vivere nella città del “mostro”?
Cosa vuol dire nascere e vivere nella città del “mostro”, Taranto? È una domanda che, da giovane donna tarantina, mi sono posta tante volte quando ho provato a raccontare, a quanti non conoscono questa città con tutte le sue storture e brutture, cosa significa vivere qui. Nascere e vivere a Taranto significa, innanzitutto, essere quasi assuefatti, abituati – e sembra paradossale dirlo – alla morte, al dolore, alla sofferenza, alla malattia. Non è infrequente che nelle famiglie tarantine si registri uno, troppo spesso anche più di uno, casi di tumore. Cancro ai polmoni, al cervello, al seno, al fegato, ai testicoli, alla gola e all’esofago; leucemie – fulminanti, linfoblastiche, acute e croniche -; mielomi; linfomi – Hodgkin e non Hodgkin – sono soltanto alcune delle patologie più diffuse, e molto spesso causa di decessi, in città. A confermarlo lo Studio Sentieri[11] che, nella sua versione aggiornata e pubblicata il 23 febbraio 2023 dall’Istituto Superiore di Sanità, fotografa una situazione altamente preoccupante. I dati raccolti nel report e relativi all’incidenza dei tumori nel sito di Taranto, mostrano per gli uomini un eccesso, rispetto al resto della provincia, del 30% per tutti i tumori e, in particolare: del 50% per il tumore maligno del polmone, più del 100% per il mesotelioma e per i tumori maligni del rene e delle altre vie urinarie, superiore al 30% per il tumore della vescica e per i tumori della testa e del collo, del 40% per il tumore maligno del fegato, del 60% per il linfoma non Hodgkin; superiore al 20% è l’incidenza del tumore maligno del colon-retto e del tumore della prostata. Si registra, inoltre, un incidenza superiore al 90% per il melanoma cutaneo. Per le donne residenti nei comuni di Taranto e Statte, sempre a confronto con il resto della provincia, è stato rilevato un eccesso di incidenza per tutti i tumori di circa il 20%. Sono presenti, nello specifico, eccessi per una serie di tumori maligni: della mammella pari al 24%, del corpo dell’utero con percentuali superiori all’80%; del polmone 48%; del colon-retto 21%; del fegato 75%; del linfoma non Hodgkin 43% e dello stomaco superiore al 100%.
Una parentesi a parte la meriterebbe l’aspetto relativo alla salute dei bambini. Sono purtroppo tante, tantissime, le giovani vite spezzate via per sempre con tutto il loro carico di sogni, speranze e aspettative per il futuro. Lorenzo Zaratta – deceduto a 5 anni per un tumore al cervello diagnosticato a soli 3 mesi di vita -; Giorgio Di Ponzio – scomparso a 15 anni per un sarcoma ai tessuti molli –; Alessandro Rebuzzi – deceduto a 16 anni di fibrosi cistica -; Siria Santisi – scomparsa a 4 anni per un neuroblastoma -; Ambra Friolo – 6 anni, morta di leucemia – sono soltanto alcuni dei nomi dei piccoli tarantini deceduti per malattie connesse all’inquinamento. Come ha evidenziato anche l’Associazione Culturale Pediatri, lo Studio Sentieri documenta un eccesso di malformazioni congenite nei bambini, un eccesso di bambine ricoverate per tumori maligni e tumori del sistema nervoso e un eccesso di leucemie mieloidi e linfoidi sia tra le bambine che tra i bambini.
