L’uso di armi all’uranio impoverito nei Balcani: una questione di diritto internazionale umanitario


L’uranio impoverito è un sottoprodotto del processo utilizzato per arricchire l’uranio, impiegato per produrre armi nucleari o combustibile per le centrali elettriche. A causa della sua estrema densità e della capacità di bruciare all’impatto, il materiale viene utilizzato in munizioni e nei proiettili perforanti dei carri armati. Nello specifico, viene fatto ricorso all’uranio in un dardo o in un proiettile in un’arma chiamata penetratore.
A livello chimico, l’uranio impoverito può
anche essere prodotto da combustibile nucleare riprocessato: in questo caso, generalmente sono contenute tracce di rifiuti del reattore, come il plutonio. Con queste premesse, è possibile definire le armi all’uranio come armi convenzionali contenenti uranio proveniente da varie fonti. A differenza delle armi nucleari, le armi all’uranio non causano danni impiegando la fissione radioattiva, bensì si affidano all’alta densità che consente di penetrare l’armatura se sparati ad alta velocità.


L’uso di uranio impoverito nei conflitti: il caso dell’ex Jugoslavia

Il discorso sulle armi all’uranio impoverito rileva in modo particolare nel contesto dei Balcani, in quanto esistono prove tangibili del loro utilizzo da parte di forze statunitensi che operavano sotto l’egida della NATO negli anni Novanta del secolo scorso. Secondo analisi indipendenti, l’analisi dei campioni delle scorte di armi all’uranio impiegate nei conflitti balcanici ha mostrato come queste fossero state fabbricate con materiale proveniente da rettori. In via contestuale, le armi all’uranio furono impiegate in Bosnia Erzegovina come parte dell’operazione Deny Flight sia nei mesi di agosto e settembre 1994, sia nell’ambito dell’operazione Deliberate Force in altre 17 occasioni nell’agosto e settembre 1995. Nel complesso, si stima che almeno 1271kg di uranio impoverito siano stati utilizzati nelle suddette occasioni. Accanto alla Bosnia Erzegovina, nell’ambito dell’operazione Allied Force armi all’uranio sono state sparate in almeno 112 occasioni tra il 6 aprile e l’11 giugno 1999 contro obiettivi localizzati in Serbia meridionale e Kosovo, nonché contro un sito rilevante in Montenegro.[1] A tal riguardo, le operazioni menzionate hanno richiesto l’impiego di circa 5720 kg di munizioni all’uranio impoverito. In tutti questi casi, il proiettile a base di uranio era il PGU14/B, sparato contro bersagli a terra da un cannone rotante di tipo Gatling GAU-8 dall’aereo A-10 Thunderbolt II: sebbene fosse solo uno il modello di aereo impiegato in tali specifiche e limitate operazioni militari, la contaminazione ambientale che ne risultò fu tutt’altro che irrisoria e circoscritta. Ciononostante, è da notare come in realtà le quantità di uranio impoverito impiegate nei Balcani risultino essere nettamente ridotte rispetto all’esperienza irachena. Di fatto, durante i due conflitti del 1991 e del 2003 in Iraq, l’uranio impoverito utilizzato (attorno ai 404.000 kg) superò di circa 57 volte la quantità impiegata nei Balcani.[2]

A circa un trentennio di distanza, sono molteplici le questioni aperte sull’impatto a lungo termine dell’uranio impoverito tanto nei Balcani quanto in Iraq (e, con il conflitto in Ucraina, potenzialmente anche nelle aree in cui si estendono i combattimenti dal febbraio 2022) ed in particolare in riguardo al livello di danno arrecato alla popolazione civile e ai veterani. La questione iniziò a sorgere all’indomani delle guerre nell’ex Jugoslavia, per poi acuirsi a seguito dell’impiego di uranio impoverito su larga scala nel Golfo Persico ben documentato da una maggiore copertura mediatica, la quale dedicò particolare attenzione ai resoconti di tassi più elevati di cancro tra i soldati che prestarono servizio in Iraq.

