Per approfondire l’evoluzione storica di Taiwan e il suo ruolo nell’attuale panorama geopolitico mondiale, abbiamo intervistato Stefano Pelaggi, autore del volume “L’isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo” (Luiss University Press, 2022).
Gli equilibri del mondo si sono spostati verso est. Le grandi potenze – gli Stati Uniti in primis – guardano all’Indo-Pacifico, ed in particolare ad una piccola isola esempio di stabilità democratica su cui per molti analisti si giocherà la partita del secolo tra i grandi attori geopolitici globali. Taiwan è infatti oggetti delle rivendicazioni cinesi nell’ottica di una (quasi imminente) riunificazione, bensì anche il fulcro degli interessi strategici degli Stati Uniti. Per approfondire l’evoluzione storica di Taiwan e il suo ruolo nell’attuale panorama geopolitico mondiale, abbiamo intervistato Stefano Pelaggi, autore del volume “L’isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo” Luiss University Press, 2022 (Acquista qui).
L’isola di “Formosa” – così battezzata dai Portoghesi – è stata soggetta a vari periodi di dominazione coloniale tanto da potenze europee, quanto da Paesi asiatici. Come si caratterizza un eventuale bilancio dell’esperienza coloniale giapponese? È possibile scorgere, nella Taiwan contemporanea, alcune tracce dell’eredità del periodo di dominazione di Tokyo?
“La dominazione coloniale giapponese è stata la prima colonizzazione di un paese asiatico. Il Giappone imperiale veniva Taiwan come una possibile provincia minore dell’impero giapponese. I giapponesi hanno trovato una società fortemente disarticolata, pertanto c’era l’intenzione di includere quest’isola e i suoi abitanti come una sorta di cittadini di secondo livello. Negli anni, dunque, quella giapponese è stata molto diversa rispetto ad altre esperienze coloniali, ad esempio quella tragica coreana, ma anche quella in Cina. Ad oggi si possono scorgere molte tracce della presenza giapponese a Taiwan: quando i giapponesi sono arrivati non c’era una lingua comune che si parlasse dell’isola. Tutti gli abitanti parlavano il giapponese, vestivano alla giapponese e c’è stato un forte imprinting, una forte spinta ad adottare modelli culturali appunto provenienti dal Giappone. Tuttora questo permane fortemente nella cultura di tutti i giorni: gli anziani hanno un approccio tutto sommato benevolo nei confronti di questo passato storico, e questo crea molte diffidenze e curiosità – ad esempio nei cittadini cinesi – rispetto a questo approccio tutto sommato positivo nel giudicare la dominazione coloniale giapponese dell’isola.”.
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Come è cambiata la situazione nell’isola con l’arrivo dei cinesi giunti dal continente al seguito del Kuomintang? E come era percepita la permanenza a Taiwan in attesa della riconquista della Cina?
“Negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, arrivano sull’isola circa un milione e mezzo di cinesi. Si trattava di soldati, funzionari amministrativi e profughi che scappavano dalla guerra civile che si era svolta che era tuttora in corso fra i comunisti di Mao e il Kuomintang, il partito nazionalista. Quando arrivarono nell’isola, questi cinesi non parlavano un’unica lingua, ma ognuno parlava un proprio diretto. Arrivando nell’isola ci fu un forte percorso di sinizzazione, quindi una forzata evidenza a riconvertire tutto quello che era stato appunto l’imprinting lasciato dalla cultura giapponese, ma anche gli stessi cinesi arrivati nell’isola reinventarono ciò che significava essere cinesi, perché appunto in quel momento essere civili significava a tantissime cose. Tutto questo milione e mezzo di persone arrivate dalla Cina che costituivano circa il 15% della popolazione dell’isola guardavano a Taiwan solo ed esclusivamente come posto di passaggio, solo ed esclusivamente un posto da cui poter riconquistare il continente cinese. Non si trattava esclusivamente di una questione ideologica o anticomunista, ma di una vera e propria questione esistenziale, ossia tutte queste persone hanno lasciato mogli, figli, genitori, famiglia, la propria casa, i propri averi sulla Cina continentale quindi il desiderio di riconquistare la Cina era qualche cosa che era insito proprio nel loro volere.”.
