I “riferimenti in pubblico alla colpevolezza” nella Direttiva 2016/343/UE: spunti di riflessione


[dropcap]Nonostante[/dropcap] la Direttiva sulla presunzione d’innocenza sia stata inserita nella Legge di delegazione europea 2016-2017, a ben due anni dalla scadenza del termine per il suo recepimento – fissato dall’art. 14 del testo europeo al 1° Aprile 2018 – l’Italia non ha ancora adottato alcuna misura legislativa finalizzata ad una trasposizione dei suoi principi nel nostro ordinamento. Eppure, l’evidente retorica colpevolista sottesa ad alcune prassi comunicative degli organi inquirenti richiederebbe un doveroso intervento da parte del legislatore.


 

Sommario:
1. La “relativizzazione” della presunzione di innocenza – 2. Le dichiarazioni colpevoliste rese dalla magistratura – 3. I “moniti” della Corte EDU: il caso Allenet de Ribemont c. Francia – 4. La Direttiva 2016/343/UE sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e l’impatto sull’ordinamento italiano – 4.l. Il ritardo dell’Italia nell’attuazione della Direttiva – 4.2. Le conferenze stampa degli organi inquirenti – 4.3. I video-highlights” della polizia giudiziaria – 6. Conclusioni.

 

La “relativizzazione” della presunzione di innocenza

Mai come negli ultimi anni la presunzione di innocenza si è trovata nella morsa di un così conflittuale rapporto tra l’esigenza di fornire all’opinione pubblica risposte esemplari, immediate, prontamente mediatiche, e i tempi sempre più dilatati dell’accertamento processuale[1]. Sarebbe sufficiente richiamare alcune dichiarazioni pubbliche rilasciate da esponenti di talune forze politiche[2], e perfino di alcune correnti della magistratura[3], per renderci conto di come tale fondamentale garanzia, intesa in primis come regola di trattamento, abbia subito e sia destinata a subire un progressivo quanto inesorabile declino.

A fronte di un’insoddisfazione sempre più crescente nei confronti della giustizia istituzionale, si fa dunque strada nella convinzione comune l’idea che, per contrastare determinati fenomeni di corruzione, mafia e malaffare, il processo penale – e con questo il diritto penale stesso – debba fungere da «tecnica di accoglienza delle istanze vendicative che vengono dalla società e dai mezzi di comunicazione» sempre più propense ad individuare nei giudici o nei pubblici ministeri dei “magistrati di scopo” a cui chiedere, com’è tipico delle fasi populistiche, il conseguimento di finalità generali in luogo dell’accertamento di responsabilità individuali[4]. Ne deriva così un complessivo rafforzamento delle finalità punitive dell’azione giudiziaria ed un contestuale “malcontento” verso quelle garanzie difensive sentite come un intralcio ad uno svolgimento efficiente della giustizia.

In un contesto del genere, alimentato com’è da pulsioni giustizialiste e da intense pressioni mediatiche, quel fenomeno che attenta dottrina ha inteso definire “relativizzazione della presunzione di innocenza”[5] ha trovato anzitutto riscontro nella graduale trasformazione del significato comunemente riconosciuto a taluni istituti processuali originariamente introdotti per garantire la delicata posizione dell’indagato.

Al riguardo, giova qui richiamare lo svilimento della valenza tecnica dell’informazione di garanzia che, come evocato dalla parola stessa, da strumento di “garanzia” è ormai passato ad indossare le vesti di strumento di “stigmatizzazione” della persona coinvolta[6]: l’istituto che dovrebbe garantire l’indagato ed informarlo del diritto di nominare un difensore, sembra oggi garantire soltanto la sua immediata esposizione sui media e sulla stampa e, nei casi più gravi, divenire uno strumento idoneo a sollecitare repentine dimissioni, doverose scuse pubbliche, naturali prese di distanza, pericolosi stravolgimenti politici e amministrativi[7]. Il tutto sulla base di giudizi pronti, sommari e con buona pace della presunzione di innocenza: l’indagato, per il solo fatto di essere tale, è costretto a subire l’onda giustizialista che si alimenta dello stesso moralismo che, in questi anni, ha gradualmente contribuito alla nascita delle nuove figure dell’”impresentabile” o del “coinvolto” nell’inchiesta penale.

Invero, semplificazioni contrarie al detto principio si sono registrate di fatto anche sul piano della più recente produzione legislativa. Sempre nell’ottica di fornire risposte immediate al “bisogno” di giustizia, si registra la frequente tendenza ad anticipare gli “effetti” del procedimento penale sulla sfera giuridica dello stesso indagato-imputato, coerentemente con la convinzione che vede nel diritto alla presunzione di innocenza un inutile ostacolo fra la cognizione sommaria preliminare e l’irrogazione della “pena” esemplare[8].

Non è questa la sede adatta per procedere ad un approfondimento delle riforme intervenute; basti però constatare come proprio l’impellente richiesta di etica nei confronti di una classe politico-amministrativa sempre “percepita” come corrotta o facilmente corruttibile abbia spinto l’opinione pubblica ad avallare scelte legislative[9] sempre meno sensibili alla tutela dei diritti individuali e quanto più attente alla loro “simbologia comunicativa”.

Si è giunti insomma ad uno “stadio” ultimo che renderebbe ancora più auspicabile da parte di tutti una presa di coscienza coraggiosa intorno al riconoscimento dell’importanza di una garanzia tanto basilare quanto irrinunciabile, la cui riduzione o degradazione determinerebbe una deprecabile involuzione del tasso di garantismo dell’intero sistema processuale.

 

Le dichiarazioni colpevoliste rese dalla magistratura

 

Se è pacifico che nell’epoca moderna la visibilità del processo penale è divenuta ormai il cardine attorno a cui ruotano nella esperienza comune delicati equilibri giuridici e sociali, non può certo negarsi come talvolta proprio quelle distorsioni “esterne” al processo penale, direttamente imputabili ai media, siano agevolate da altrettanto censurabili prassi giudiziarie.

In tempi in cui l’uso delle conferenze stampa da parte degli investigatori, la diffusione di video suggestivi e la fuga “mirata” di notizie sembrano dar luogo ad un «richiamo della giungla a cui pochi sanno resistere»[10], l’assedio esterno dei media nel processo penale può contribuire – e di fatti il più delle volte contribuisce – al dilagare della retorica colpevolista a danno del presunto innocente, ma è al contempo «la prassi giudiziaria ad esibire corpose deformazioni dell’immagine del giusto processo»[11]. Proprio dal “combinato disposto” di tali fattori e dalla loro percepibile forza comunicativa è necessario prendere le mosse per analizzare le trasformazioni che hanno riguardato il fenomeno informativo degli ultimi anni.

Giova anzitutto rilevare come nel complesso delle garanzie primarie che devono contrassegnare l’esteriorità del processo penale vi sia senz’altro la visibilità del trattamento dell’imputato come persona innocente[12]. Dal momento che indebite convinzioni di colpevolezza potrebbero provenire anche dalle dichiarazioni di coloro che sono direttamente responsabili della conduzione di momenti essenziali del procedimento penale, assume allora centrale importanza il tema della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati, a cui peraltro si aggiunge la concreta difficoltà di operare un equo bilanciamento tra le esigenze di trasparenza dell’operato giudiziario e quelle di tutela dei diritti dei soggetti coinvolti.

Orbene, i rapporti tra magistratura e stampa hanno spesso costituito motivo di polemica, finendo talvolta per alimentare le critiche di chi, in questo ambiguo rapporto, ha intravisto la causa principale delle fughe di notizie e del protagonismo di taluni magistrati, soprattutto degli uffici di procura[13].

