Tra il 9 e il 20 maggio scorso, la Costa d’Avorio ha ospitato la riunione biennale delle delegazioni dei 197 Paesi firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione e agli Effetti della Siccità (UNCCD), in occasione della quale si sono svolte le sessioni della Quindicesima Conferenza delle Parti (COP15) e degli Organi Sussidiari.
A cura di Alessia Cannone e Valentina Chabert
Abidjan capitale della COP15
Esponenti del governo, del settore privato, della società civile ed organizzazioni non governative si sono unite alla comunità scientifica per discutere le modalità attraverso cui guidare il progresso nella futura gestione del territorio in un’ottica di sostenibilità, in linea con il tema centrale proposto per l’attuale sessione della Conferenza. I vertici delle scorse settimane hanno infatti posto in cima all’agenda le questioni chiave della lotta alla desertificazione, del recupero delle aree degradate e della mitigazione degli effetti della siccità, che – stando all’ultimo (e particolarmente pessimistico) report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC) – necessitano di un’azione urgente per scongiurare gli impatti negativi sulla biodiversità e l’equilibrio degli ecosistemi. Di analoga importanza le discussioni sui regimi di proprietà delle terre, l’uguaglianza di genere e l’impegno dei giovani nell’attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Desertificazione, nonchè i meccanismi di reporting e le sinergie con le grandi sfide globali – specialmente il superamento dell’emergenza pandemica da Covid-19.
Per l’elevato numero di Paesi coinvolti e la varietà di attori che hanno preso parte ai dibattiti, a primo impatto la COP15 potrebbe rappresentare un momento di elevata attenzione politica e stimolo di progetti operativi, con al centro l’ideazione di soluzioni per aumentare la resilienza alla siccità. A tal proposito, consultazioni regionali con paesi dell’Africa, Asia, America Latina e Caraibi, Mediterraneo settentrionale ed Europa hanno fornito l’occasione per discutere congiuntamente della concreta implementazione della Convenzione, promuovendo, al contempo, l’interconnessione tra approcci di neutralità del degrado del suolo e di catene di valore sostenibili.
Desertificazione, migrazioni e sicurezza internazionale
L’aumento dei fenomeni metereologici estremi e le implicazioni sempre più evidenti per la stabilità sociale hanno portato la Commissione Bruntland, sul finire degli anni Ottanta, ad esortare in maniera pionieristica una revisione del concetto tradizionale di sicurezza: in particolare, tra le righe del rapporto “Our Common Futurre” in seno alla World Commission on Environment and Development (WCED) è emersa una chiara necessità di annoverare tra i fattori potenzialmente destabilizzanti per la sicurezza internazionale anche le ripercussioni politiche, economiche e sociali dei cambiamenti climatici e delle crisi ambientali. Sulla scia del Rapporto Bruntland, nei primi anni Novanta la nuova disciplina dell’environmental security ha esteso l’incidenza delle componenti ambientali fra i possibili moventi anche di guerre e conflitti, mentre solo nel 2009 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che, richiedendo alle proprie Agenzie di intensificare gli sforzi per combattere l’effetto serra, riconosce le potenziali minacce del riscaldamento globale per la sicurezza internazionale. In tale scenario, il dibattito attuale ha portato numerose organizzazioni internazionali e la comunità scientifica a ritenere come il cambiamento climatico costituisca un threat multiplier – un “moltiplicatore di minacce” che amplificherà le crisi economiche, sociali, politiche e sanitarie in atto e sarà in grado di mettere sotto pressione