Come dimostrano le reazioni di Pechino alla visita di Nancy Pelosi a Taipei e le recenti vicende che hanno coinvolto la Lituania, la One China Policy – ovvero la politica dell’unica Cina – è un vincolo determinante per le relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese. Quali ripercussioni ha avuto tale politica sulle relazioni della comunità internazionale con Taipei e sul riconoscimento di Taiwan?
“Il principio dell’unica Cina ha ripercussioni enormi sulla proiezione di Taiwan nel mondo. Sin della fine del secondo conflitto mondiale due entità politiche rivendicavano il controllo dell’intero territorio cinese, ossia la Repubblica di Cina dall’isola di Taiwan, e la Repubblica popolare cinese da Pechino. Tutto quanto si complica enormemente alla fine degli anni 60, quando sempre più Paesi europei iniziano a riconoscere la Repubblica popolare cinese. In quel momento, ovviamente, bisogna decidere, quindi non ci possono essere due entità politiche che rivendicano la sovranità sullo stesso territorio. All’inizio degli anni 70, invece, inizia un percorso molto più articolato che porterà appunto l’ingresso di Pechino a New York, alle Nazioni Unite, una sorta di nuove relazioni con gli Stati Uniti, con Washington, che verranno in qualche modo bloccate dalle vicissitudini della Presidenza Nixon, che verranno riprese anni dopo, nel 79, con la Presidenza Carter, comunque da questo momento la One China Policy ossia questo elemento che determina come una sola entità politica possa avere possa essere riconosciuta come il legittimo governo della Cina determina in maniera molto forte il futuro di Taiwan. La cosa interessante rispetto alla One China Policy è che ogni attore ha una propria interpretazione. Gli Stati Uniti U prendono atto della rivendicazione cinese di essere il legittimo governo della Cina, ma non si esprimono rispetto a questa dichiarazione. Qualsiasi altro attore nazionale o anche sovranazionale ha una sua interpretazione simile ma mai uguale. Questo perché il complesso reticolato di compromessi che regolano le relazioni tra Taipei, Pechino e Washington sono più che altro costituite da una serie di compromessi semantici in cui il minimo comune denominatore è rappresentato dalla volontà di non perdere la faccia. Nessuno degli attori coinvolti può in qualche modo vedere le proprie aspirazioni negate. È l’unico caso a livello internazionali in cui un accordo, una legge, una policy contiene due diverse tentazioni rispetto all’interlocutore. È una situazione che complica in maniera enorme poi qualsiasi accordo, qualsiasi evoluzione rispetto a queste policy. Quindi si tratta di una sorta di compromesso semantico, oppure lo possiamo chiamare come accordo aperto.”.
È possibile individuare un momento specifico a cui far risalire l’inserimento della difesa di Taiwan tra le priorità strategiche degli Stati Uniti? A fronte delle più recenti dichiarazioni del Presidente Biden, a suo parere, gli USA potrebbero intervenire militarmente (o secondo altre modalità) a fianco di Taipei in caso di attacco cinese?