Ed invero, quanto alle circostanze idonee a legittimare restrizioni, per i magistrati, della libertà di espressione garantita a tutti dall’art. 21 Cost., vengono in rilievo i principi a suo tempo sanciti con sentenza n. 100 del 1981, in occasione della quale il Giudice delle leggi fu chiamato a pronunciarsi circa la compatibilità con la suddetta norma costituzionale dell’art. 18 del r.d.l. n. 511/1946 (Guarentigie della magistratura) – ormai abrogato dall’art. 31 co. 1 lett. b del d.lgs. n. 109/2006 – sotto il profilo delle restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero derivanti dalla fattispecie di illecito ivi prevista[14].

Pur riconoscendo che detta libertà rientra tra quelle fondamentali protette dalla Costituzione, e riconosciuta anche ai magistrati, la Corte Costituzionale affermò che «essa, per la generalità dei cittadini, non è senza limiti, purché questi siano posti dalla legge o trovino fondamento in precetti e principi costituzionali, espressamente enunciati o desumibili dalla Carta costituzionale»: tra i requisiti costituzionali idonei a giustificare tali limiti vi sono l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. L’esigenza di salvaguardia di questi beni, come si evince da tale pronuncia, va però contemperata entro i limiti necessari alla tutela di altri beni di pari rilevanza, tant’è che «l’equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che viene ad esistenza ove risultino lesi gli altri valori». E poiché all’imparzialità e all’indipendenza dei magistrati sono connessi anche la fiducia collettiva nella giustizia e la sua credibilità, una loro lesione è tale da concretizzare un abuso del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero[15].

Venendo adesso alle implicazioni della presunzione di innocenza sul piano dei rapporti tra magistratura e mass media, la questione deve essere affrontata distinguendo la disciplina vigente per la magistratura requirente e per quella giudicante, anche in ragione del diverso atteggiarsi dell’attività informativa nelle diverse fasi del procedimento penale.

Quanto alla prima, com’è noto, il magistrato requirente è solitamente il soggetto più esposto all’attenzione mediatica, in quanto dominus di tutta la fase procedimentale che più suscita l’interesse dell’opinione pubblica. Si è osservato, al riguardo, che proprio il rappresentante della pubblica accusa non soltanto è il destinatario delle richieste di sicurezza della comunità ma interpreta quello stesso bisogno, operando «nella consapevolezza di avere dalla sua parte non solo lo stato» ma anche «l’opinione pubblica ed i media che reclamano giustizia (..)»[16]. Tuttavia la peculiarità di tale posizione, pur in considerazione del diritto dell’opinione ad essere informata, non consente al pubblico ministero di rendere dichiarazioni indebitamente lesive di diritti altrui, come quelle che più o meno direttamente rischiano di presentare come reo il semplice indagato o sospettato[17].

Beninteso, non sono illegittime le dichiarazioni con le quali il magistrato si limiti a riferire sulle indagini in corso rendendo noti fatti essenziali dell’indagato se effettuate in modo prudente e con toni pacati[18]. E’ invece vietato, tant’è che costituisce illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. bb) del d.lgs. n. 109/2006, «il rilasciare  dichiarazioni  ed  interviste  in  violazione dei criteri di equilibrio e di misura». Costituisce peraltro illecito disciplinare anche il tenere rapporti in relazione all’attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106[19] il quale, nel disciplinare i rapporti tra procure e stampa, prevede che le informazioni inerenti le attività delle procure debbano essere fornite attribuendole in modo impersonale all’ufficio (co. 2), ma anche che è il procuratore della Repubblica a dover mantenere i rapporti con gli organi d’informazione personalmente o tramite un magistrato dell’ufficio delegato.

Quando invece si tratta di dichiarazioni rese dai giudici, viene in rilievo la necessità di scongiurare esternazioni che si pongano in netto contrasto con la garanzia d’imparzialità connesse alle funzioni di quest’ultimo. Solida architrave dell’intero edificio processuale, tale garanzia è espressa bene dalla rappresentazione della giustizia bendata che, almeno dall’Ottocento, va intesa come attributo di imparzialità «perché il giudice non guarda in faccia nessuno!»[20]: la sfera esteriore della giustizia deve essere salvaguardata da esternazioni sbilanciate; tant’è che, prima della tipizzazione degli illeciti disciplinari dei magistrati, costituivano già fonte di responsabilità le dichiarazioni dirette a manifestare un convincimento sul merito dell’accusa da parte del giudice che, sulla stessa, sarebbe stato chiamato a pronunciarsi[21].

Su questa scia, in virtù del già menzionato d.lgs. n. 109/2006, modificato dalla l. n. 269 dello stesso anno, costituiscono oggi illecito disciplinare dei magistrati le «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui»[22]; e fra i diritti protetti si annovera anche la garanzia costituzionale della presunzione d’innocenza. Il quadro normativo così molto sinteticamente descritto non esaurisce tuttavia le problematiche sottese alla delicatezza dell’argomento in discorso, considerato che molto spesso nemmeno la comunicazione istituzionale riesce nell’intento di bilanciare l’esigenza di una corretta informazione sulle attività investigative con la garanzia della tutela della presunzione d’innocenza.

 

I “moniti” della Corte EDU: il caso Allenet de Ribemont c. Francia

 

Sembra alquanto riduttivo affermare che la garanzia di un’immagine rispettosa della presunzione di innocenza dell’accusato, quale limite alle dichiarazioni della magistratura alla stampa, appartiene anche all’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ciò in quanto è proprio ai giudici di Strasburgo che si deve il merito di aver fatto emergere le diverse forme nelle quali può concretizzarsi il bilanciamento tra la tutela della presunzione di innocenza e la genuinità delle esternazioni rese sia dai magistrati che da ogni altra autorità pubblica[23].

La garanzia sancita dall’art. 6 § 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha ricevuto dalla stessa Corte una lettura che negli anni ha contribuito ad una crescente valorizzazione della sua valenza extra-processuale. Tanto è vero che, nella più generale ottica del divieto di “far apparire” l’imputato come colpevole anzitempo, costituisce ormai principio basilare nella giurisprudenza di Strasburgo l’assunto secondo il quale i soggetti vincolati al rispetto della presunzione di innocenza all’interno del procedimento lo sono anche nelle comunicazioni all’esterno[24], e ciò in un duplice senso: da un lato,  sotto il profilo dei “sospetti” di colpevolezza dell’imputato manifestati nel contesto di determinati provvedimenti giudiziari e, dall’altro, rispetto a quello delle dichiarazioni direttamente rese alla stampa o oggetto di divulgazione.

Sul primo fronte, la Corte europea ha avuto modo di censurare l’atteggiamento di un giudice che, nel prosciogliere un imputato di diffamazione a mezzo stampa per sopravvenuta prescrizione, lo aveva condannato al pagamento delle spese processuali affermando nella motivazione che, ove non vi fosse stata l’estinzione del reato, il tenore dell’articolo incriminato «avrebbe molto probabilmente comportato la condanna dell’imputato»[25]. Ma non solo: è stata ravvisata, ad esempio, una violazione dell’art. 6 § 2 CEDU anche nel rigetto di un’istanza di riparazione per ingiusta detenzione presentata da un soggetto che era stata assolto da tutte le imputazioni a suo carico e fondato sulla circostanza che proprio dalla motivazione della sentenza emergevano «dubbi sull’innocenza del ricorrente»[26].