Quando la “Signora Morte” non bussa alla porta a causa di una malattia, lo fa a causa di un incidente sul lavoro, molto spesso mortale. L’impianto siderurgico è finito più volte sotto la lente d’ingrandimento di giornali e tribunali, oltre che per le sostanze nocive emesse, anche per il suo essere fatiscente e obsoleto. La fabbrica, ad oggi simile a un gigantesco groviglio di ferraglia arrugginita, nelle giornate più piovose e ventose è in grado di diventare un’immensa trappola mortale, un killer, letale per gli operai dell’indotto impiegati al suo interno. Molteplici sono, e continuano ad essere gli incidenti, più o meno gravi. Tra i più tristemente noti abbiamo: Francesco Zaccaria, gruista di 29 anni deceduto nel novembre 2018. Quando un urgano violentissimo si abbatté sulla città, Zaccaria si trovava ancora nella cabina della gru al molo Sant’Eligio: il suo compito era scaricare le materie prime da una nave attraccata. Già da diverse ore le fitte nubi grigie annunciavano la tempesta in arrivo, il mare si era fatto grosso, tanto da rompere gli ormeggi di un’altra imbarcazione. Nonostante ciò Zaccaria e suoi colleghi erano rimasti nelle loro cabine di manovra, a 60 metri di altezza, nel bel mezzo della tempesta. Lo fecero perché, sebbene il manuale operativo prevedesse altro, nell’Ilva dei Riva non si doveva in alcun modo perdere tempo: bisognava produrre, incessantemente. Nel corso del processo “Ambiente Svenduto” i colleghi sopravvissuti a Zaccaria racconteranno: «I gruisti dovevano rimanere sempre sulla gru e quando l’intensità del vento diminuiva dovevano essere pronti a proseguire con la discarica: scendere da una gru alta 40-50 metri ogni volta, e poi risalire, avrebbe comportato una perdita di tempo per l’azienda. Per questo si rimaneva lì cosicché, appena il vento si fosse calmato si sarebbe potuta garantire continuità alla produzione»[12].
Nel luglio del 2019, un nuovo tornado costò la vita a Cosimo Massaro, gruista di 38 anni. Anche in questo caso, in maniera simile al precedente, la violentissima tromba d’aria causò la rottura del macchinario che precipitò in mare trascinando via, oltre alla pesante struttura, anche l’operaio che stava lavorando al suo interno. Anche in questo caso Massaro si trovava in cima alla gru – in esercizio da oltre trent’anni e in pessimo stato di conservazione – per occuparsi della gestione e dell’attracco delle materie prime necessarie alla produzione industriale. Anche in questo caso le parole chiave erano “produttività” e “abbattimento dei costi”. L’unica cosa ad essere cambiata era la gestione: l’incidente di Massaro è avvenuto sotto la gestione ArcelorMittal. Tra le vittime di incidenti sul lavoro all’interno dell’impianto siderurgico abbiamo tra i tanti, Alessandro Morricella, 35 anni, arso vivo da una colata di ghisa incandescente nel giugno 2015 proprio in uno dei reparti dell’area a caldo che, nel 2012, erano stati posti sotto sequestro dalla GIP Patrizia Todisco e riaperti grazie ad uno dei tanti “Decreti Salva Ilva” con la scusa dell’interesse strategico nazionale. Deceduto dopo quattro giorni di agonia e dolore, Alessandro Morricella aveva ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo e il cervello pieno d’acqua.
Alla giornalista Valentina Petrini, la moglie di Morricella racconterà: «Mi hanno detto che è stato colpito mentre misurava la temperatura della ghisa manualmente dal foro di colata. Una procedura che faceva da 13 anni, ma quella sera all’improvviso è stato investito da una bomba di oltre 1.500 gradi. Come se gli fosse caduta una secchiata di lava bollente in testa»[13].