“Il sostegno statunitense nei confronti di Taiwan è stato sempre forte. È iniziato andando indietro con gli anni in maniera decisa con la guerra di Corea: in quel momento Washington comprende il pericolo dell’avanzata comunista dell’Asia-Pacifico e sceglie proprio Taiwan come l’avamposto della proiezione statunitense della regione. Una situazione che rimane più o meno invariata nei decenni successivi, che cambia, tuttavia, alla fine degli anni 70 e probabilmente all’inizio degli anni 80. Si inizia a percepire una sorta di fastidio per questa è dittatura proto-fascista in Asia, e mentre proprio stanno venendo meno le ragioni del sostegno statunitense avviene qualcosa a Taiwan, ossia un processo di democratizzazione che porterà ad un allineamento anche valoriale tra gli Stati Uniti e Taiwan. Negli ultimi anni questa relazione tra Washington e Taipei si è rafforzata. Gli Stati Uniti in tutti i policy paper negli ultimi 8 anni hanno chiaramente definito l’Indo-Pacifico o l’Asia orientale come il centro delle attenzioni economiche, strategiche, politiche di Washington, e Taiwan rappresenta un elemento essenziale per la proiezione statunitense nella regione. Rispetto a tutti gli elementi che abbiamo, che si tratta appunto di policy ufficiali degli USA, tutti questi documenti ci dicono che Washington è pronta a intervenire militarmente a fianco di Taipei in caso di attacco della Repubblica Popolare Cinese.”.
Quali sono le principali sfide in termini geografici e strategici a cui si andrebbe incontro nel caso in cui la Cina decidesse di mettere in atto la riunificazione con Taiwan, come ribadito nel corso dell’ultimo congresso del Partito comunista?
“La possibilità di un di un’invasione cinese a Taiwan sarebbe un atto veramente dirompente, sarebbe probabilmente l’evento più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale. Ci sono molti altri attori coinvolti, non solo Washington e Pechino. Pensiamo ad esempio al Giappone, alla Corea del Sud, ma anche l’Australia, la Gran Bretagna – che ha stretto un patto di alleanza importante con l’alleato statunitense e australiano. Le conseguenze potrebbero veramente essere impensabili. Bisogna anche distinguere quelli che sono gli elementi di propaganda rivolti principalmente all’interno, nelle parole della leadership del partito comunista cinese rispetto a un processo di unificazione con Taiwan. Le possibilità di invasione dell’isola principale di Taiwan da parte dell’esercito cinese ad oggi non sono plausibili perché non c’è una capacità strategica tale da consentire un’invasione dell’isola. Queste capacità potrebbero essere raggiunte nel giro di pochi anni, ma comunque le conseguenze a livello geopolitico sarebbero veramente enormi e in particolar modo bisogna considerare quella che è l’interconnessione economica della Repubblica popolare cinese con le filiere del valore globale. Quindi un evento del genere rischierebbe veramente di relegare le esportazioni cinesi che sono fondamentali per Pechino rendendo l’elemento della proiezione economica cinese molto fragile.”.
Formosa oggi è la ventitreesima economia mondiale per Pil complessivo, la maggior parte dei semiconduttori alla base degli apparecchi elettronici sono di produzione taiwanese e più di un terzo degli scambi globali passa per lo stretto di Taiwan – di importanza strategico-commerciale tale da essere definito “il campo di battaglia definitivo del XXI secolo”. A cosa si deve il miracolo asiatico di Taiwan e qual è stato il ruolo del contesto culturale in esso?
“Il miracolo asiatico di Taiwan e il ruolo del contesto culturale sono anche legati al peculiare mosaico etnico dell’isola. Abbiamo parlato dell’arrivo di un milione e mezzo di cinesi al seguito dei i nazionalisti del Kuomintang: questo gruppo avvio una sorta di processo coloniale all’interno dell’isola, ossia ci fu un processo di sinizzazione ma anche una vera e propria legge marziale e di fatto la popolazione autoctona furono esclusi da tutta una serie di carriere: qualsiasi carriera di funzionario amministrativo, qualsiasi carriera nell’esercito fu di fatto esclusa alle persone nate nell’isola. Quindi l’unica modalità di concorrere, di evolversi, era quella di impegnarsi nell’industria e nel commercio. Le industrie taiwanesi iniziarono a fine degli anni 50 -60 iniziarono a produrre quei manufatti di plastica economica che di fatto invasero il mondo e pian piano, con un intervento statale che favorì i grossi investimenti in particolar modo nell’industria dei semiconduttori, l’isola si trasformò nel principale produttore di semiconduttori ma anche in uno dei più grandi produttori di apparati elettronici ed informatici. Quindi si tratta di un miracolo dovuto ad una grande e lungimirante programmazione statale che si è soffermata sull’elemento della filiera, quindi sulle fonderie semiconduttori, qualche cosa che gli altri Paesi e le altre aziende non volevano fare. Quando tutti quanti si concentravano sulla programmazione dei chip, a Taiwan rimanevano restavano a produrre materialmente questi chip, che è la fase, un po’ meno gratificante a livello economico anche perché 10 -15 anni fa si pensava che in qualche modo la legge di Moore, quella legge che ci dice che la velocità dei microprocessori continui ad evolvere in maniera costante fosse in qualche modo superata. Si pensava che non avremmo avuto bisogno in maniera continuativa di chip così veloci.