Rispetto al secondo profilo, invece, si è sottolineato come l’esigenza di garantire l’effettività di detta garanzia sul piano delle dichiarazioni rese alla stampa imponga di considerare il senso concreto delle stesse dichiarazioni e le circostanze specifiche nelle quali queste sono state formulate. Sicché, il fatto stesso che dichiarazioni pubbliche facciano riferimento alla colpevolezza dell’accusato in termini di non certezza o in forma dubitativa non basta di per sé ad escludere una violazione della presunzione d’innocenza, rilevando il senso assunto dalle esternazioni nelle circostanze concrete[27]. Di più: la possibilità di un “allargamento di prospettive” in ordine alla portata della presunzione di innocenza[28] si è registrata soprattutto sul fronte dell’ampliamento del novero dei soggetti che possono essere chiamati a rispondere di una sua violazione. In questo senso, appare senz’altro significativa la conclusione cui è giunta la Corte europea nel caso Allenet de Ribemont c. Francia[29] che aveva riguardato l’omicidio di un uomo politico francese di grande notorietà: il ricorrente, all’epoca incarcerato e in seguito destinatario di una pronuncia di non luogo a procedere, aveva denunciato come lesive del suo diritto alla presunzione di innocenza le dichiarazioni rese dal Ministro degli Interni e da alcuni funzionari di polizia nel corso di una conferenza stampa trasmessa sui principali telegiornali nazionali.

Segnatamente, a fronte delle doglianze difensive sollevate dal Governo francese con le quali si sosteneva che una violazione della detta garanzia poteva provenire soltanto da un’autorità giudiziaria, la Corte europea precisò invece che l’art. 6 § 2 della Convenzione deve «interpretarsi in modo da garantire diritti concreti ed effettivi, e non teorici e illusori», con la conseguenza che «una violazione della presunzione d’innocenza può promanare non solo da un giudice ma anche da altre autorità pubbliche».

La decisione in esame assume fondamentale importanza anche per la statuizione con la quale i giudici intesero sottolineare che, sebbene in virtù del diritto alla libertà d’espressione sancito dall’art. 10 CEDU – inteso come diritto sia di ricevere sia di fornire informazioni – l’art. 6 § 2 CEDU non può essere interpretato nel senso di impedire alle autorità di informare la gente sulle indagini penali in corso, è però altrettanto necessario che queste lo facciano «con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione d’innocenza».

Sulla scorta dei criteri così adottati, la Corte europea ha successivamente ritenuto di dover annoverare tra le persone fisiche che possono essere considerate “agenti dello Stato”,  per la rilevanza che assumono in relazione ad una possibile violazione della garanzia in esame, anche: il pubblico ministero, il Ministro degli Interni, della Giustizia o dell’Economia, il capo di Stato, il presidente dell’assemblea parlamentare, il primo ministro e, addirittura, il portavoce di un tribunale[30]. Così, sono state ritenute contrarie al principio in esame anche conferenze stampa nell’ambito delle quali un capo della procura aveva indicato che un articolo di giornale costituiva una “minaccia di terrorismo”[31] o in cui il pubblico ministero aveva descritto pubblicamente come “illegali” le azioni nella specie compiute dagli indagati[32] ed, ancora, la condotta  posta in essere da un pubblico ministero o da un agente della polizia incaricato di un’indagine nel partecipare a una trasmissione televisiva nella quale la vicenda giudiziaria di un indagato veniva trattata in chiave colpevolista[33]. Questa è dunque l’ottica della Corte europea dei diritti dell’uomo dalla quale, come si vedrà a breve, trae spunto la recente Direttiva europea in tema di presunzione di innocenza.

 

La Direttiva 2016/343/UE sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e l’impatto sull’ordinamento italiano

 

La Direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016[34], sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, evoca argomenti di grande rilievo per i sistemi processuali degli Stati europei.

Ad oltre un decennio dal tentativo della Commissione di innalzare il livello delle garanzie nel territorio dell’Unione con il Libro verde del 19 febbraio 2003[35] sulle garanzie procedurali a favore di indagati e imputati in procedimenti penali nel territorio dell’Unione Europea, l’emanazione della Direttiva in esame si inserisce nel contesto di un complessivo disegno che intravede nell’armonizzazione delle legislazioni processuali penali lo strumento migliore, seppure di difficile compimento, per garantire la fiducia reciproca tra gli Stati membri.

Considerata fin da subito[36] come non pienamente appagante rispetto al suo moto d’origine rappresentato dall’altro “Libro verde sulla presunzione di non colpevolezza” emanato dalla Commissione nel 2006[37], nondimeno ciò che questa Direttiva ha consentito di salutare favorevolmente è la scelta di un nuovo complessivo approccio alla tematica processuale penale che l’Unione Europea ha mostrato di aver maturato. Al riguardo, in realtà, si è ampiamente osservato che se, in un primo momento, l’opera di armonizzazione europea ha privilegiato strumenti diretti a migliorare l’efficienza della giustizia penale in un’ottica prevalentemente preventiva e repressiva[38] – affidando peraltro al solo principio del mutuo riconoscimento lo scopo di rafforzare la cooperazione giudiziaria degli Stati [39]– a partire dal 2009 l’ambito di intervento delle istituzioni europee ha fatto registrare un nuovo trend in senso maggiormente garantistico e sensibile ai diritti di difesa degli indagati-imputati.

Ed è stato in forza di tale mutamento di indirizzo politico, infatti, che sono state adottate dalle istituzioni dell’Unione Europea misure concernenti il diritto alla traduzione e all’interprete, il diritto a informazioni relative ai diritti e all’accusa, il diritto alla consulenza e all’assistenza legale, il diritto alla comunicazione con i familiari, e garanzie speciali per gli indagati o imputati vulnerabili[40]. La rinnovata attenzione per l’armonizzazione si spiega, pertanto, con la maturata consapevolezza che non può esserci piena fiducia reciproca senza una effettiva attuazione dei diritti fondamentali nel contesto degli ordinamenti europei.

Proprio in questo quadro si inserisce il detto testo europeo, che, muovendo lungo le tre principali direttive concernenti il divieto di presentare in pubblico l’indagato o l’imputato come colpevole (artt. 4 e 5), l’onere della prova (art. 6) e il diritto al silenzio e alla non incriminazione (art. 7), si propone di garantire un “equo processo” anche sotto il profilo dal “rafforzamento” della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al giudizio.

Senza alcuna pretesa di esaustività, ci si soffermerà in questa sede sul primo profilo concernente il diritto dell’imputato a non essere “presentato” in pubblico come colpevole.

Con riguardo all’ambito applicativo, va segnalato che, per espressa previsione normativa, la presente Direttiva si applica solo ai procedimenti penali, con esclusione di quelli civili o amministrativi «anche quando questi ultimi possono comportare sanzioni, quali i procedimenti in materia di concorrenza, commercio, servizi finanziari, circolazione stradale, fiscalità o maggioranza di imposta, e alle indagini connesse svolte da autorità amministrative» (considerandum n. 9), e limitatamente alle persone fisiche, indagate o imputate della commissione di un reato, in ogni fase del procedimento penale, sino a quando non diventi definitiva la decisione che stabilisce se la persona abbia commesso il reato (art. 2). Con quest’ultima scelta, ritenendo “prematuro” un intervento in questo settore, si è voluto evitare, pur non risparmiando perplessità e precise critiche in dottrina[41], di estendere l’applicazione del detto strumento di garanzia anche alle persone giuridiche, e ciò nonostante queste ultime siano già soggette a numerosi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, come l’Ordine di indagine europeo 2014/41/UE dell’aprile 2014 o la Decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all’esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro. Queste ultime, unite ad altre limitazioni, inducono effettivamente a pensare che «i principi espressi son timidi e talora del tutto irrilevanti» con l’eccezione tuttavia di «alcune parti destinate a porre non pochi problemi al legislatore italiano chiamato all’adeguamento»[42]. Il riferimento va, in particolare, ai potenziali veicoli di messaggi contrastanti con la presunzione d’innocenza e rappresentati dalle “dichiarazioni in pubblico rilasciate da autorità pubbliche”.