Nascere e crescere a Taranto significa anche sentirsi perennemente cittadini di “serie B”. Cittadini italiani, costantemente dimenticati e bistrattati dalla politica locale e dai Governi nazionali, di tutti i colori politici, che ci utilizzano e ci hanno utilizzato come bacino per raccogliere voti e consenso, e ci risputano via non appena non serviamo più. Non si tratta di un falso vittimismo, ma del frutto di una grave condizione di abbandono e disinteresse sedimentatasi nel corso degli anni. Sempre più spesso è forte la sensazione, anche fra chi fa parte dell’ampia costellazione di associazioni ambientaliste operative a Taranto e provincia, che la “Questione Ilva”, il “Caso Ilva”, non riesca ad avere alcun tipo di risonanza al di fuori dei confini regionali e che le proteste, i cortei, le fiaccolate dedicate alle numerose vittime dell’inquinamento siano soltanto delle mere parentesi commemorative destinate a cadere nel vuoto e a restare inascoltate, senza produrre alcun tipo di eco. Sentirsi cittadini di “serie B” significa anche sentirsi perennemente sotto ricatto, perennemente condannati, quasi si fosse bloccati in un girone dantesco, a scegliere tra salute – la nostra e di chi sta accanto – e lavoro. Ciò nel segno di un ricatto morale e decennale che, oltre ad aver spaccato la società tarantina i due parti, costringe ad una scelta tra due diritti umani fondamentali: il diritto alla vita e il diritto al lavoro.
Taranto: un caso tutto italiano di razzismo ambientale
La primissima volta in cui mi è capitato di sentir parlare di “razzismo ambientale” è stato ascoltando il professor Alessandro Marescotti durante un incontro pubblico. Marescotti oltre ad essere il fondatore e presidente dell’associazione Peacelink[14], è da sempre in prima linea nella lotta al siderurgico. È anche, e soprattutto, merito della perseveranza di Marescotti e delle sue quotidiane denunce, se la magistratura è intervenuta sulla questione inquinamento attraverso il processo per disastro ambientale denominato “Ambiente Svenduto”; o se è stata interpellata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia nel gennaio 2019, ravvisando una violazione del diritto alla vita privata (art. 8 Cedu) e del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu) ai danni di oltre 160 abitanti nelle aree limitrofe agli stabilimenti dell’acciaieria[15]. È a Robert Bullard, “padre” della giustizia ambientale, che si deve l’elaborazione del concetto di “razzismo ambientale”. Si tratta di una dinamica che «si riferisce a qualsiasi politica, pratica o direttiva, che svantaggia o colpisce, in modo diverso (intenzionale o meno), individui, gruppi o comunità, in base alla razza o al colore. Include anche pratiche di esclusione e restrizione che limitano la partecipazione delle persone di colore a comitati decisionali, commissioni e organismi di regolamentazione. Il razzismo ambientale è rafforzato da istituzioni governative, legali, economiche, politiche e militari; e combinandosi con pratiche industriali, fornisce benefici ai bianchi, scaricando i costi sulle persone di colore. In questo modo le disuguaglianze sociali preesistenti, si vengono ad esasperare»[16].
Al 1982 va, invece, fatta risalire la nascita del Movimento per la Giustizia Ambientale, sorto dopo le proteste nella contea rurale di Warren (North Carolina). Lì la comunità afroamericana di Afton, costituì la prima embrionale mobilitazione pubblica contro una situazione di razzismo ambientale a seguito della futura costruzione di un sito di smaltimento per policlorurato di difenile (PCB). Le proteste innescheranno lo svolgimento di uno studio del General Accounting Office sull’ubicazione delle discariche di rifiuti pericolosi e la loro correlazione con lo status economico e razziale delle comunità vicine. Parallelamente, la Commissione per la Giustizia Razziale della United Church of Christ produsse nel 1987 il primo studio volto ad analizzare la correlazione tra collocazione delle strutture di smaltimento, e caratteristiche demografiche. In questo modo si evidenziò una realtà molto preoccupante «più della metà della popolazione degli Stati Uniti [vive] in aree di residenza locali limitrofe a uno o più siti tossici non protetti». Ma non solo, il rapporto fece notare che «su 5 afro o ispano – americani, 3 vivono in comunità limitrofe a siti tossici non protetti». Venne inoltre precisato che, la correlazione non era imputabile ad un nesso di casualità, quanto piuttosto a scelte