Perché è scorretto parlare di “ rifugiati ambientali / climatici”

Nel 2017 sono stati stimati 258 milioni di migranti 1. Tra questi, 68,5 milioni sono stati costretti a migrare: ai 25,4 milioni di rifugiati veri e propri – tali in quanto hanno varcato il confine del proprio paese d’origine a causa di una persecuzione di varia natura – vanno ad aggiungersi circa 40 milioni di Internal Displaced People (IDP) – sfollati interni per via delle guerre e dei disastri naturali2 -, aumentati tragicamente di 30,6 milioni nel corso del 2017, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre 3.

All’interno di questa categoria, 18,8 milioni sono stati costretti a migrare per via di calamità naturali o legate a cambiamenti climatici4. Molte sono le categorie utilizzate per riferirsi a quelle che in senso più generico sono migrazioni indotte dall’ambiente, che si tratti di eventi stimolati dal cambiamento climatico o meno: migranti o rifugiati ambientali/climatici (spesso usando le parole come sinonimi), eco-profughi, disaster-induced migration.

In questo articolo, verrà utilizzata la definizione fornita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel 2011, secondo cui i migranti ambientali sono:

persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di cambiamenti improvvisi o graduali dell’ambiente che influiscono negativamente sulle loro condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro residenze abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente che permanentemente, sia nel loro stesso paese che al di fuori di esso”5.

Verranno considerati solo i migranti che emigrano all’esterno del paese d’origine e che scelgono di farlo in seguito a cambiamenti ambientali e climatici antropogenici, e non a disastri naturali meno collegabili all’azione dell’uomo sull’ambiente e sul clima (terremoti, eruzioni vulcaniche). La distinzione tra una migrazione forzata o volontaria, o tra le migrazioni temporanee o permanenti, è invece più complicata. In questi casi, i tentativi di categorizzare gli individui sono estremamente sfuggenti per vari motivi, tra cui le decisioni soggettive alla base dei movimenti migratori, le condizioni oggettive di accoglienza da parte dei paesi di destinazione, l’eterogeneità geografica e geopolitica dei vari casi di studio e gli eventi ambientali o climatici all’origine di alcuni flussi migratori.

Essi vengono divisi generalmente in due gruppi: eventi graduali, o slow-onset, come la desertificazione, la siccità e la degradazione del suolo, ed eventi improvvisi, o sudden-onset, in cui vengono ricompresi tutti i tipi di disastri ambientali come alluvioni e uragani, fenomeni in aumento a causa del cambiamento climatico. Ogni evento merita di essere tenuto in considerazione per avere una visione completa delle potenziali migrazioni ambientali nel globo e per elaborare la risposta giuridica più congrua in base alle esigenze specifiche di un paese. Risposte che, fino ad oggi, non sono state ancora fornite in modo esaustivo, per l’impossibilità di delineare una fattispecie giuridica ben precisa e per via dell’ottica securitaria con cui è stato inquadrato il fenomeno degli “eco-profughi”.

Il nesso tra migrazioni e cambiamento ambientale e climatico è stato molto discusso dalla comunità scientifica e dagli accademici del settore. Al momento, si può affermare con certezza che fenomeni ambientali e climatici possono influire sulla scelta di emigrare in vari modi6, “amplificando rischi già esistenti per i sistemi umani e naturali e creandone di nuovi”7. L’evidenza empirica su effettivi spostamenti è stata però documentata solo da pochi studi8, che si focalizzano soprattutto su eventi improvvisi9, mentre mancano ricerche approfondite sugli slow-onset events, dalle conseguenze meno evidenti10. Non esiste quindi un collegamento meccanico tra le due variabili, ma non si può affatto sottovalutare che in futuro la relazione generi flussi più numerosi. Nel contempo, le cifre che talvolta vengono citate con toni allarmistici – 200 milioni entro il 205011 – sono state criticate da chi ne ha messo in luce l’assenza di metodologia rigorosa e di distinzione tra i diversi driver che conducono all’emigrazione12.