 

Il ritardo dell’Italia nell’attuazione della Direttiva

Nonostante la Direttiva sulla presunzione d’innocenza sia stata inserita nella Legge di delegazione europea 2016-2017[43], a ben due anni dalla scadenza del termine per il suo recepimento – fissato dall’art. 14 del testo europeo al 1° Aprile 2018 – l’Italia non ha ancora adottato alcuna misura legislativa finalizzata ad una definitiva trasposizione dei suoi principi nel nostro ordinamento. Di conseguenza, malgrado le indicazioni del legislatore euronitario, il nostro Paese ad oggi non è nemmeno riuscito ad osservare il termine, fissato al 1° Aprile 2020, per inoltrare alla Commissione europea i dati relativi alle modalità di attuazione dei principi e dei diritti sanciti dalla medesima Direttiva[44]. Il ritardo del legislatore italiano si riflette così anche sull’obbligo, stabilito dall’art. 10, di provvedere affinché gli indagati e gli imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla medesima. Al considerandum n. 44 si prevede, infatti, che «un mezzo di ricorso efficace che sia disponibile in caso di violazione dei diritti sanciti dalla presente direttiva dovrebbe avere, per quanto possibile, l’effetto di porre l’indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa».

In attesa di una sua quanto più celere attuazione anche in Italia, nel prosieguo del presente contributo si offriranno alcuni spunti in ordine alle possibili discrasie tra i principi sanciti nella Direttiva e la situazione italiana, sotto il duplice profilo della legislazione vigente e della prassi applicativa; in particolare, ci si soffermerà sulle prassi comunicative che si concretizzano nell’organizzazione di conferenze stampa da parte degli organi inquirenti e nella diffusione di materiale video informativo per il tramite dei canali delle forze di polizia.

Attività che, per la loro rilevanza ed espansione, non potranno essere trascurate da un Legislatore che voglia essere quanto più accorto nel dare effettiva attuazione ai principi sanciti dalla Direttiva: ai sensi del considerandum n. 16 si precisa invero che «la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole».

 

Le conferenze stampa degli organi inquirenti

 

L’art. 4 § 1 della Direttiva 2016/343 stabilisce che gli Stati membri devono adottare «tutte le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche (..) non presentino la persona come colpevole».

Nel considerandum n. 17 si precisa poi che per dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche «dovrebbe intendersi qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato e proveniente da un’autorità coinvolta nel procedimento penale che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all’applicazione della legge, o da un’altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici (..)».

Come osservato in dottrina[45], la previsione in esame richiama in modo percettibile la giurisprudenza della Corte di Strasburgo consolidatasi a partire dal ben noto caso Allenet de Ribemont c. Francia, nell’ambito del quale si era precisato – lo si ricorda nuovamente – che la presunzione di innocenza risulta violata ogni qual volta dichiarazioni di colpevolezza derivino da un’opinione di un’autorità statale, prima ancora che la stessa sia stata legalmente accertata. In considerazione poi delle dinamiche di contesto in cui quelle dichiarazioni erano trapelate, il caso citato evoca inevitabilmente il tema delle conferenze stampa.

Si tratta, com’è noto, di uno strumento frequentemente utilizzato dalle procure o dalle forze di polizia e parecchio discusso in dottrina per via della sua particolare idoneità a prestarsi a facili strumentalizzazioni. Tuttavia, il problema forse sarebbe mal posto se si pensasse che la Direttiva in esame sia tesa ad espellere in radice questo strumento comunicativo dagli ordinamenti degli Stati membri: basti pensare che tale esegesi si rivelerebbe senz’altro in contrasto con la raccomandazione Rec 2003(13) del Comitato del Consiglio d’Europa che, al Principio 5, individua nei comunicati stampa e nelle conferenze stampa i modi migliori per fornire informazioni ai media; ed ancora, sarebbe incoerente con il più recente Parere (2013) n. 8 del CCPE (Consiglio Consultivo del Procuratori Europei) che suggerisce come mezzo di comunicazione utilizzabile dalle procure per comunicare all’esterno proprio i comunicati e le conferenze stampa, tenute con la collaborazione delle autorità di polizia. Ed invero, il già citato art. 4 § 1 della Direttiva non richiama espressamente le conferenze stampa ma impone agli Stati di predisporre le misure necessarie a garantire che «dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche (..) non presentino la persona come colpevole». Ora, se è vero che la conferenza stampa ufficiale è attualmente «l’unico strumento per veicolare le informazioni essenziali, garantendo parità di accesso a tutti i giornalisti»[46], è altrettanto innegabile che è proprio in quella particolare sede si consumano le violazioni più “subdole” della garanzia della presunzione di innocenza.
In proposito, non va sottaciuto come la mancanza di un’apposita disciplina che regolamenti nel dettaglio la prassi di illustrare i risultati delle attività investigative nel corso di conferenze stampa, più che scongiurare il rischio di indebite dichiarazioni, sembri invece agevolarlo[47].
In Italia ed esempio, ad oggi, non esiste in Italia una casistica precisa per questo tipo di conferenze stampa, tanto sono disparate le situazioni e le finalità cui le stesse possono rispondere[48]: non può certo negarsi l’importanza, talvolta fondamentale, di correggere informazioni errate e di fornire gli opportuni chiarimenti su questioni che infondatamente allarmano l’opinione pubblica. Ma, in tutti gli altri casi, è lecito chiedersi se è opportuno che la scelta del come e del quando comunicare per mezzo di conferenze stampa continui ad essere rimessa alla sola discrezionalità del singolo organo inquirente – considerato, inoltre, che risulta ancora controversa la questione della partecipazione alle conferenze stampa delle autorità di polizia che hanno proceduto alle indagini e agli arresti[49] – o se, invece, non sia il caso di predisporne limiti, tempistiche e modalità attraverso un intervento del legislatore.

