Nella contemporaneità, quanto nel breve futuro, assisteremo, probabilmente, ad una sempre maggiore divisione in blocchi. Intervista a Simone Pieranni riguardo le relazioni tra Cina e Iran
Decoupling tecnologico e non solo
Come ben racconta Alessandro Aresu all’interno del suo ultimo libro (Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologica, Feltrinelli, 2022. Acquista qui), nella contemporaneità assistiamo ad un sempre maggiore grado di decoupling tecnologico tra Occidente e Cina. Tuttavia, interpretare la costruzione di nuovi modelli di sviluppo di architetture tecnologiche come risultanti della sola ascesa del dragone risulterebbe essere un’attività miope. Lo scontro tra l’Ordine costituito e la potenza emergente possiede radici ben più profonde ed estese di quanto sia dato conoscere dopo un’analisi superficiale che non preveda una visione tutto campo, proprio come Aresu rende noto.
Entrando più nel vivo della nuova architettura globale, oggi in via di modificazione e definizione, si può notare come questa stia trovando comburente tanto nel disaccoppiamento tecnologico che in allontanamenti di altra natura. Deve essere inoltre tenuto conto di come questo decoupling venga avanzato, di pari passo, sia dagli attuali reazionari dell’ordine costituito che dei rivoluzionari dello stesso. Le due visioni contrapposte riguardo il mondo che sarà spinge i due poli a respingersi in direzioni contrapposte, fattore che favorisce un aumento dell’inconoscibilità dell’assetto che verrà. Nonostante tali imprevedibilità la crescita del modello cinese odierno rappresenta, per i Paesi finora ai margini della comunità internazionale, un’opportunità di rivalsa e di nuove ambizioni. Pechino sta avanzando nuovi modelli internazionali di cooperazione, come la Shanghai Cooperation Organization, ai quali si aggiungono nuovi Istituti finanziari dediti all’allargamento delle capacità di penetrazione cinese sia nel settore dei prestiti che in quello della ristrutturazione finanziaria globale. Tuttavia, il caso più emblematico del disaccoppiamento risiederebbe nella costruzione di una nuova architettura del commercio, la Belt and Road Initiative, che restituirebbe un ridimensionamento della forza degli Stati Talassocratici a favore dei Paesi continentali senza sbocco sui mari ma nei quali passerebbe l’infrastruttura commerciale.
Nonostante la vasta serie di iniziative ed il sempre maggiore grado di coinvolgimento cinese all’interno di contesti pragmaticamente marginali per l’emisfero occidentale, le iniziative dovrebbero essere analizzate con cautela, caso per caso, in quanto Pechino seppur probabilmente disposta a giocarsi il tutto per tutto ai fini del raggiungimento della sua ascesa – perlomeno in termini di crescita e di benessere interno – non si ritiene sia disposta a condividere gratuitamente nulla del suo personale successo, nemmeno agli attori che si potrebbero dimostrare gli alleati più utili. Ogni sforzo della Repubblica Popolare è ponderato e misurato in corrispondenza delle rispettive opportunità.
All’interno di questo complicato scenario internazionale si posizionano le crescenti relazioni tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica Islamica dell’Iran. Due Paesi che giovano l’un l’altro di una sempre più forte vicinanza economico-diplomatica e che posseggono interessi di sviluppo infrastrutturali comuni racchiusi nel progetto della Belt and Road Initiative. Tuttavia, le diverse capacità di potenza in termini assoluti restituisce un posizionamento su livelli differenti delle capacità di richiesta e di resa in sede negoziale. Abbiamo dialogato con il sinologo Simone Pieranni riguardo il futuro delle relazioni tra i due Paesi per carcere risposte ad alcune domande.