Da un punto di vista rigorosamente giuridico, non esiste nessuno strumento che si rivolga agli individui costretti ad emigrare, attraversando il confine statale, per via delle conseguenze di disastri ambientali e/o del cambiamento climatico. Nel caso in cui il movimento si verificasse all’interno del paese di appartenenza, gli individui in questione rientrerebbero nella categoria di IDP, godendo di fatto della protezione stabilita dai Guiding Principles on Internal Displacements del 199813. Se invece il movimento implicasse l’attraversamento del confine, allora si potrebbe parlare di “rifugiati” solo ed esclusivamente se, oltre alla ratio ambientale e climatica alla base dell’emigrazione, vi fosse anche uno degli elementi chiave della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo aggiuntivo del 1967, in particolare il criterio della “persecuzione”. Laddove questo non possa essere applicato e collegato alle conseguenze del cambiamento climatico, sia la dottrina, sia i giudici negano che questi strumenti possano valere anche per i migranti ambientali. L’elemento della persecuzione non può essere riscontrato negli spostamenti dovuti a cause climatiche o ambientali per una serie di ragioni.

  • Tali migrazioni si svolgono secondo modalità così eterogenee da non poter identificare una fattispecie precisa. Come interpretare la volontarietà o la coercizione della scelta di migrare? In questa situazione, il nodo gordiano è costituito dalla tipologia dell’evento naturale. Si può sicuramente affermare che una catastrofe improvvisa rappresenti una costrizione più stringente rispetto ad un cambiamento più lento e graduale. Da cui la considerazione che il timore percepito di un futuro e potenziale peggioramento delle condizioni di vita provocato dal degrado ambientale non può essere equiparato alla paura che si materializza di fronte alla minaccia imminente ed evidente di una persecuzione politica14.

Un’altra riflessione da porsi in proposito riguarda l’entità dei danni e delle privazioni che gli individui subiranno per via dell’evento in questione. L’eventualità di un futuro sfollamento per via di fenomeni ad insorgenza lenta è non solo difficilmente prevedibile, ma anche foriera di effetti che non possono essere quantificabili con assoluta certezza: la capacità di resilienza o di vulnerabilità delle popolazioni colpite potrebbe limitarne o acuirne la portata distruttiva. Ragion per cui, è inopportuno parlare di “rifugiato climatico” per chi teme oggi che un domani dovrà abbandonare la propria terra per i danni provocati dall’innalzamento delle temperature globali, per cui si prevedono scenari mutevoli. Del resto, in termini giuridici sarebbe scorretto qualificare come “persecuzione” anche il verificarsi di un cataclisma naturale che determini nell’immediato conseguenze urgenti e drammatiche per la vita umana. Più che altro, ci si potrebbe interrogare sul grado di coercizione a cui il migrante è sottoposto.

  • La combinazione di eventi ambientali e climatici in luoghi diversi può determinare varie risposte. Alcuni studi dimostrano che nel caso di catastrofi improvvise la migrazione tende ad essere temporanea ed a rivolgersi verso località vicine, in modo da favorire un ritorno a casa appena possibile – solo il 30% dei migranti si sposterebbe definitivamente15. Ciò andrebbe a configurare una situazione non proprio conforme alla richiesta di asilo politico e di emigrazione permanente da parte di rifugiati che non possono fare ritorno in patria. La coercizione, senza la persecuzione, non darebbe comunque diritto all’asilo, ma al massimo ad una forma di protezione complementare. L’emigrazione trans-frontaliera di numerosi individui, non aventi altra scelta se non quella di abbandonare il proprio paese, risulta quindi uno scenario futuro al momento ancora remoto, e concepibile solo per particolari territori, come i microstati insulari del Pacifico. Mancano ancora ricerche approfondite e dati disaggregati affidabili sugli eventi slow-onset, ma al momento le rotte migratorie privilegiate restano soprattutto circolari e interne, come accade in Africa sub-sahariana16.