Al riguardo, si deve invero precisare che il già citato D.lgs. n. 106/2006, nel disciplinare i rapporti tra procure e organi d’informazione, sancisce soltanto l’obbligo del Procuratore della Repubblica di mantenere personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione, ma senza disporre in ordine alle modalità concrete di organizzazione delle conferenze stampa. Tant’è che un’indicazione aggiuntiva in tal senso è stata fornita dal Consiglio Superiore della Magistratura che, con deliberazione del 10 settembre 2008, ebbe a precisare che «non appare (..) compatibile con lo spirito e la lettera della norma la possibilità di prevedere la partecipazione alle conferenze stampa del magistrato titolare del procedimento, quando questi sia diverso dal procuratore capo o dal procuratore aggiunto all’uopo delegato», pur concedendo che «il magistrato titolare delle indagini collabori nella preparazione della conferenza stampa, fornendo elementi informativi».
Dunque, che i rapporti con gli organi d’informazione debbano essere tenuti esclusivamente dal Procuratore della Repubblica, o da un suo delegato, è un principio generalmente ribadito anche dalle disposizioni interne delle maggiori Procure, le quali però talvolta non mancano di derogare alla regola in questione: alcuni progetti organizzativi interni alle procure, infatti, pur riservando al Procuratore della Repubblica i rapporti con la stampa, ammettono – o hanno ammesso in passato – alcune prassi differenti «per i casi di significativo interesse pubblico»[50]: dal comunicato stampa emesso dalle forze di polizia d’intesa con la Procura, all’incontro con la stampa del Procuratore aggiunto che ha coordinato le indagini, fino alla partecipazione fisica delle forze di polizia interessate.
Come si comprende, la possibilità degli uffici giudiziari di valutare modalità, forme e tempi “opportuni” per la diffusione di notizie per il tramite di comunicati o conferenze stampa dimostra come la discrezionalità in materia sia sostanzialmente illimitata.
Un altro aspetto su cui si auspica un intervento legislativo coerente con le prescrizioni della Direttiva concerne, più in particolare, la tempistica entro la quale potrebbe tenersi una conferenza stampa che possa dirsi rispettosa del diritto dell’indagato a non essere presentato come colpevole anzitempo. E’ a tutti nota, infatti, la prassi di tenere conferenze stampa la mattina stessa dell’applicazione di misure cautelari: proprio alla luce dei principi sanciti dalla Direttiva europea, tale evenienza, a detta di certa dottrina, non dovrebbe avere più spazio nel nostro ordinamento[51]; tanto più ove si consideri che la caratteristica dell’”unilateralità” della conferenza stampa non soltanto risulta incompatibile con le garanzie sottese al contraddittorio, ma è altresì accentuata dal fatto che il più delle volte la conferenza stampa è tenuta prima ancora che il soggetto sottoposto a misura cautelare sia stato messo nelle condizioni di interloquire con le autorità giudiziarie in sede di interrogatorio di garanzia. Risulta pertanto difficile ritenere che, in casi del genere, la tempestività della conferenza stampa sia giustificata da ragioni connesse all’esigenza di correggere in tempo informazioni errate.
Se è vero, dunque, che qualsiasi forma di comunicazione istituzionale è contraddistinta da un’aurea di attendibilità che intensifica l’affidamento in chi la riceve, sarebbe auspicabile una regolamentazione del fenomeno che possa contemperare in modo più equilibrato le attività comunicative dell’autorità giudiziaria con il diritto alla presunzione d’innocenza dei soggetti coinvolti. E ciò quanto più si consideri che proprio la conferenza stampa è il luogo fisiologicamente deputato alla divulgazione di ogni tipologia di materiale informativo diretto a propagandare la fondatezza delle inchieste giudiziarie, passandosi talvolta dalla censurabile prassi di mostrare le foto segnaletiche degli indagati[52], alla distribuzione di supporti informatici contenenti gli audio di determinate intercettazioni[53], fino alla divulgazione di video tanto “suggestivi” quanto non sempre rispettosi dei divieti di pubblicazione posti dalle norme del codice di procedura penale. Ed è proprio su quest’ultimo profilo che la Direttiva sembra imporre al legislatore adeguamenti interni di non poco conto.

 I “video-highlights” della polizia giudiziaria

L’art. 4 § 3 della Direttiva 2016/343 stabilisce che «l’obbligo (..) di non presentare gli indagati o gli imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, quando ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico». La norma deve essere letta congiuntamente al considerandum n. 18 che, tra i casi di divulgazione necessaria per «motivi connessi all’indagine», annovera sia la diffusione di materiale video sia l’ipotesi di invito del pubblico affinché collabori l’individuazione del presunto autore del reato. Si precisa, inoltre, che «il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi» e che, in ogni caso, «le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia legalmente provata».

Dalla suddetta norma si ricava che l’attività diretta alla diffusione di materiale video rientra tra i casi di “divulgazione necessaria” che, per espresso disposto della presente Direttiva, deve essere essere ragionevole, proporzionata e limitata allo “stretto necessario”. Tanto premesso, c’è da chiedersi se il fenomeno dei “video giudiziari” che, negli ultimi decenni, si è ormai sviluppato in maniera sempre più incontrollata nel contesto italiano, risponda pienamente ai parametri di “divulgazione necessaria” stabiliti dalla Direttiva o, piuttosto, rientri nel novero dei fenomeni degenerativi che quest’ultima intende scongiurare.
A prima vista la risposta non è di pronta soluzione, tanto più ove si consideri che ad oggi non sembra esserci una precisa casistica delle modalità con le quali tale materiale viene divulgato. Tuttavia è pur vero che i sempre più frequenti fenomeni “degenerativi” registratisi nelle prassi comunicative degli ultimi anni hanno reso ancor più incerto il confine, già di per sé labile, tra servizio d’informazione e finalità auto-promozionali degli organi inquirenti, ancor più se tale divulgazione sia accompagnata da un improprio uso di retorica moralistica[54].

Generalmente, infatti, quando si parla del fenomeno dei c.d. “video-highlights[55] si fa riferimento alla predisposizione di filmati confezionati dagli investigatori nel corso delle indagini preliminari e che compaiono con il logo istituzionale del corpo di polizia di appartenenza. Tale uso pre-processuale di atti d’indagine formatisi, com’è ovvio, fuori da ogni tipo di contraddittorio, è stato più volte stigmatizzato dall’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane (UCPI) che ha piuttosto ritenuto tali video finalizzati a «condizionare e (con)formare l’opinione pubblica prima dello svolgimento del vero e proprio processo»[56].
Non a caso, infatti, i video che vengono prontamente diffusi dagli investigatori contestualmente all’esecuzione di determinate misure cautelari o a corredo di comunicati stampa predisposti in concerto con la Procura, riportano talvolta anche brani integrali di conversazioni di intercettazioni telefoniche o ambientali eseguite nel corso delle indagini preliminari, ponendosi in violazione dell’art. 114, co. 7 c.p.p., che consente la pubblicazione del solo “contenuto” di atti processuali non più segreti.
Di più: questi video realizzati e diffusi dalle forze dell’ordine, nel descrivere sinteticamente le operazioni investigative compiute, rischiano di instillare nell’opinione pubblica l’idea che la responsabilità dei soggetti indagati sia già stata legalmente accertata. Il più delle volte accompagnati da suggestive “colonne sonore”[57] capaci di condizionare emotivamente qualsiasi spettatore, i video giudiziari finiscono per fornire un’informazione che pregiudica la presunzione d’innocenza: ciò è vero quanto più si considera che l’utilizzo del logo istituzionale del corpo di polizia attribuisce al materiale multimediale una sorta di “garanzia” di attendibilità perfino maggiore rispetto a qualsiasi immagine/video proveniente dagli stessi organi d’informazione.
Emblematico, al riguardo, l’episodio riguardante il filmato del furgone di Giuseppe Massimo Bossetti, sospettato e poi condannato in via definitiva per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio: in quella occasione, a poche ore dall’arresto dell’uomo, venne prontamente diffuso alla stampa un filmato che ritraeva il furgone descritto dagli inquirenti come quello di Bossetti aggirarsi più volte attorno alla palestra frequentata dalla vittima; solo successivamente, dalla deposizione di un Colonnello dei RIS resa dinanzi alla Corte di Assise di Bergamo, si apprese che quel video trasmesso ripetutamente per mesi sulle tv nazionali era stato “confezionato” dai RIS concordemente con la Procura per soddisfare precise “esigenze comunicative”[58], a fronte delle pressioni mediatiche createsi attorno alla vicenda. A fronte di questi rischi concreti, occorre allora chiedersi se le attività in cui si concretizza il preventivo “montaggio” dei predetti video giudiziari – che ovviamente consta della selezione accurata dei fotogrammi, delle conversazioni, delle intercettazioni  e talvolta della delle musiche da sottofondo inserite – siano o meno soggette a specifiche regolamentazioni che ne delimitino gli ambiti di applicazione, tenuto conto anche delle prescrizioni sancite nella Direttiva.
Invero, la problematica in questione è stata sollevata dall’Unione delle Camere Penali Italiane che, esercitando il diritto di accesso alla documentazione amministrativa previsto dalla L. 241/90, ha formalmente richiesto ai Ministeri della Difesa, degli Interni e dell’Economia di conoscere quale sia la disciplina dei c.d. “trailers giudiziari”, sia pure senza  ottenere significative risposte[59]. Se ne deduce che mancano  precise disposizioni di legge che disciplinano tali attività. Semmai, è da rilevare l’esistenza di talune circolari interne ai singoli uffici di polizia giudiziaria dirette a fornire una disciplina minima del fenomeno.
L’Arma dei Carabinieri, ad esempio, ha disciplinato i rapporti da tenere con gli organi d’informazione con la circolare n. 2349/91-1 del 24 settembre 2017 (All. A)[60], la quale regola, nel pieno rispetto dei diritti dei singoli, anche la produzione di materiale multimediale da divulgare a corredo di conferenze/comunicati stampa: questa circolare, nel sottoporre a preventive autorizzazioni di carattere centrale o periferico la diffusione di comunicati stampa o il rilascio di interviste, video-riprese e fotografie realizzate in proprio, prescrive altresì che, nell’espletamento di tali attività, «devono sempre essere osservate le disposizioni che regolano il segreto e il divieto di pubblicazione di atti (art. 114, 115 e 329 c.p.p.)», mentre l’uso di strumenti multimediali (foto/video/slide/cartelloni), che «è frequente strumento di comunicazione a corredo di comunicati e conferenze stampa», deve essere «tendenzialmente contestualizzato all’attività svolta» e deve riportare sempre il logo della “fiamma” e la scritta “Carabinieri” in sovrimpressione.
Con tutti i limiti sottesi al circoscritto ambito di applicazione di ogni disposizione interna, la circolare analizzata prescrive chiaramente il rispetto dei divieti di pubblicazione per l’attività di diffusione di materiale video, senza lasciare  margini di discrezionalità che possano giustificarne una diversa interpretazione.