economico – politiche, sistematiche e mirate. I rilevi fatti hanno infatti provato che «rispetto ad altri fattori analizzati, la razza [è] un fattore di gran lunga predominante nella collocazione degli impianti per lo smaltimento di rifiuti tossici commerciali. […] Le associazioni statistiche tra la razza e la collocazione di questi impianti, si sono dimostrate più consistenti delle altre associazioni testate. La probabilità che si tratti di un’associazione puramente casuale è meno di una su diecimila»[17]. Sulla base della definizione fornita da Bullard, e dei casi analizzati negli Stati Uniti, è possibile ravvedere una similitudine con la realtà tarantina; qui il razzismo ambientale trascende la “linea del colore” assumendo i tratti di una vera e propria ghettizzazione, generando una profonda spaccatura sociale. La storia della contea afroamericana di Afton sembra molto simile alla storia degli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto. Qui, intere abitazioni adiacenti al siderurgico (e non solo[18]) registrano un’esposizione alle polveri minerali stoccate, pari a 250 grammi annui per metro quadro. Oltre il muro di recinzione della fabbrica «parchi giochi, case, scuole, balconi, il bucato steso, perfino i piedi dei bambini, sono imbevuti di una patina nerastra. Un’ordinanza del Sindaco della città ha persino vietato ai bambini di giocare nelle aree verdi, perché il terreno è contaminato da piombo, PCB, berillio e metalli tossici soggetti al bioaccumulo come mercurio, nichel e cadmio.
La medesima contaminazione riguarda il cimitero limitrofo, qui il minerale ricopre cappelle, tombe, statue e croci e non è possibile seppellire e disseppellire i morti sotto terra, a causa delle condizioni altamente tossiche del terreno»[19]. Dal 2012, inoltre, in virtù di un ordinanza regionale, sono in atto i cosiddetti Wind Days: giornate caratterizzate da particolari condizioni meteorologiche (venti intensi di provenienza Nord e Ovest, assenza di precipitazioni) che determinano un impatto negativo sulla qualità dell’aria, trasportando le polveri connesse al ciclo siderurgico e quelle legate all’erosione dei parchi minerali e dei cumuli di rifiuti speciali non coperti, in particolare PM10 e benzo(a)pirene[20]. In ottemperanza a queste giornate gli abitanti sono stati invitati a: chiudere tutte le finestre in mattinata ed arieggiare gli ambienti chiusi fra le ore 12 e le 18[21]; limitare attività fisica o sportiva all’aperto nelle aree attigue la zona industriale. Tutto ciò in particolar modo per i soggetti più fragili e vulnerabili affetti da patologie cardiovascolari e respiratorie, nonché per anziani e bambini. Ad ulteriore conferma delle conseguenze di questa “ghettizzazione”, è arrivato lo studio pubblicato su Scientific Reports di Nature datato 10 maggio 2021[22], in cui sono stati evidenziati gli effetti neurotossici frutto dell’azione combinata di piombo[23] e arsenico: un mix colpevole di generare effetti deleteri sul quoziente intellettivo dei bambini che vivono a ridosso dell’ex Ilva. L’interazione tra arsenico (trovato nelle urine) e piombo (trovato nel sangue) sarebbe in grado di produrre maggiori disturbi del comportamento, rischi di autismo, ansia e depressione. Lo studio realizzato ha evidenziato che sul campione utilizzato – circa 300 bambini con un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni – i piccoli che vivono a ridosso del siderurgico hanno un quoziente intellettivo più basso rispetto ai coetanei residenti in altri quartieri.
A che punto siamo oggi? La “cattedrale nel deserto” va verso la chiusura?
L’espressione “cattedrale nel deserto” è spesso utilizzata, sia nel linguaggio giornalistico che in quello politico, per indicare quelle grandi e imponenti opere industriali realizzate, nella maggior parte dei casi a carico dello Stato, in zone che successivamente si rivelano inadatte e che, dopo qualche tempo, mostrano la propria incapacità di produrre benefici e benessere per la popolazione vicina al sito industriale diventando, per l’appunto, delle cattedrali nel deserto. Ad oggi, l’impianto siderurgico di Taranto si avvicina sempre più a questa definizione; è un “morto che cammina” tenuto in piedi con “colla e scotch”, ovvero a suon di rifinanziamenti e sostegni statali. L’abbandono di ArcelorMittal e la contemporanea assenza di investitori privati, per nulla desiderosi di immettere capitale su un impianto decadente e in perdita, parrebbe aprire la strada al commissariamento.