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Intervista a Simone Pieranni
Quali ritiene siano stati i principali interessi della Repubblica Popolare Cinese verso il Medio Oriente nel corso degli ultimi dieci anni, in particolare nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran? Crede possano subire modificazioni nel corso del prossimo quinquennio? Crede possano avvenire anche nell’ambito di quanto concordato nella Shanghai Cooperation Organization, coinvolgendo aspetti militari? «Credo siano interessi politici ed economici anche se a mio avviso la Cina sta utilizzando l’Iran più che dare qualcosa in cambio. Da un punto di vista politico il supporto all’Iran è in chiara chiave antiamericana e antioccidentale, a Pechino fa gioco una potenza regionale “amica” con cui condivide la stessa impostazione “anti-occidentale”. Da un punto di vista economico l’Iran è ancora oggi un mercato dove la Cina riversa la sua manifattura, sia di basso livello sia di alto livello: auto, ad esempio, e tecnologia di sorveglianza. Per il resto, a livello di investimenti, credo che al momento la Cina abbia detto molto ma fatto poco anche perché la sua policy è uguale ovunque: agli investimenti seguono aziende e personale cinese. Sullo SCO andrei molto cauto: l’adesione iraniana è significativa ma lo SCO è una organizzazione più di dibattito che di decisioni effettive, di pratico ha prodotto poco. In più l’ingresso dell’Iran sarà finalizzato nei prossimi anni e soprattutto come osservatori ci sono anche Arabia Saudita e Qatar. Ecco credo che il recente avvicinamento di Pechino a Riyadh sia un segnale preoccupante per l’Iran, che dice una cosa: la Cina non vuole avere partner privilegiati nell’area.»
Tenuto conto dei gravi attentati ai Diritti umani di cui il Governo iraniano si sta attualmente macchiando e visto anche il permanere delle sanzioni americane e del loro ritiro unilaterale dal JCPOA, qual è, a suo parere, il significato della insistenza cinese nel garantire massicci investimenti all’Iran, come testimonia firma del piano venticinquennale siglata dal Min. Wang Yi nel marzo 2021. In quali settori ritiene questi investimenti andranno ad impattare maggiormente in Iran nel rispetto degli interessi di Pechino?
«Che io sappia ad ora dei 400 miliardi di investimenti promessi nell’accordo di 25 anni, in cambio di regolare forniture di petrolio, non si è ancora visto granché. Dovrebbero impattare i settori bancari, della sanità, delle tecnologie e prevedono anche una cooperazione militare più corposa, fatta di esercitazioni e scambi di intelligence. Al momento però sembra che ancora non si sia concretizzato niente. Io credo che al momento il settore più importante per Pechino sia quello tecnologico: con i blocchi e le sanzioni americane Pechino ha bisogno di nuovi mercati dove sperimentare e vendere la propria tecnologia.»
Riprendendo l’analisi di Liang Qiao in “L’arco dell’Impero”, riguardo l’utilizzo di nuove valute in contrapposizione all’egemonia del Dollaro americano, in considerazione dei risvolti della guerra russo – ucraina e del crescente ruolo economico cinese, ritiene che il Renminbi possa assumere un ruolo di primordine nella politica internazionale e che questo rientri negli obbiettivi dell’attuale politica estera cinese?
«L’internazionalizzazione dello Yuan è il vero obiettivo della leadership cinese. La BRI e tanti accordi presi di recente, compresi quelli con l’Arabia Saudita, puntano proprio a quello, a scardinare il sistema internazionale basato sul dollaro. Che poi ci riescano è impossibile dirlo adesso, ma di sicuro vogliono insistere. Il lancio dello Yuan digitale di ormai due anni fa, anche se ancora la moneta digitale non sta dando grandi risultati neanche in casa, rimane una milestones di questo processo. E la Via della Seta come primo obiettivo, in realtà, ha proprio quello.»
Ritiene che i corridoi della BRI Cina-Asia centrale-Asia occidentale e Cina-Pakistan possano essere intesi quali scappatoie qualora si verificasse un’ipotetica chiusura degli stretti di Malacca da parte di alleanze oppositrici come AUKUS?
«Sì, anche la cosiddetta Via della seta polare mira proprio a quello, cioè eliminare le insidie geopolitiche di Malacca e Suez. Possiamo osservare una cosa: in questo momento si parla molto di decoupling tecnologico, la Cina è profondamente contraria. Ma in realtà da molto tempo Pechino lavora a “un’alternativa” all’ordine mondiale statunitense, è in realtà la prima potenza ad avere pensato a una riduzione della globalizzazione a “regionalizzazione”. La Via della seta sia a livello di infrastrutture, sia a livello finanziario, tramite la banca e il fondo finanziario, punta anche a questo: a creare un mondo alternativo a quello a guida americana.»
Foto copertina: © FATEMEH BAHRAMI / ANADOLU AGENCY / ANADOLU AGENCY VIA AFP
– Il ministro degli Esteri della Cina Wang Yi e l’omologo dell’Iran Mohammad Javad Zarif