  • Quindi, la domanda a cui bisognerebbe rispondere per arrivare a garantire lo status di rifugiato è chi sia il soggetto responsabile di una tale persecuzione e per quali motivi si sia mosso. La Convenzione del 1951 fu redatta con l’obiettivo di proteggere, mediante la creazione dell’UNHCR, i rifugiati perseguitati per razza, religione, nazionalità o appartenenza ad un determinato gruppo sociale o politico17. Costoro dovevano essere protetti da uno Stato e per conto di un altro Stato, che avrebbe garantito loro il diritto d’asilo. L’impianto statocentrico è rimasto immutato. Il diritto d’asilo viene concesso solo dopo l’attento esame della situazione particolare di un individuo che lo avoca ai sensi della normativa vigente. Gli Stati non hanno alcun obbligo assoluto di accoglienza, bensì di rispettare il divieto di non refoulement e di venire incontro al diritto di ogni individuo di cercare asilo politico in uno Stato terzo18. In base all’analisi della minaccia di persecuzione nello Stato di provenienza, l’asilo potrà essere garantito dallo Stato d’accoglienza. Al momento, sembra veramente remota l’ipotesi che uno Stato equipari le drammatiche conseguenze di un disastro ambientale alla minaccia insita nelle forme di persecuzione menzionate nel 1951 e nel 1967. L’unica eccezione potrebbe riguardare il caso di una sovrapposizione tra persecuzione politica e catastrofe ambientale. Ad esempio, nel caso in cui un governo decidesse di attaccare deliberatamente un gruppo etnico o religioso tramite la privazione di risorse naturali o l’induzione di una carestia, ovvero il rifiuto o l’interruzione di soccorsi durante un grave disastro naturale19. In situazioni più usuali, l’equivalenza tra rifugiati politici e climatici è invece improponibile. Ciò è spiegato anche dalla cauta posizione di chi ritiene che non bisognerebbe rimettere in discussione i traguardi raggiunti dalla normativa in materia di asilo politico, che al giorno d’oggi sono sottoposti ad una pressione asfissiante da parte della narrativa populista e sovranista. Realisticamente, né gli Stati né le organizzazioni internazionali deputate alla protezione dei rifugiati accetterebbero una riforma che includa anche i migranti ambientali e climatici.

    Un altro punto chiave, infine, riguarda la responsabilità morale e l’attribuzione di colpevolezza che nel caso del cambiamento climatico rappresenta una vexata quaestio su cui si continuerà a dibattere a lungo. Al contrario, è inopinabile che il diritto d’asilo per i rifugiati venga concesso come difesa contro le azioni persecutorie da parte dello Stato di provenienza del rifugiato politico. Sulla giustizia e sull’etica climatica, basti ricordare in sintesi che esiste una responsabilità “comune, ma differenziata”, stabilita dall’art. 3 della Convenzione Quadro sul Clima del 199220, secondo cui il taglio delle emissioni di gas serra spetta in quantità maggiori ai paesi sviluppati, che dovranno impegnarsi anche nel supporto finanziario a quelli in via di sviluppo – come ribadito anche dalla COP21 di Parigi. Seppur si volessero attribuire colpe un po’ più specifiche – ai paesi storicamente più emettitori, alle multinazionali etc. – sarebbe comunque impossibile prevedere esattamente l’entità dei danni indotti in futuro, il momento in cui si verificheranno, nonché le vittime intergenerazionali che saranno più colpite.                        Di conseguenza, non si può replicare lo schema giuridico applicabile alla fattispecie dei rifugiati politici, per la quale risulta più agevole identificare chi compie la persecuzione. In alcuni Stati come Kiribati e Tuvalu, che patiranno le conseguenze del cambiamento climatico, l’etichetta di “rifugiati” è stata considerata quasi offensiva, poiché implicherebbe una condanna del governo del paese e stigmatizzerebbe gli individui come vittime passive. Nel loro caso particolare, gli abitanti fuggirebbero per la perdita dell’isola, che rischia di essere sommersa per l’innalzamento del livello delle acque marine. Ma il discorso è analogo per i migranti ambientali da qualsivoglia altro paese i cui governi non possono di certo essere accusati di “persecuzione”.