La fase di assessment

Per quanto riguarda i Balcani, un gruppo di ricercatori basati in Serbia ha testato munizioni NATO recuperate dopo il conflitto, confermando che esse contenessero uranio.[3]
Un notevole interesse da parte dei media ha poi seguito la dichiarazione pubblica con cui il Pentagono confermava l’uso del materiale nei Balcani.[4]
È stato in questo contesto che l’Unità di Valutazione Post-Conflitto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha iniziato ad esaminare la questione: Alla fine del 1999 fu prodotto un primo  studio in cui venne richiesto che la NATO fornisse i dettagli circa le località interessate, ai fini di una corretta valutazione della contaminazione.[5] A seguito della richiesta da parte del Segretario Generale dell’ONU, la NATO ha fornito alcune informazioni risultate tuttavia non particolarmente specifiche e, solo a seguito di una seconda richiesta, è stato prodotto un elenco di 112 siti in cui sono state impiegate armi all’uranio impoverito. Grazie alla collaborazione della NATO, l’UNEP ha dapprima visitato un campione rappresentativo di 11 siti all’inizio del 2000, per poi produrre un ulteriore rapporto all’inizio del 2001.[6] In una certa misura il rapporto era rassicurante: i timori di una contaminazione regionale diffusa vennero notevolmente ridotti, in quanto sussistevano prove della ridotta e limitata diffusione del materiale in specifiche aree. Inoltre, dai risultati dell’UNEP, sembrò che i rischi più probabili riguardassero il fatto che l’uranio nei siti potesse finire nelle fonti di acqua potabile, o che la polvere di uranio nei siti potesse essere risospesa e inalata. Per ridurre questi rischi, l’UNEP ha incluso nel report un elenco di raccomandazioni per mitigare la contaminazione nei siti, validi altresì per i siti ancora non visitati. Sulla scia dell’UNEP, anche una missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha visitato diversi siti in Kosovo, sebbene non abbia effettuato alcun lavoro di campionamento sul campo. Successivamente, sono stati prodotti ulteriori rapporti dell’UNEP in seguito all’esame di siti in Serbia e Montenegro nel 2002 e in Bosnia-Erzegovina nel 2003.
Sebbene la NATO abbia pubblicato elenchi delle coordinate dell’attacco dopo due interventi del Segretario generale delle Nazioni Unite, tali informazioni non sono state giudicate complete. Ad esempio, alcuni ricercatori hanno fatto notare come per sei siti in Bosnia-Erzegovina non ci siano informazioni né sul numero di colpi effettuati, né sulle coordinate dell’attacco. L’unica informazione disponibile riguarda il fatto che gli attacchi sino avvenuti nelle vicinanze della capitale Sarajevo.[7]
Nell’elenco degli attacchi per il conflitto in Kosovo, altre 23 voci non specificano quanti colpi siano stati sparati, e alcune coordinate sembrano non essere valide.[8] I dati sono stati compilati utilizzando i rapporti di missione per stimare le coordinate e i registri di ciascuna unità sulla quantità di munizioni spese.
Anche laddove queste informazioni sono state divulgate, c’è una notevole confusione su quale proporzione di proiettili sparati dagli A-10 fossero proiettili PGU-14/B con penetratore all’uranio impoverito e quale proporzione fosse proiettili ad alto esplosivo PGU-13/B. Benché la responsabilità primaria per la divulgazione dei siti degli attacchi spetti agli utilizzatori di armi all’uranio, alcuni individui all’interno dell’esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia (FRY) durante gli anni del conflitto erano consapevoli che erano state usate armi all’uranio. Tuttavia, tali informazioni non furono divulgate al pubblico dominio. Con grande probabilità già nel 1994 e certamente nel 1996, una ventina di squadre avevano visitato il sito di Han Pijesak in Bosnia Erzegovina, confermando la presenza di contaminazione da uranio. Ciononostante, come anticipato queste informazioni furono rese disponibili alle autorità civili solo dopo che la NATO confermò l’utilizzo diversi anni dopo.[9]

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Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute

Senza informazioni abbastanza specifiche su cui lavorare, individuare i punti precisi interessati dalla contaminazione da uranio non è risultato essere un’impresa agevole. Inoltre, la radioattività dell’uranio impoverito è costituita principalmente da particelle alfa, non facilmente rilevabili a distanza. Nello specifico, infatti, sul campo vengono impiegate apparecchiature per il rilevamento delle radiazioni beta e gamma, prodotte solo in piccole quantità dall’uranio impoverito. Oltre a ciò, i penetratori vengono solitamente sepolti nel terreno, rendendo pertanto la radiazione non rilevabile dalla superficie se non nel terreno immediatamente circostante al punto di impatto. Anche se col tempo questo tipo di uranio potrebbe inquinare le fonti d’acqua, i fattori menzionati rendono estremamente difficile effettuare una valutazione di impatto ambientale. Anche in circostanze in cui possono essere individuati punti di contaminazione, i Paesi usciti dal conflitto si trovano ad affrontare ostacoli significativi nello svolgimento delle indagini di natura ambientale. Le competenze e le attrezzature necessarie per indagare sulla contaminazione da uranio sono altamente specializzate e potrebbero non essere disponibili: ciò è particolarmente vero per le apparecchiature in grado di distinguere in modo affidabile tra uranio naturale e impoverito. Inoltre, tali sforzi necessitano di un’attenta coordinazione, di supporto e di finanziamento. Senza strutture di governance ben sviluppate, competenze accademiche nel settore, una legislazione sulla protezione dalle radiazioni e sull’ambiente e un focus di natura politica, è improbabile che si possa assistere ad un progresso nel breve periodo.
Tra i Paesi dell’ex Jugoslavia, la mancanza di fondi e di attrezzature più precise è una caratteristica del Kosovo tanto quanto della Repubblica Srpska, in cui ad esempio i testi ambientali si sono basati su attrezzature prese in prestito dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Su questa linea, nella Serbia meridionale, i test sui civili potenzialmente esposti all’uranio impoverito sono stati limitati da questioni economiche, così come in Bosnia Erzegovina la mancanza di accesso alle attrezzature più avanzate hanno ostacolato l’elaborazione di ulteriori informazioni a partire dal lavoro dell’UNEP.
Di fronte a tutti questi ostacoli, è dunque chiaro che non ci si può aspettare che i Paesi emersi dal conflitto in Jugoslavia conducano lavori di indagine ambientale sulle armi all’uranio senza il sostegno finanziario e tecnico della comunità internazionale.[10] La questione più urgente e controversa riguardante l’uso delle armi all’uranio è se queste abbiano un impatto negativo sulla salute umana: da quando la questione è emersa a livello internazionale, sono stati condotti numerosi studi documentali intesi a valutare i rischi derivanti da tali armi e la possibile correlazione con l’aumento di casi di tumore nell’area e tra i veterani. Tuttavia, data la mancanza di studi di dimensioni significative sui civili esposti, permangono incertezze sui rischi posti dall’uso sul campo di battaglia delle armi all’uranio.

Le conseguenze sociali: il caso del sito TRZ Hadžići

Esempio lampante degli impatti negativi della contaminazione è il caso del sito TRZ Hadžići in Bosnia Erzegovina. Prima del conflitto, la struttura ospitava attività di riparazione di carri armati. Ciononostante, durante la guerra l’azienda si trasferì a Sarajevo, per occuparsi di manutenzione dei veicoli delle forze armate a difesa della città. La struttura fu occupata dall’esercito della Repubblica Srpska, e il sito (strategicamente rilevante per via della presenza di veicoli ed attrezzature) subì un attacco prolungato da parte della NATO nel settembre 1995. Sulla base degli Accordi di Dayton, il sito divenne parte della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, e i soldati della Repubblica Srpska si ritirarono.[11] Quando gli operai tornarono sul posto nel marzo 1996, tutte le attrezzature, gli arredi, le macchine e i veicoli da lavoro erano stati portati via dalle forze in ritirata. Il personale trovò una grande quantità di rifiuti sul posto, alcuni dei quali contaminati da uranio impoverito, e sebbene tutti i veicoli utilizzabili fossero stati presi, rimasero alcuni carri armati che vennero puliti a mano da parte di gruppi di operai ignari della possibilità di contaminazione. Poiché non si sapeva che i rifiuti richiedessero un trattamento speciale, questi vennero semplicemente gettati in una discarica. Qualche tempo dopo, la notizia che con ogni probabilità era stata utilizzata una sorta di arma non convenzionale nell’area fu correlata alle segnalazioni di tassi più elevati di cancro tra i rifugiati di Hadžići, che si erano trasferiti a Bratunac al confine con la Serbia. Se all’epoca la notizia fu liquidata come una voce diffusa dai serbi per provocare allarme e tensione, dal 2001 iniziarono ad affluire sul posto giornalisti internazionali informati dell’uso di uranio impoverito nella regione, seguiti da visite ufficiali dell’UNEP nel 2002 e valutazioni compete della situazione. Sebbene il sito sia stato anche pesantemente minato durante il conflitto, le attività di sminamento della Federazione di Bosnia ed Erzegovina hanno permesso di effettuare campionamenti periodici del suolo e dell’acqua per individuare la presenza di uranio impoverito. Benché attualmente si ritenga che i rischi generali per la popolazione non siano elevati, le persone impiegate in tali attività nei punti caldi contaminati continuano ad essere a rischio di esposizione significativa.[12]