Alessandro Marescotti, ha tuttavia messo in evidenza tutta la vacuità e l’inconsistenza di tale prospettiva: «Il commissariamento è una soluzione provvisoria di emergenza, che tenta di stabilizzare una situazione senza sbocco. Dubito che ci sia un investitore privato interessato, anche perché l’azienda è in perdita e ha debiti commerciali pari a 1,4 miliardi, con bollette del gas non pagate da molto tempo. E per di più, con una compromissione della salute pubblica così rilevante da aver spinto la Magistratura a muoversi. La nazionalizzazione, al contempo, non è percorribile perché si tratterebbe di aiuti di Stato, vietati dall’Unione Europea. La soluzione è senza uscita, occorre un piano B di riconversione». Il presidente di Peacelink ha inoltre aggiunto: «Quello stabilimento, se non produce otto milioni di tonnellate di acciaio all’anno, non va in pareggio. Ma raggiungere quei livelli di produzione implicherebbe danni alla salute ancora più gravi di quelli che sta causando adesso»[24]. Al contempo, anche il piano per avviare la città jonica verso una fantomatica “Ambientalizzazione” si è rivelato più che mai fallimentare. Dall’elaborazione storica sui dati di benzene rilevati negli ultimi 8 anni dalla centralina più vicina allo stabilimento e gestita da Arpa Puglia (Via Orsini, quartiere Tamburi), emerge il consistente aumento della concentrazione della sostanza chimica, collegata secondo ArcelorMittal alle emissioni fuggitive della cookeria. Inoltre, l’aggiornamento dei calcoli al 31 dicembre 2023 rende ancora più evidente l’andamento crescente della concentrazione del benzene nel quartiere Tamburi di Taranto. Noto per la sua tossicità, il benzene è stato classificato dall’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (International Agency for Research on Cancer, IARC) come una sostanza del gruppo 1, ovvero come una sostanze cancerogena per l’uomo. All’esposizione al benzene è, infatti, associata l’insorgenza di leucemie, linfomi non Hodgkin e patologie a carico dei polmoni.
A fronte di tali dati può dirsi, pertanto, fallita la cosiddetta “ambientalizzazione” dell’ILVA. «La parola ambientalizzazione – ed è proprio Marescotti a dichiararlo in un comunicato alla stampa – è un termine che abbiamo sempre contestato perché non esiste sul dizionario di italiano ed è stato creato appositamente per gestire linguisticamente il conflitto ambientale dell’ILVA. Hanno cambiato i nomi perché le parole si trasformano in pensieri. Le parole cambiano la nostra percezione delle cose. E la parola “ambientalizzazione” serviva a sostituire la parola “inquinamento”. Oggi possiamo dire che la parola ambientalizzazione ha cercato di “camuffare” l’ILVA per renderla accettabile. Ma anche la parola “ambientalizzazione” si è usurata di fronte all’evidenza dei dati statistici ed è diventata sinonimo di “fallimento”. Di fronte a questo fallimento anche i sindacati dei lavoratori ILVA ora ammettono un aumento dell’inquinamento per carenze di manutenzione. La lunga marcia dell’ambientalizzazione si è conclusa con un bluff»[26].
Note
[1] Originariamente di proprietà statale sotto il nome di “Italsider”, l’impianto è passato sotto la gestione di diversi proprietari, complici: l’andamento ciclico del prezzo dell’acciaio, il fallimento dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) e le numerose problematiche giudiziarie. Nel 1995 il siderurgico è stato privatizzato passando sotto il controllo del gruppo Riva con il nome di “Ilva Spa”; nel novembre 2018 è diventato “ArcerolMittal”, venendo rilevata della compagnia franco-lussemburghese omonima. Come in un vorticoso e confusionario “ritorno alle origini”, l’impianto è ritornato sotto parziale controllo statale con il nome di “Acciaierie d’Italia” grazie all’accordo stipulato tra la compagnia ArecerolMittal e la società partecipata Invitalia.