Nonostante la scorrettezza della definizione di “rifugiato”, si ritiene che la normativa esistente possa essere d’ispirazione per concepire dei provvedimenti idonei ad una forma di protezione specifica per chi emigra, in via temporanea o permanente, a causa di cambiamenti ambientali e climatici severi. L’Unione Europea e alcuni Stati membri potrebbero fungere da esempio, in teoria.


Note

1{United Nations Department of Economic and Social Affairs, The International Migration Report [Highlights], New York: United Nations, 2017, p. 1}.

2 {United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), Global Trends: Forced Discplacement in 2017, New York: United Nations, 2018, p.2}.

3 {Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), Norwegian Refugee Council (NRC), Global Report on Internal Displacement 2018. May 2018, p. V}.

4 {Le cifre riportate negli anni precedenti sarebbero anche più elevate: circa 22.5 milioni all’anno nel periodo 2008-2014 In: The Nansen Initiative, Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change. Vol. I. December 2015, p. 14}.

5 {IOM (International Organization for Migrations),Glossary on Migration, International Migration Law. No. 25, 2nd Edition. Geneva, 2011, p.33}.

6 {Intensificazione di disastri naturali; innalzamento delle temperature e siccità; innalzamento del livello dei mari; competizione sulle risorse naturali. IOM, Migration, Environment and Climate change. Assessing the Evidence, 2009, p. 15}.

7 {IPCC, Climate Change 2014: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, R.K. Pachauri and L.A. Meyer (eds.)], IPCC, Geneva, Switzerland, 2014}

8 {Laczko F., Piguet E., People on the move in a Changing Climate. The Regional Impact of Environmental Change on Migration, Springer International Publishing, Dordrecht, 2014}

9 {Che addirittura in alcuni casi costringono le persone all’immobilità, impedendo loro l’emigrazione. Cfr. Adger W.N. et al., Human security, in IPCC, Climate Change 2014: Synthesis Report.p. 766, e Foresight, Migration and Global Environment Change. Future Challenges and Opportunity, Final Project Report, The Government Office for Science, London, 2011, p. 12}.

10 {IOM, Migration, Environment and Climate change, 2009, p. 248}.

11 {Myers N., Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st century, Philosophical Transactions of the Royal Society B 357 (1420), 2002}.

12 {Gemenne F., Why numbers don’t add up: A review of estimates and predictions of people displaced by climate change, Global Environmental Change, 21, 2011, p. 42}.

13 {McAdam J., Climate Change, Forced Migration and International Law, Oxford University Press, Oxford, 2012, pp. 250-252}.

14 {Legoux L., Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, Revue Tiers Monde, (4)204, 2010, p.61}.

15 {Raleigh C.et al., Assessing the impact of climate change on migration and conflict. World Bank, Washington, DC, 2008, p. 37}.

16{Vigil S., Climate Change and Migration: Insights from the Sahel., in Carbone G.(a cura di), Out of Africa. Why People Migrate, ISPI. Ledizioni Ledi Publishing, Milano, 2017, p. 62}.

17 {Simonelli A., Governing Climate Induced Migration and Displacement, Palgrave Macmillan. New York, 2016, p. 77}.

18 {Legoux L., Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, op.cit.,p.57}.

19 {In questa fattispecie, si potrebbe fare ricorso anche alla Responsibility To Protect. Si veda Hilhorst D.et. al. Human security and Natural Disasters. In: Martin M., Owen, T.(a cura di). The Routledge Handbook of Human Security, Routledge, London: NewYork, 2014 pp. 178-179. Si veda anche Scuccimarra L. (2016). Proteggere l’umanità. Il Mulino, Bologna, pp. 103-109}.

20 {Di Paola M., Cambiamento climatico, LUISS University Press, 2015, p. 67. Il 1992 fu anche l’anno della Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, che al Principio 7 stabilisce la “responsabilità comune ma differenziata” in materia di sviluppo sostenibile, in Cordini G., Fois P., Marchisio S., Diritto ambientale: profili internazionali europei e comparati, Giappichelli, Torino, 2008, p.14}.

Copertina: Claire Beilvert