L’uranio impoverito nella prospettiva del diritto internazionale umanitario

In prospettiva giuridica, un confronto tra le armi all’uranio e i residui bellici esplosivi risulta di particolare importanza. Sebbene le armi all’uranio non siano soggette ad alcuna normativa internazionale specifica oltre agli obblighi generali del diritto internazionale umanitario, i residui bellici esplosivi sono oggetto di molteplici norme internazionali. Benché la responsabilità primaria di fornire informazioni e coordinare le attività di sminamento spetti ai belligeranti (o all’entità che controlla i territori in cui sono presenti residui bellici esplosivi), sono in essere procedure per garantire che le Nazioni Unite istituiscano centri di azione contro le mine residue, qualora necessario. Al contempo, esiste un corpo consolidato di Organizzazioni Non Governative e appaltatori privati con una vasta esperienza nell’ambito dello sminamento, spesso finanziati dalla comunità internazionale nel suo insieme in via del tutto indipendente dal coinvolgimento o meno nel conflitto. Pertanto, è da notare come i Paesi colpiti ricevano assistenza internazionale nella fase post-conflittuale in riferimento alle attività di sminamento (si veda in questo senso il caso recente dell’Azerbaigian, contaminato da mine in tutta la regione del Karabakh a seguito di un trentennio di occupazione armena).
Per quanto riguarda invece le norme riguardanti l’uso di armi all’uranio o altri residui bellici tossici, si fa generalmente riferimento al diritto internazionale umanitario generale piuttosto che a specifici Trattati in materia. Ad esempio, l’impiego di armi all’uranio impoverito in aree in cui i civili potrebbero essere a rischio di esposizione sarebbe suscettibile di violare il principio di distinzione tra combattenti e civili, codificato all’art. 51 del I Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1977.[13]
In riferimento allo stesso Protocollo, rileva altresì l’articolo 57, ai sensi del quale le parti sono tenute ad adottare tutte le misure necessarie per ridurre al minimo gli effetti delle attività militari sui civili.[14]
Al contempo, in materia di tutela dell’ambiente durante i conflitti armati, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha identificato una serie di regole di diritto internazionale consuetudinario, tra le quali rileva il fatto che devono essere adottate tutte le misure precauzionali necessarie per ridurre al minimo i danni all’ambiente naturale. La mancanza di certezza scientifica sugli impatti di natura ecologica non dovrebbe essere invocata come giustificazione alla mancanza di azione precauzionale.[15] Letto in combinato disposto con l’articolo 58, il quale obbliga le parti ad adottare tutte le misure necessarie per la protezione della popolazione civile dai pericoli derivanti dalle operazioni militari, esiste una chiara norma giuridica secondo la quale gli Stati dovrebbero adottare un approccio precauzionale tanto nell’uso di armi all’uranio, quanto nella decontaminazione delle aree colpite.[16]
Alla luce del contesto giuridico descritto, attualmente non sembrano essere state introdotte restrizioni all’utilizzo di armi all’uranio impoverito da parte di attori Statali, i quali hanno citato come giustificazione l’assenza di certezza scientifica riguardante l’impatto a lungo termine. A differenza degli sforzi di sminamento, inoltre, è riscontrabile poca attenzione a livello internazionale nell’assistenza agli Stati in materia di quantificazione del problema e studio degli eventuali effetti, nonché di bonifica delle aree contaminate.
Al contrario, tali attività sono state relegate all’iniziativa dei singoli Stati. Benché parte degli studiosi sostenga che i residui bellici esplosivi presentino rischi maggiori rispetto alla contaminazione da armi all’uranio impoverito (anche alla luce della disparità tra i due regimi giuridici), tale posizione non risulta del tutto sostenibile nel caso dei Balcani, in cui non è ancora possibile stimare con certezza quante persone siano state esposte alla contaminazione, né tantomeno quantificare il rischio. Appare tuttavia evidente che non siano state adottate tutte le misure necessarie in via preventiva intese a ridurre i danni e proteggere tanto la popolazione civile quanto l’ambiente.