Sul piano dei rapporti tra organi investigativi e informazione appare altresì utile richiamare le “Linee guida per una efficace pianificazione delle attività di acquisizione, produzione e utilizzo di materiale video-fotografico”: si tratta di un gruppo di lavoro istituito nel 2013 e composto da dirigenti del Servizio Ordine Pubblico e del Servizio Polizia Scientifica che, pur disciplinando attività soltanto connesse a momenti investigativi, nella parte dedicata alla “post-produzione” ha precisato che «l’attività di raccolta e ricostruzione dei fatti e degli eventuali incidenti verificatisi» debba, tra le altre cose, perseguire le seguenti finalità: predisporre un impianto accusatorio, informativo e probatorio, che sia solido sul piano giuridico; replicare adeguatamente e nelle previste sedi a campagne di contro-informazione condotte contro le Forze di polizia; catturare il contesto generale dell’intervento in atto per garantire una valutazione più obiettiva anche da parte dell’opinione pubblica[61]. Sembrerebbe dunque che fra la (legittima) attività d’informazione sulle vicende processuali in corso ed la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte si frapponga, in maniera sempre più evidente, ancorché discutibile, il perseguimento di talune finalità di legittimazione “esterna” nell’opinione pubblica che induce gli inquirenti e le forze di polizia ad utilizzare un linguaggio quanto più “mediatico” prima ancora che istituzionale.
Se poi a tutto ciò aggiungiamo i rischi connessi al monopolio dell’autorità inquirente circa il rifornimento delle notizie agli organi di stampa[62], non può che conseguirne un impianto complessivamente “precario” sul piano della tutela effettiva della presunzione d’innocenza.
La predisposizione di una disciplina specifica che regolamenti la diffusione pre-processuale di materiale video informativo potrebbe rappresentare pertanto un primo e importante antidoto verso tutte quelle “distorsioni” che pure, più o meno velatamente, si celano dietro la comunicazione istituzionale.

Conclusioni

Se è vero che sono le cronache quotidiane a mostrarci lo spettacolo desolante di arrestati in manette o ad offrirci le lettura di fiumi di intercettazioni ed informazioni coperte dal segreto o non altrimenti pubblicabili, come si è osservato, è altrettanto vero che “distorsioni” di questo tipo risultano agevolate da una non corretta comunicazione da parte degli organi inquirenti. In tempi in cui il colpevole viene individuato e punito dal “tribunale del popolo” che, sulla base di una conoscenza profana, emette condanne prontamente mediatiche ed esemplari, riaffermare l’importanza del diritto alla presunzione di innocenza significa altresì garantire la funzione cognitiva del processo penale: quest’ultimo è infatti un insieme sofisticato di regole di accertamento che l’azione dei mezzi di informazione tende spesso a frantumare, a vanificare. Consapevoli del fatto che qualunque sia la strada che il legislatore italiano deciderà – e se deciderà al più presto – di intraprendere potrebbe costituire soltanto un “palliativo” alle criticità del fenomeno descritto, “reagire” ad una simile involuzione di civiltà giuridica è possibile soltanto attraverso un radicale mutamento della cultura del nostro Paese: ciò che si auspica, in definitiva, per dirla con le parole del Professore Amodio, è il recupero di una “estetica giudiziaria” che non sia “esasperazione” delle forme, bensì presidio a garanzia dell’imputato e mezzo per l’accrescimento della fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie.


Note

[1] O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in Dir. pen. cont., 9 aprile 2019, p. 3.

[2] A titolo esemplificativo: Stadio Roma, Di Maio: «Lanzalone si deve dimettere: per reati così gravi non esiste presunzione di innocenza», in «Il Mattino», 14 giugno 2018; Caso De Vito, Bonafede: «I fatti sono troppo gravi. Se anche fosse innocente non può restare con noi», in «Corriere della Sera», 20 marzo 2019; M5S: Siri? Nessuno può nascondersi dietro presunzione innocenza, in «LaPresse», 23 aprile 2019.

[3] Emblematico L. Capone Anche gli innocenti sono colpevoli. Davigo e il rovescio dello stato di diritto, in «Il Foglio», 2 febbraio 2017.

[4] Le espressioni riportate nel testo sono di L. Violante, Populismo e plebeismo nelle politiche criminali, in Criminalia, 2014, p. 198.

[5] Cfr. V. Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Questione Giustizia, 26 marzo 2019, p. 6.

[6] Per una ricostruzione delle tappe principali di questa trasformazione v. G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, Jovene, Napoli, 2011, p. 68 s.

[7] G. Salvini, Avviso di garanzia, ecco perché va tenuto segreto, in «Il Dubbio», 6 aprile 2017: «Bisogna cercare di essere un po’ meno, come hanno scritto l’on. Violante e il prof. Fiandaca, una “società giudiziaria”, quella che i greci chiamavano “critocrazia”, il governo dei giudici (..)».

[8] Secondo O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, cit., p. 4, «si passa dall’imputazione direttamente alla punizione, saltando la cognizione e la condanna, in spregio della presunzione di innocenza che, invece, ha come principale valore proprio quello di garantire l’esigenza cognitiva: prima di punire bisogna condannare, prima di condanna bisogna conoscere e per conoscere bisogna processare».

[9] Si pensi alla novità introdotta con la recente legge c.d. “Spazzacorrotti” che ha esteso ai reati di corruzione la figura del c.d. “agente infiltrato”; sicché al noto canone dell’in dubio pro reo, il medesimo legislatore sembrerebbe voler contrapporre quello della presunzione di colpevolezza fino a prova contraria.