Le applicazioni dell’elettronica in campo strategico – e lo vediamo con i droni in Ucraina – ma anche di cellulari, 5 G, la continua espansione della necessità di macchinari, apparecchi sempre più performanti hanno contraddetto questo pensiero, quindi noi abbiamo bisogno di chip sempre più veloci. Le aziende Taiwanesi sono le uniche che hanno continuato ad investire fortemente nelle fonderie di semiconduttori, e adesso c’è un vantaggio tecnologico che è praticamente impossibile da colmare. Ci hanno provato le aziende cinesi e non ci sono riuscite, le altre aziende mondiali in Corea e negli Stati Uniti riescono a tenere il passo, ma comunque la filiera dei semiconduttori taiwanesi per almeno i prossimi 15- 20 anni avrà il primato totale della produzione. Si tratta di un elemento molto importante, perché non parliamo solo di una valenza economica o tecnologica, ma parliamo di un evento strategico: con quei chip, con quei semiconduttori andiamo nello spazio, facciamo la guerra e costruiamo tutti quegli apparecchi di sorveglianza che si rivelano indispensabili per la sicurezza dei confini di ogni Stato.”.
Il processo di democratizzazione di Taiwan rappresenta un unicum se comparato alle esperienze complementari della regione asiatica – prima tra tutte, quella della Corea del Sud. Come si caratterizza il rapporto tra democrazia e identità nazionale dei taiwanesi, e in che modo essa ha rappresentato una barriera ideologica invalicabile con la Repubblica Popolare Cinese?
“Il processo di democratizzazione di Taiwan è un unicum, in particolare se lo confrontiamo con altri processi della regione, ad esempio quello sudcoreano dove c’erano state decine di migliaia di morti. È stato un processo gestito dallo stesso gruppo che deteneva il potere nell’isola ed è stato un processo che si è fortemente accentrato sull’evoluzione e sulla ridefinizione dell’identità nazionale taiwanese. L’identità nazionale taiwanese ha affittato un distanziamento da quella che è l’influenza culturale cinese, quindi evidenziando il carattere insulare di Taiwan, ridefinendo quelli che sono stati i percorsi storici degli abitanti dell’isola, ma in particolar modo avviando una identificazione tra processi di rappresentatività democratica e di identità nazionale. Quindi quello di Taiwan è un caso quasi unico al mondo, che è stato definito di patriottismo costituzionale, ossia in cui gli elementi che definiscono le dinamiche di rappresentatività vanno a rappresentare proprio l’identità nazionale. Quindi essere taiwanesi oggi significa anche essere dei cittadini che vivono in democrazia. La democrazia taiwanese rappresenta non solo un muro invalicabile rispetto alla Repubblica popolare cinese, ma anche contraddice quella che è stata la narrazione di Pechino, ossia l’idea che una società di cultura cinese non possa essere una democrazia, che la cultura cinese non sia pronta, non sia in qualche modo formata per avere una rappresentatività democratica. Tutti questi elementi rappresentano un contrasto naturale rispetto a quello che sta avvenendo dall’altro lato scritto, e rappresentano un ostacolo naturale rispetto ad un possibile processo di unificazione con la Repubblica Popolare Cinese.”.
Foto copertina: L’ isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo (Stefano Pelaggi, Luiss University Press, 2022).