Note

[1] International Coalition to Ban Uranium Weapons, A question of Responsibility: depleted uranium weapons in the Balkans, 2011, p. 3.
[2] M.Fuller, Depleted Uranium in Ukraine: lessons from the Balkans and Iraq, Peace Review: A journal of Social Justice, 36:53-62, 2024.
[3] Sarap NB, Janković MM, Todorović DJ, Nikolić JD, Kovačević MS. Environmental radioactivity in southern Serbia at locations where depleted uranium was used. Arh Hig Rada Toksikol, 2014.
[4] Pentagon Confirms depleted uranium use, BBC, disponibile al link: http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/337855.stm.   
[5] UNEP/UNCHS Balkans Task Force (BTF), The potential effects on human health and the environment arising from possible use of depleted uranium during the 1999 Kosovo conflict: A preliminary assessment, 1999.
[6] UNEP, Depleted uranium in Serbia and Montenegro: post-conflict assessment in the Federal Republic of Yugoslavia, 2002. Disponibile al link: https://wedocs.unep.org/handle/20.500.11822/8251.
[7] “Data concerning the locations of depleted uranium ordnance expended during Allied Operations Deny Flight-Deliberate Force, 1993-95 in Bosnia (grid co-ordinates),” January 24, 2001, http://www.nato.int/du/docu/d010124b.htm.
[8] Ibid. Lo strike n. 11 (4203N02030E) sembra essere in un formato diverso dalle altre coordinate e pare riferirsi ad una località dell’Albania; lo strike n. 39 (34TEM209103) sembra indicare un sito in Macedonia: un rapporto del Ministero della Difesa del Regno Unito suggerisce che le coordinate corrette siano 34TEN209103; lo strike n. 59 (34TDM54938) sembra non essere valido in quanto contiene un numero bizzarro e insolito di cifre.
[9] International Coalition to Ban Uranium Weapons, cit., p. 4.
[10] UNEP, Depleted Uranium in Bosnia and Herzegovina. Post-conflict environmental assessment, 2003. Disponibile al link: https://www.iaea.org/sites/default/files/BiH_DU_report.pdf.
[11] Tehnički Remontni Zavod (Trz) D.D., Defense Guide. Disponibile al link: https://defense-guide.com/item/tehnicki-remontni-zavod-trz-d-d/.
[12] IPPNW, The health effects of uranium weapons. Disponibile al link: https://issuu.com/ippnw/docs/report_uraniumweapons_web.
[13] ICRC, I Protocol Additional to the Geneva Conventions of 12 August 1949, 1977, art. 51.
[14] Ivi, art. 57.
[15] ICRC, Guidelines On The Protection Of The Natural Environment In Armed Conflict, Rule 44, Due Regard for the Natural Environment in Military Operations. “Methods and means of warfare must be employed with due regard to the protection and preservation of the natural environment. In the conduct of military operations, all feasible precautions must be taken to avoid, and in any event to minimize, incidental damage to the environment. Lack of scientific certainty as to the effects on the environment of certain military operations does not absolve a party to the conflict from taking such precautions”.
[16] ICRC, I Protocol Additional to the Geneva Conventions of 12 August 1949, 1977, art. 58.


Foto copertina: Uranio impoverito