[2] Lo stabilimento è grande 15 milioni di metri quadrati, più del doppio del centro urbano della città. Vede sviluppati al suo interno: 190 km di nastri trasportatori, 50 km di strade e 200 di ferrovie. Dispone di: 6 banchine per l’attracco delle navi, 8 parchi minerali (ad oggi parzialmente coperti) collocati a 170 m dalla zona residenziale, 10 batterie per produrre il coke necessario ad alimentare il 5 altiforni e 215 camini industriali (tra cui svetta l’E312, alto ben 210 metri). Per maggiori approfondimenti si veda: B. Ruscio, Legami di ferro, Associazione Peacelink – Narcissus self publishing, aprile 2015.
[4] B. Ruscio, Legami di ferro…cit., p. 91.
[5] A. Cederna, “Taranto strangolata dal boom”, Corriere della Sera, 18/04/72. Consultabile al link: http://www.archiviocederna.it/pdf//articoli/684/00684_07_001.pdf.
[6] A. Cederna, “Taranto in balia dell’Italsider”, Corriere della Sera, 13/04/72. Consultabile al link: http://www.archiviocederna.it/pdf//articoli/684/00684_06_001.pdf.
[7] R. Giannì e A. Migliaccio, “Taranto oltre la crisi”, in Meridiana, 2016, No. 85, AREE DEINDUSTRIALIZZATE (2016), p. 163.
[8] Sostanze definite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come altamente tossiche, capaci di causare problemi di riproduzione e sviluppo, danni al sistema immunitario, interferenze con il complesso ormonale e causare tumori. Ma non solo, queste sostanze soggette al bioaccumulo sono anche mutagene: l’esposizione dell’uomo ad esse può determinare l’insorgenza di alterazioni genetiche ereditarie.
[9] B. Ruscio, Legami di ferro…cit., pp. 100 – 103.
[10] C. Testa, “Ex Ilva, interviene l’Arcivescovo di Taranto: «Siamo stati lasciati soli, servono risposte chiare e definitive»”, Il Corriere del Mezzogiorno, 9/01/24, https://bari.corriere.it/notizie/cronaca/24_gennaio_09/ex-ilva-interviene-l-arcivescovo-taranto-siamo-stati-lasciati-soli-servono-risposte-chiare-e-definitive-ca57b1a2-f802-483c-90c0-7a54e277axlk.shtml?refresh_ce.
[11] SENTIERI – Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento. Sesto Rapporto, https://epiprev.it/pubblicazioni/sentieri-studio-epidemiologico-nazionale-dei-territori-e-degli-insediamenti-esposti-a-rischio-da-inquinamento-sesto-rapporto.
[12] F. Casula e A. Tundo, “Ilva, nella sentenza il racconto della morte di un operaio su una gru: “Con i Riva non si doveva perdere tempo, contava solo produrre””, Il Fatto Quotidiano, 1/12/22, https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/01/ilva-nella-sentenza-il-racconto-della-morte-di-un-operaio-su-una-gru-con-i-riva-non-si-doveva-perdere-tempo-contava-solo-produrre/6891783/.
[13] V. Petrini, “Taranto, storie tragedie e menzogne sull’Ilva. La storia di Alessandro Morricella”, Domani, 23/02/22, https://www.editorialedomani.it/fatti/taranto-storie-tragedie-e-menzogne-sullilva-la-storia-di-alessandro-morricella-irsesrok.
[14] https://www.peacelink.it/.
[15] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Causa Cordella e altri c. Italia, 24/01/19, https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-192164%22]}.