[10] L’efficace espressione è di C. Valentini, La presunzione d’innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, in Processo penale e giustizia, n. 6, 2016, p. 197.

[11] E. Amodio, Estetica della giustizia penale, Giuffrè, Milano, 2016, p. X.

[12] Ivi, p. 23. Scrive l’Autore: «Lo statuto dell’estetica fa riferimento al complesso delle garanzie che devono contrassegnare l’esteriorità del processo per frenare ogni arbitrio o sopruso dettato dalle spinte repressive».

[13] Per queste considerazioni v. R. Fuzio, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Il Foro Italiano, 2007, n. 2, p. 70 s.

[14] La norma sanzionava il magistrato autore «in ufficio o fuori (di) una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». In dottrina v. G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, cit., p. 298 s.

[15] Ivi, p. 299. Molte, invero, sono le decisioni che hanno ribadito come la libertà di manifestazione del pensiero da parte dei magistrati incontri i limiti derivanti dai doveri connessi all’esercizio delle proprie funzioni. Cfr. in giurisprudenza: Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 9; Cass., sez. un., 20 novembre 1998, n. 11732; Cass., sez. un., 26 ottobre 1998, n. 10618; Cass., sez. un., 12 aprile 2005, n. 7443.

[16] Così E. Amodio, Estetica della giustizia penale, cit., p. 88.

[17] G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, cit., pp. 315-316.

[18] V. ad esempio, C.S.M., se. disc., 8.3.2005, proc. n. 86/2006, in Quad. C.S.M. 2006, n. 149, p. 188, secondo cui «non integrano una violazione dei doveri di correttezza e di riserbo le dichiarazioni rese ad organi di stampa dal Procuratore della repubblica in merito all’attività investigativa in corso nell’ambito di un procedimento che siano consistite in una rappresentazione dell’inchiesta in atto opportunamente prudente e adeguata all’allarme creato nell’opinione pubblica dalla vicenda».

[19] D.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, recante Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150.

[20] Sul punto, E. Amodio, Estetica della giustizia penale, cit., p. 59, che cita M. Sbriccoli, La benda della giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo all’età moderna, in Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Giuffrè, Milano, 2003.

[21] Cfr. G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, cit., pp. 313-315. Cfr. C.S.M., sez. disc., 6.4.1992, procc. n. 10/1990, 62 e 73/1991, in Quad. C.S.M. 1996, n. 85, p. 189.

[22] Art. 2 co. 1 lett. v d.lgs. n. 109/2006.

[23] Per queste considerazioni cfr. M. Chiavario, La presunzione d’innocenza nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giurisprudenza italiana, 2000, n. 5, p. 1089 s., nonché P. P. Paulesu, La presunzione di innocenza tra realtà processuale e dinamiche extraprocessuali, in A. Balsamo – R.E. Kostoris (a cura di) Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Giappichelli, Torino, 2008, p. 125 s.

[24] V. G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, cit., p. 300.

[25] Corte EDU, Minelli c. Svizzera, sent. 25 marzo 1983, ricorso n. 8660/79, § 37: «La presunzione d’innocenza si trova misconosciuta se, senza previo accertamento legale della colpevolezza di un prevenuto e in particolare senza che quest’ultimo abbia avuto modo di esercitare i diritti della difesa, una decisione giudiziaria emessa nei suoi confronti rifletta la convinzione che egli è colpevole». Su quest’ordine di idee, v. anche Corte EDU, Lutz c. Germania, sent. 25 agosto 1987, ricorso n. 9912/92, § § 59 s. che distingue tra esternazioni di convinzioni colpevoliste e la mera intenzione, in una motivazione giudiziale, di «ragioni plausibili di sospetto» rilevando altresì come queste ultime non sono di per sé incompatibili con la presunzione d’innocenza. Per una più attenta disamina v. M. Chiavario, La presunzione d’innocenza nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1092.

[26] Corte EDU, Sekanina c. Austria, sent. 25 agosto 1993, serie A n. 266 A,9, § 27.

[27] Si deve, cioè, considerare «le sens réel des déclarations en question, et non leur forme littérale». Cfr. Corte EDU, Lavents c. Lettonia, sent. 28 novembre 2002, ricorso n. 58442/00, § 126; Y.B. e altri c. Turchia, sent. 28 ottobre 2004, ricorso n. 48173/99 e n. 48319/99, § 44; nonché Neagoe c. Romania, sent. 21 luglio 2015, ricorso n. 23319/08, § 46, nella quale un portavoce della Corte d’Appello aveva utilizzato termini come “suppongo” o “è probabile” in merito alla possibilità di condanna dell’imputato.

[28] L’espressione è di M. Chiavario, Giustizia penale, Carta dei diritti e Corte europea dei diritti umani, in Riv. dir. proc., 2002, p. 33.

[29] Corte EDU, Allenet de Ribemont c. Francia, sent. 10 febbraio 1995, ricorso n. 15175/89.

[30] Sullo specifico argomento v. l’ampia disamina di R. CHENAL, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. pen. Cont – Riv. trim., 2017, n. 3, pp. 39-40.

[31] Corte EDU, Fatullayev c. Azerbaigian, sent. 22 aprile 2010, ricorso n. 40984/07, § 162.

[32] Corte EDU, Ilgar Mammadov c. Azerbaigian, sent. 22 maggio 2014, ricorso n. 15172/13, § 127.

[33] Corte EDU, Khoujine e altri c. Russia, sent. 23 ottobre 2008, ricorso n. 13470/02, § 91.

[34] Il testo è consultabile al seguente link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32016L0343

[35] Libro verde della Commissione – Garanzie procedurali a favore di indagati e imputati in procedimenti penali nel territorio dell’Unione Europea, 19.2.2003 COM(2003) 75 sub https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52003DC0075.

[36] Tra i primi commenti che, nella dottrina italiana, hanno riportato tale percezione cfr. O. Mazza, Una deludente proposta in tema di presunzione d’innocenza, in Arch. pen., 2014, n. 3, p. 1 s; più di recente, C. Valentini, La presunzione di innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, in Processo penale e giustizia, 2016, n. 6, p. 193 s; L Camaldo, Presunzione di innocenza e diritto di partecipare al giudizio: due garanzie fondamentali del giusto processo in un’unica Direttiva dell’Unione europea, in Dir. pen. cont., 23 marzo 2016. Una lettura positiva è data da A. De Caro, La recente direttiva europea sulla presunzione di innocenza e sul diritto alla partecipazione al processo, in www.quotidianogiuridico.it, 23 febbraio 2016.

[37] Libro verde della Commissione sulla presunzione di non colpevolezza, Bruxelles, 26.04.2006, COM/2006/0174 def., sub https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52006DC0174

[38] Sul punto O. Mazza, Una deludente proposta in tema di presunzione d’innocenza, cit., p. 1, parla di «una visione angusta e distorta del processo penale inteso come strumento di difesa sociale, una barriera da ergere a fronte della minaccia rappresentata da gravi forme di criminalità organizzata e transazionale, compreso il terrorismo».

[39] Ibidem. L’Autore non risparmia note critiche sottolineando che «la sua forza anomala (del mutuo riconoscimento, ndr) risiede nella capacità di ottimizzare i risultati con il minimo sforzo: volendo usare uno slogan, si potrebbe dire che vincola, ma non impegna a mutare la legislazione interna».

[40] Cfr. M. Cagossi, Prosegue inarrestabile il percorso verso il rafforzamento dei diritti processuali dei cittadini dell’Unione Europea, in Dir. pen. cont., 20 dicembre 2013.