stabilità dei già vulnerabili segmenti più poveri della popolazione globale, esacerbando, ad esempio, i fenomeni migratori tanto verso l’Occidente quanto all’interno del paese colpito dalla crisi climatica – un processo noto come Internally Displaced People. A questo proposito, con l’obiettivo di mitigare gli spostamenti di persone indotte dai cambiamenti climatici nel (e dal) continente africano, tra il 2010 e il 2015 scienziati dell’Unione Europea e dell’Africa occidentale hanno preso parte in maniera congiunta al progetto UNDESERT (Understanding and combating desertification to mitigate its impact on ecosystem services), ideato al fine di implementare misure di mitigazione della desertificazione attraverso la cooperazione con le popolazioni locali in zone aride, semi-aride e sub-umide particolarmente esposte ai cambiamenti climatici e all’attività umana. Le misure hanno previsto il ripristino dei servizi ecosistemici attraverso la creazione di “foreste di carbonio” e lo studio di linee guida per la gestione sostenibile delle risorse naturali, con particolare attenzione alla distribuzione delle specie vegetali e dei modelli di diversità delle specie alimentari. Ciononostante, secondo i dati dell’ONU sono oltre 1,5 miliardi le persone colpite dagli effetti della desertificazione e dal degrado del suolo – di cui la maggior parte in Africa, dove il fenomeno colpisce circa il 65% del continente. Di fatto, ogni anno l’Africa perde circa 280 milioni di tonnellate di cereali su 105 milioni di ettari di terreno coltivato, e le pratiche agricole in uso continuano a rappresentare il più grande contributo alla deforestazione e desertificazione del territorio. Coltivazioni senza l’aggiunta di integratori, pascoli eccessivi, la mancanza di strutture per la conservazione del suolo e dell’acqua e incendi aggravano infatti le condizioni dei 319 milioni di ettari di terreno vulnerabili alla desertificazione, che – solo nelle regioni semi-aride dell’Africa Occidentale – procede a ritmi di 5 km all’anno. Allo stesso tempo, il fenomeno non sembra accingersi ad un arresto per via delle sempre più diffuse pratiche di sfruttamento delle risorse naturali, compresa l’apertura di nuove miniere illegali, piantagioni ed agricoltura intensiva e, non da ultimo, l’intensificarsi del traffico di legname in gran parte degli Stati continentali. Resta inoltre da chiedersi quale sarà il peso della crisi alimentare provocata dalla scarsità di grano e cereali come effetto del conflitto in Ucraina, tra i maggiori produttori ed esportatori mondiali anche verso l’Africa: se l’Egitto ha iniziato a mostrare i primi segni di difficoltà, la mancanza di uno dei beni di necessità primaria per il popolo africano e gli effetti della desertificazione potrebbero far precipitare il continente in una crisi alimentare senza precedenti.
Le iniziative africane a tutela dell’ambiente tra progetti governativi e società civile impegnata.
Alassane Ouattara e Jean-Luc Assi rispettivamente capo di stato e Ministro per l’Ambiente ivoriani hanno sottolineato come l’emergenza climatica africana potrebbe portare alla completa distruzione delle foreste del Paese. Hanno ragione: da inizio ‘900 la superficie forestale è diminuita dell’80% a causa, tra le varie, delle piantagioni di cacao (legali e illegali), e traffico di legname. Il governo ha presentato in occasione della COP15 “L’Initiative d’Abidjan” che ha per obiettivo la sostenibilità ambientale attraverso la gestione consapevole del suolo e il ripristino delle foreste per permettere al settore agricolo di generare “impiego e reddito in una prospettiva di equilibrio sociale che possa garantire a tutta la società il diritto ad un’alimentazione equilibrata e una vita decente”.