[16] R. D. Bullard., Environmental Justice in the 21st Century: Race Still Matters, in Phylon (1960-) , Autumn – Winter, 2001, Vol. 49, No. 3/4 (Autumn – Winter, 2001), pp. 160 – 161. [17]Commission for Racial Justice United Church of Christ, “Toxic waste and race in The United States : a national report on the racial and socio-economics characteristics of Communities with Hazardous Waste Sites”, consultabile al link: https://www.nrc.gov/docs/ML1310/ML13109A339.pdf
[18] L’intera area è esposta non solo all’attività dell’acciaieria, ma anche a numerose altre attività industriali a rischio elevato. A Taranto sono infatti presenti: una raffineria Eni, impianti Enel, cave e impianti estrattivi, due inceneritori, un impianto pubblico di smaltimento rifiuti e numerose aree industriali dismesse. Al centro di polemiche e proteste è il recente progetto Tempa Rossa, che prevede il trasporto del petrolio estratto nell’omonimo sito in Val D’Agri fino alla raffineria tarantina, suo terminale di esportazione, tramite una condotta lunga 136 km.
[19]B. Ruscio, Legami di ferro…cit., pp. 104 – 105.
[20] Per maggiori approfondimenti si veda: https://www.arpa.puglia.it/pagina2831_wind-days.html , https://www.peacelink.it/ecologia/a/46119.html e https://www.tarantosociale.org/tarantosociale/docs/5160.pdf.
[21] Nel dicembre 2020, complice la pandemia da Covid -19, si è verificato un vero e proprio paradosso: le finestre delle scuole del quartiere Tamburi dovevano essere chiuse da ordinanza regionale a causa del Wind Day, e contemporaneamente, aperte in virtù della normativa anti Covid – 19. Per maggiori approfondimenti si veda: https://www.tarantosociale.org/tarantosociale/a/48215.html.
[22] Per maggiori approfondimenti si veda: https://www.nature.com/articles/s41598-021-88969-z.
[23] La singola esposizione al piombo è in grado di produrre effetti pesantissimi sul corpo umano (danni ai reni, al sistema nervoso e al cervello). Oltre ai “più blandi” in caso di esposizione interrotta immediatamente, si possono avere effetti permanenti che a volte impiegano anni a manifestarsi. Il piombo , infatti, è in grado di “ingannare” il nostro organismo, che confondendolo con il calcio, lo immagazzina nelle ossa e nel cervello per decenni. Nei bambini i danni possono essere ancora più gravi, perché il piombo è in grado di arrestare la crescita del cervello durante la fase dello sviluppo, e dato che è trasmettibile al feto durante la gravidanza, sono possibili anche casi di neonati nati già malati, e dunque condannati. Tra le conseguenze della contaminazione da piombo abbiamo: calo dell’attenzione e della capacità di giudizio, difficoltà di apprendimento e incapacità a calcolare i rischi.
[24] E. Chillé, “Ex Ilva, Marescotti (PeaceLink): “Riconversione unica via”, TeleAmbiente, 18/01/24, https://www.teleambiente.it/ex-ilva-alessandro-marescotti-peacelink-video/?fbclid=IwAR001I5CX4zT5owk7YOxUiK2WMuf22t23fLNaJsqlKs8ywaT8TARA9CTXCQ.
[25] Trend del benzene a Taranto dal 2016 al 2023, Autore: Antonio Poggi, Fonte: Omniscope, https://www.peacelink.it/tarantosociale/a/49847.html.
[26] “È fallita la cosiddetta “ambientalizzazione” dell’ILVA”, Peacelink, 20/01/24, https://www.peacelink.it/ecologia/a/49848.html.
Foto copertina: Striscione portato in testa alla fiaccolata del febbraio 2019, organizzata dall’associazione Genitori Tarantini, dedicata ai bambini e a tutte le vittime dell’inquinamento causato dall’Ilva, https://www.grottaglieinrete.it/it/tutto-lacciaio-del-mondo-non-vale-la-vita-di-un-solo-bambino-grande-partecipazione-a-taranto/. Ilva