[41] V. la nota critica dell’Osservatorio Europa dell’Unione Camere Penali Italiane, La Direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali: più ombre che luci, in www.camerepenali.it, 18 marzo 2016, nonché N. Canestrini, La direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Un’introduzione, in Cass. pen., 2016, n. 5, p. 2232.

[42] La frasi riportate sono di C. Valentini, La presunzione di innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, cit., p. 194.

[43] Legge 25 ottobre 2017 n. 163 “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017” consultabile (GU n. 259 del 6-11-2017).

[44] Ricorda le criticità del sistema attualmente vigente in Italia e la mancanza di tutele in tema di dichiarazioni colpevoliste anche F. Costarella, Presunzione di innocenza e diritto comunitario, in Riv. Diritto di difesa, 27 aprile 2020. L’Autore ribadisce il vistoso ritardo nel quale è incorsa l’Italia nel recepimento della Direttiva.

[45] Cfr., sul punto, G. Mantovani, Informazione, presunzione d’innocenza e “verginità del giudice”. L’Italia e l’Europa, in Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane (a cura di ) L’Informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, Pacini Giuridica, 2016, p. 131; C. Valentini, La presunzione di innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, cit., p. 196.

[46] Così E. B. Liberati, Prassi disciplina e prospettive dell’informazione giudiziaria, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, n. 3, p. 9.

[47] Dell’opportunità di disciplinare la prassi delle conferenze stampa in un’ottica più rispettosa della presunzione di innocenza è convinto anche P. P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, 2^ ed., Giappichelli, Torino, 2009, p. 167, che auspica un intervento legislativo coerente con le indicazioni fornite al riguardo dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

[48] E. B. Liberati, Prassi disciplina e prospettive dell’informazione giudiziaria, cit., p. 9.

[49] Ivi, p. 10. L’Autore, già Procuratore della Repubblica di Milano, ammette che negare la partecipazione in conferenza stampa agli organi di polizia rischierebbe di produrre effetti ancor più pregiudizievoli perché, altrimenti, «si tradurrebbe nelle conferenze stampa in Questura, Comandi di Carabinieri e Guardia di Finanza e nella diffusione di filmati, messi a disposizione delle Tv, sulla “brillante operazione”, magari con la ripresa degli arrestati in manette (..)».

[50] Deroghe al generale criterio che regola i rapporti tra Procuratore della Repubblica e organi d’informazione sono, per esempio, stabilite nel Progetto organizzativo 2014-2016 della Procura della Repubblica di Roma, n.761/14 Prot. Gab. TAB – Capitolo III – Rapporti con la stampa. Tra queste si annoverano l’incontro con la stampa del Procuratore aggiunto e la conferenza stampa tenuta dal Procuratore e/o dall’aggiunto competente con la partecipazione delle forze di polizia.

[51] C. Valentini, La presunzione di innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra, cit., p. 198.

[52] Emblematico l’episodio evidenziato da alcuni articoli apparsi sui quotidiani del 6 gennaio 2018. In particolare, “Libero” riportava che, nel corso di una conferenza stampa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Padova aveva mostrato le foto segnaletiche di alcuni indagati «perché le telecamere delle televisioni locali riprendessero bene i volti di questi malviventi e li diffondessero nelle case della gente». Non solo: «nel corso della conferenza stampa il comandante ha anche illustrato una sorta di vademecum per difendersi dai ladri». V. Il comandante dei carabinieri infuriato: ‘Questi signori ladri tornano liberi e riprenderanno a rubare. I volti degli otto albanesi segnalati pubblicamente dai carabinieri di Padova, in «Libero», 6 gennaio 2018.

[53] Un episodio di questo tipo è stato, ad esempio, denunciato dall’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane: a Lucca un’inchiesta sul doping è sfociata in una conferenza stampa della locale Procura e degli investigatori in cui sono state distribuite ai giornali “chiavette” contenenti gli audio di alcune intercettazioni telefoniche poi regolarmente pubblicati on-line con tanto di sottotitoli dei colloqui. V. Le chiavette del Paradiso (mediatico), in www.camerepenali.it, 12 febbraio 2018.

[54] Discutibile il comportamento del Procuratore della Repubblica di Bari che, nel corso di una conferenza stampa indetta per spiegare i dettagli dell’indagine su un presunto giro di tangenti al Teatro Petruzzelli, ha affermato di aver voluto autorizzare la diffusione delle sequenze video che riprendevano alcuni degli indagati mentre ricevevano le buste di denaro «perché sono riprese molto efficaci e spero possano avere un valore deterrente». V. Tangenti al Petruzzelli, il procuratore di Bari: “Il video serva da lezione”, in «La Repubblica», 13 gennaio 2016.

[55] L’espressione è di L. Granozio-F. Romeo, Gli “highlights” processuali. Comunicazione giudiziaria, magistratura, stampa: una sintesi dell’evoluzione dagli anni ’70 ai giorni nostri, in L’informazione giudiziaria in Italia, cit., p. 160 s.

[56] Ivi, p. 160. Si segnala, al riguardo, anche il video realizzato dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria  e presentato in occasione del IV Open Day dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Il video è visibile al seguente link: http://www.camerepenali.it/cat/9277/iv_open_day_ucpi_-_osservatorio_informazione_giudiziaria.html

[57] V.,  ancora una volta, il video diffuso dalla Procura di Bari nell’ambito dell’inchiesta sul Teatro Petruzzelli e la denuncia dell’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’UCPI. Nel video, scrive l’Osservatorio, «gli “stacchi” visivi alternano le riprese all’interno degli uffici di polizia giudiziaria a quelle girate nell’ufficio del direttore indagato, con suggestivi squarci del Teatro Petruzzelli. Il tutto allietato da una coinvolgente e deliziosa colonna sonora di musica classica». V. Il video del furgone di Bossetti era opera di dilettanti: a Bari sì che ci sanno fare!, in www.camerepenali.it, 15 gennaio 2016.

[58] Cfr. Yara Gambirasio, video su furgone di Bossetti confezionato. Comandante Ris: “Fatto per esigenze comunicative”, in «Il Fatto Quotidiano», 3 novembre 2015; “Il video del furgone di Bossetti? L’abbiamo confezionato per la stampa”, in «La Stampa», 3 novembre 2015.

[59] Cfr. Il misterioso caso dei ‘trailers’ giudiziari. C’è il segreto di Stato?, in www.camerepenali.it, 13 dicembre 2017.

[60] Circ. n. 2349/91-1 del 24 settembre 2017 del Comando Generale dell ‘Arma dei Carabinieri – Rapporti con gli organi di informazione.

[61] V., al riguardo, la ricostruzione effettuata da L. Granozio-F. Romeo, Gli “highlights” processuali. Comunicazione giudiziaria, magistratura, stampa: una sintesi dell’evoluzione dagli anni ’70 ai giorni nostri, cit., pp. 162-163.

[62] Con specifico riferimento alla costituzione di uffici stampa nelle Procure, si è detto che la finalità di garantire ai giornalisti parità di accesso alla fonte «non può essere ottenuta lasciando all’autorità inquirente il potere di somministrare verità ufficiali (in base a quali criteri, tra l’altro, deciderebbe il quando e il che cosa?)». V. G. Giostra, L’informazione giudiziaria non soltanto distorce la realtà rappresentata ma la cambia, in L’Informazione giudiziaria in Italia, cit., p.82.


Foto copertina:La Morte di Socrate (La Mort de Socrate) è un dipinto a olio su tela (129,5 × 196,2 cm) del pittore francese Jacques-Louis David, realizzato nel 1787 e conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.


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