In Algeria, colpita sempre di più da violenti incendi, le donne sono depositarie e protettrici dell’ecosistema. I fondi stanziati dal ministero per l’ambiente hanno permesso la fondazione di cooperative per la valorizzazione e la tutela delle risorse naturali nei pressi del parco nazionale di El Kala, già minacciato dal cambiamento climatico e dalle attività umane, in una funzione di integrazione della popolazione rurale nella lotta alla desertificazione e al miglioramento delle condizioni di vita.In Kenya la società civile è molto attiva quando si tratta di tutela ambientale. Il Paese ha da sempre vissuto siccità cicliche che si ripetevano nel corso di 5-10 anni, ma nell’ultimo decennio ogni due anni si presentano stagioni piovose molto scarse che non permettono ai pascoli e al territorio di rigenerarsi. Conseguenze dirette la perdita dei capi di bestiame, terre non più produttive che inaspriscono la crisi alimentare e mettono in pericolo di vita migliaia di persone. Le province kenyote oltre a sviluppare buone prassi, spingono molto affinché il governo applichi prioritariamente politiche per combattere il fenomeno. L’aumento dei prezzi dei carburanti e del gas causato dal conflitto russo-ucraino potrebbe costringere la popolazione utilizzare gli alberi come combustibili per le attività quotidiane, peggiorando ulteriormente la crisi ambientale.
ONG a supporto della realtà africana
La grande muraglia verde è solo un esempio di quello che il terzo settore sta facendo per combattere il fenomeno. A livello meno macroscopico, ONG e società civili cooperano da anni affinché le buone pratiche siano messe in campo e utilizzate. Dal 2010 Resad (Réseau Sahel Désertification) coordina quattro piattaforme nazionali (Burkina Faso, Niger, Mali e Francia) che raggruppano ONG e associazioni di sviluppo nazionali, internazionali e organizzazioni comunitarie. Rinforzo delle capacità, gestione sostenibile dei territori, advocacy e mobilitazione dell’opinione pubblica sono gli strumenti cruciali ma inutili se non vengono coinvolti gli attori locali. Le comunità rurali infatti sono i destinatari e i protagonisti nel ripristino delle terre, nella gestione sostenibile delle risorse naturali e canali per la diffusione delle buone pratiche. “Les communautés reverdissent le Sahel” promuove la coltivazione di terre in zone tampone per assicurare la sicurezza alimentare e la tutela della biodiversità. Il progetto, che si concluderà nel 2027, si propone di ripristino 200.000 ettari di terreno su tre Paesi, coinvolgendo i piccoli agricoltori, i pastori nomadi, donne e giovani.
A livello microscopico, anche i singoli contribuiscono alla causa. L’agricoltore burkinabé Yacouba Sawadogo, attraverso un’antica tecnica agricola chiamata zai, ha piantato numerosi alberi nei pressi del suo villaggio che in pochi anni hanno dato origine ad una foresta di 40 ettari, rigenerando il terreno che era stato impoverito dallo sfruttamento agricolo.
Politiche e finanziamenti: un passo in avanti?
La COP15 si è tradotta nell’adozione di 38 decisioni in linea con le precedenti politiche dei singoli stati e dell’agenda proposta per la conferenza. Saranno stanziati ulteriori aiuti finanziari per sostenere le nazioni nella lotta agli impatti della siccità e nello sviluppo di una sempre più solida capacità di resilienza, come per esempio il programma finanziato dagli USA “Abidjan Legacy Programme” che con i suoi 2.5 miliardi di dollari aiuterà a fronteggiare la deforestazione e il cambiamento climatico.
I 197 leader partecipanti si sono infine accordati sulla creazione di un Intergovernmental Working Group on Drought per il biennio 2022-2024, al fine di esplorare politiche globali e regionali capaci di portare un cambiamento nella gestione delle aree a rischio, con un approccio inclusivo. Siamo di fronte ad un punto di svolta o all’ ennesimo restatement in stile Glasgow? A favore del successo della COP15 potrebbe giocare la pandemia e il fattore Ucraina, che stanno già esacerbando una crisi alimentare e depauperando le riserve alimentari dei governi. Ciononostante, sui finanziamenti resta un alone di incertezza: La finanza sarà inclusiva e in grado di dare voce alla comunità scientifica africana – depositaria di conoscenze concretamente applicabili al contesto territoriale – ma in sofferenza per la mancanza di fondi?
Foto copertina: Some African leaders present at the COP15 summit in Abidjan (AFP or licensors)